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Non possiamo essere l'economia dell'1% (forse)

di Adriana Cerretelli

Davvero l'Europa intende rassegnarsi a diventare l'economia dell'1% nel mondo globale? Il rischio c'è ed è molto concreto. Non è necessario spingersi fino a prendere per buone le plumbee previsioni dell'ex-segretario al Tesoro Usa, Larry Summers, che ne annuncia la «stagnazione secolare». Bastano quelle della Commissione Ue che per il prossimo decennio si attendono per l'eurozona una crescita media inchiodata appunto all'1%, cioè a un tasso che sarà meno della metà di quello degli Stati Uniti. O gli ultimi dati Ocse che danno l'area euro schiacciata sui ritmi giapponesi nel biennio 2014-15 con uno sviluppo annuo dello 0,8 e 1,1% contro lo 0,4 e 0,8 % di Tokyo, quando l'America viaggia sul 2,2 e 3,1%, il mondo sul 3,3 e 3,7%, gli emergenti sul 5,1 e 5,4%.

Numeri non sorprendenti, per molti aspetti soltanto feroci e impietose conferme della china pericolosa, e finora senza ritorno, su cui l'Europa si è incamminata: l'orizzonte è la sindrome nipponica, lunga stagnazione a braccetto con lo spettro della deflazione. Una miscela esplosiva non solo per la stabilità economica e finanziaria e per la sostenibilità dei debiti ma anche per la tenuta politica e la sostenibilità dei governi e delle democrazie europee.

«Se 10 anni fa qualcuno mi avesse detto che l'Europa poteva crollare, gli avrei risposto impossibile. Oggi la realtà è profondamente cambiata. La svolta è arrivata nel 2009 con la crisi scoppiata oltre Atlantico. Da continente win-win, simbolo di crescita e di benessere, l'Europa è diventata il pianeta della stasi economica e delle divisioni: con la solidarietà a rischio e senza idee non resisterà a lungo» affermava qualche settimana fa a Bruxelles l'ex ministro degli Esteri tedesco Joschka Fischer. Denunciando la «crisi strutturale della governance europea che, in ultima analisi, è la crisi delle sovranità nazionali». Bocciando «le politiche di austerità che hanno trasformato la crisi dell'euro in una crisi politica, alienandosi il consenso dei cittadini». Davvero c'è da stupirsi se un disoccupato diventa euroscettico? In Europa ce ne sono 26 milioni, quanti la popolazione di Belgio e Olanda. «Ma è possibile che politica e finanza in Germania non si rendano conto che l'America ha ripreso a correre (+5% la crescita nell'ultimo trimestre 2014,) perché ha attuato azioni economiche e monetarie fortemente espansive e che questa è la strada per risollevare la domanda interna in Europa» si chiedeva e chiedeva questo giornale nella lettera di Natale ai propri lettori.

La soluzione dell'1% non è una scelta economicamente sostenibile, nemmeno per i Paesi più ricchi e solidi, come la Germania o i Paesi scandinavi.

Perché nel mondo dinamico e aperto della competizione globale quel modello è semplicemente sinonimo di un declino lento ma ineluttabile, è lo specchio di una società vecchia che non vuole cambiare troppo, nella pia illusione di riuscire comunque a difendere le proprie rendite di posizione, il proprio generoso welfare pur senza produrre più le risorse necessarie a sostenerli.

La riprova sta negli annunci di tante finte ripartenze, di sterzate che si fermano sempre alle parole, troppo spesso confuse perché i disaccordi regnano sovrani almeno quanto le contrapposizioni di interessi, che si vogliono inconciliabili perché si è perso il senso della politica come arte del compromesso in un'Europa piegata, svuotata da una sfiducia reciproca che si credeva guarita da 60 anni di integrazione e che invece sta riportando indietro gli orologi della storia, verso egoismi e nazionalismi. Verso l'eurofobia.
avvertì' Francois Mitterrand nel 1984 in uno storico discorso a Strasburgo davanti al parlamento europeo. Anche allora erano tempi di euroscetticismo e di eurosclerosi nella piccola Unione dei Nove che con gli anni sarebbe salita a Ventotto. Il campanello di allarme del presidente francese suonò la riscossa: di lì a poco sarebbero arrivati i nuovi Trattati che nel giro di 7 anni posero le basi giuridiche per creare prima il mercato interno senza frontiere e poi la moneta unica.

