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Le «cinque giornate» dell’Europa

di Luca Ricolfi

Può darsi che vada tutto bene. Può darsi che le “cinque giornate dell’Europa” (dal 22 al 26 gennaio di questo mese), passino senza traumi. Può darsi che fra 15 giorni ci si trovi tutti quanti a tirare un sospiro di sollievo, e a dirci che, forse, ci eravamo preoccupati troppo.

È lo scenario A, che possiamo immaginare così: giovedì 22 gennaio la Banca Centrale Europea, dopo tanti annunci, vara effettivamente il quantitative easing;
venerdì 23 i mercati brindano, con borse in rialzo e spread in discesa;
domenica 25 la Grecia va al voto ma Tsipras non vince, oppure vince ma riesce a rassicurare i mercati;
lunedì 26, quando i mercati riaprono, non succede nulla di drammatico, o addirittura continua l'euforia.

È realistico questo scenario?

O è più realistico lo scenario B, ossia l’eventualità che qualcosa vada storto (Banca Centrale Europea spaccata, o tentennante), o che qualcosa sia mal digerito dai mercati (bellicose dichiarazioni di Tsipras dopo la vittoria)?

Questo non lo sa nessuno, perché la politica europea (compresa quella italiana) è una macchina programmata per produrre incertezza. I mercati sono animali sensibili, e più li si inonda di incertezza, meno ci si mette nelle condizioni di prevederne i comportamenti.

Anziché fare pronostici sull’esito delle cinque giornate dell’Europa, vale allora forse la pena provare a rispondere a un’altra domanda: se a prevalere fosse invece lo scenario B, l’Italia sarebbe in condizione di reggere l’urto?

Io penso di no, e provo a spiegare perché.

La ragione principale del mio pessimismo non è quella di solito invocata in questo genere di discussioni, e cioè che l’Italia avrebbe fatto ancora troppo poco sul terreno delle riforme. Che con Renzi l’Italia stia “cambiando verso”, come dicono i cantori del renzismo, o che invece stia come sempre facendo ammuina, come denunciano gufi e rosiconi, è questione indecidibile, come quella del bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto. Quello che invece si può dire con notevole precisione è se i mercati finanziari, da cui piaccia o non piaccia dipendiamo, abbiano apprezzato oppure no il comportamento dell’Italia dopo la crisi del 2011. Questa è la questione importante, perché dalla risposta ad essa dipende quel che potrebbe succederci nello scenario B.

Ebbene, qui la risposta è piuttosto univoca e chiara, ed è: no, i mercati non hanno apprezzato per niente. Checché si affannino a dichiarare i nostri politici, il giudizio dei mercati sull’Italia non è stato positivo, né ieri con Letta né oggi con Renzi.

E la discesa dello spread? - direte voi. Non è un segnale di apprezzamento?

Lo spread dei titoli di stato dell’Italia rispetto a quelli della Germania, in realtà, è il più ingannevole degli indicatori, perché può andare bene quando noi andiamo male.

Per farci un’idea del giudizio dei mercati sull’Italia non dobbiamo guardare solo come il rendimento dei titoli italiani evolve rispetto a quello dei titoli dei Paesi virtuosi (Germania in testa), ma dobbiamo guardare con altrettanta, se non maggiore, attenzione come evolve nei confronti di quello degli altri Pigs (Portogallo, Irlanda, Grecia, Spagna). Perché anche se, dopo le famose parole di Draghi (“faremo tutto quello che occorre”) le acque sembrano tornate calme, in caso di crisi, ossia se dovesse prevalere lo scenario B, quello che conterebbe davvero non è il nostro differenziale con la Germania, ma la nostra vulnerabilità relativa rispetto agli altri Pigs.

Ebbene, se facciamo questo confronto, la storia è ben poco rassicurante. Nel luglio del 2011 (ancora regnante Berlusconi) la posizione relativa dell’Italia era la migliore fra quelle dei 5 Pigs, nel senso che tutti e 4 gli altri Paesi dovevano pagare interessi maggiori dei nostri. Durante il periodo peggiore della crisi, ossia dall’estate del 2011 all’estate del 2012 (regnante Monti), la posizione dell’Italia è sempre rimasta migliore di quelle di Grecia, Portogallo e Irlanda e, in 8 mesi su 15, è stata anche migliore di quella della Spagna. Oggi non è più così: Irlanda e Spagna hanno rendimenti migliori dei nostri, il Portogallo li ha leggermente peggiori, solo la Grecia sta decisamente peggio di noi. Se prevalesse lo scenario B, saremmo tutt’altro che al sicuro.

Ma quando è avvenuta la svolta? Quando abbiamo cominciato a perdere colpi rispetto agli altri Pigs? Se si eccettua il caso estremo della Grecia, ancora lontanissima dalla normalità e da parecchi mesi tornata nel mirino dei mercati, si può dire che il deterioramento della nostra posizione rispetto agli altri Pigs è divenuto una tendenza di fondo da due anni esatti, ovvero dal gennaio 2013, quando abbiamo cominciato a perdere posizioni non solo verso Irlanda e Portogallo, ma anche rispetto alla Spagna. Da allora il giudizio dei mercati sull’Italia si è fatto sempre più severo.

Ci si potrebbe consolare immaginando che, in realtà, i mercati siano ancora dormienti e tranquilli, rassicurati da Draghi e ringalluzziti dalla promessa del quantitative easing. Purtroppo anche questa, come quella dello spread, è un’illusione. I mercati possono essere considerati veramente tranquilli (fin troppo tranquilli, in realtà!) solo quando la dispersione dei rendimenti è prossima a zero, come è stato nel decennio felice che va dalla nascita dell’euro al fallimento di Lehman Brothers. Ma oggi non è così. Comunque si misuri la dispersione dei rendimenti, la sua serie storica mostra chiaramente che è dal maggio 2014, ossia da ben 9 mesi, che i mercati sono tornati a innervosirsi, cioè a percepire differenze significative nei rischi di default degli stati sovrani dell’Eurozona. Non solo, ma il livello di nervosismo è analogo a quello della primavera del 2011, quando fu proprio la progressiva differenziazione dei rendimenti a fornire, a chi avesse voluto leggerlo, il segnale che qualcosa stava per accadere.

Non ci resta che sperare che la storia non si ripeta, ma se si ripetesse non potremmo dire che non eravamo stati avvertiti.

(dal Sole 24 Ore - 11 gennaio 2015)

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