Tra la piccola Europa di allora e la grande di oggi c'è un abisso di eterogeneità allora persino inconcepibili: il muro di Berlino nel 1984 si credeva eretto per l'eternità. Ma l'incomunicabilità che oggi tormenta i 19 paesi dell'euro e ne perpetua la crisi non nasce dagli allargamenti ma dalle irrisolte contraddizioni dentro il suo nucleo duro, dal dialogo apparentemente sempre più impossibile tra Germania e Francia. Che si riassume, in fondo, in quella crisi delle sovranità nazionali di cui parlava Fischer. La stessa che da anni impedisce il salto dall'unione monetaria a quella economica e politica, il toccasana contro il disastro.: è solare il teorema di Mario Draghi, il presidente della Bce che si appresta a lanciare il quantative easing che comprenda anche l'acquisto di titoli di Stato nella speranza di fermare la deflazione e quindi, in prospettiva, il rischio implosione dell'euro, pur sapendo di attirarsi contro gli strali tedeschi, compresa una pioggia di ricorsi per presunta illegalità delle sue decisioni.

Si fa presto a dire che i patti europei vanno rispettati, che la crescita è il premio delle virtù economiche fatte di conti pubblici sani e sistemi competitivi perché debitamente riformati, che quindi il piano Juncker da 315 miliardi in tre anni per rilanciarla va essenzialmente finanziato da investitori privati (finora più che riluttanti), che la solidarietà non è un esercizio a fondo perduto e la flessibilità delle regole va centellinata per non indurre in errore chi la ottiene.

Sono tutte affermazioni inattaccabili in dottrina e sulla carta. Ma quando si scontrano con la realtà di oggi, con l'economia dell'1% che erode il consenso popolare all'Europa, cioè il sale delle democrazie e del progetto di integrazione europea, diventano molto più fragili, anzi devastanti.

Il 2015 sarà l'anno delle elezioni in Grecia a fine gennaio, in Gran Bretagna in maggio quando si terranno anche le regionali in Spagna, che poi andrà alle urne in novembre. In ottobre sarà il turno del Portogallo. Dovunque i partiti anti-sistema e anti-partiti tradizionali sono in testa, con la sola eccezione di Lisbona dove per ora i socialisti sono dati vincenti. Ma i sentimenti nazionalisti ed euroscettici crescono dovunque: in Irlanda, Francia, Germania, Olanda e Italia, anche se spesso per ragioni tra loro opposte.
Il perché in fondo poco importa. Conta il risultato, che indebolisce i Governi in carica e promette di eleggerne di nuovi poco o comunque meno disponibili ad accettare la disciplina di un'Europa che chiede sacrifici pesanti ma oggi è in grado di redistribuire, nella migliore delle ipotesi, una crescita esile.
Incapace di riassorbire la disoccupazione, di dare speranze, la promessa di un futuro migliore.

Ci vorrebbe una svolta drastica, una professione di generosità, coraggio e realismo generali che, all'insegna dei diritti e dei doveri reciproci, invertisse il corso della storia europea come avvenne alla metà degli anni '80. Ci vorrebbe più sovranità in comune per più riforme, più crescita e solidarietà europea nei fatti. Più fiducia nel vicino della porta accanto nonostante una fetta sempre più larga dell'opinione pubblica remi contro chi ci prova. Ci vorrebbe una forte leadership collettiva. La visione solitaria di Draghi non basta.

(dal Sole 24 Ore - 3 gennaio 2015)

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