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La forza e la debolezza del Premier

di luca ricolfi

E’ passato quasi un anno da quando Renzi e i suoi hanno dato il benservito alla vecchia guardia. Da allora di Bersani, Bindi, D’Alema, Prodi, Veltroni, si parla pochissimo. E per la verità pochissimo si parla anche di Enrico Letta e Angelino Alfano, appena più vecchi di Renzi, ma anch’essi inesorabilmente travolti dall’ascesa del sindaco di Firenze.

Possiamo dire che è stato un progresso? Possiamo dire che la nuova guardia ha superato la prova? Forse sì, se il termine di paragone è la vecchia guardia stessa. Non saprei dire se la preparazione e la competenza dei nuovi siano ancora più modeste di quelle dei vecchi (anche se, dovendo pronunciarmi, propenderei per il sì). Il punto però è che la nuova guardia è esente da un difetto imperdonabile ed esiziale della vecchia: l’immobilismo. Di Renzi e dei suoi tutto si può dire, meno che abbiano paura di rompere gli schemi.
E questa, la volontà di cambiare, più che un bene, è un prerequisito di qualsiasi tentativo di salvare l’Italia dal declino in cui è immersa da almeno quindici anni.
Credo che, più o meno coscientemente, questa sia una cosa che ogni italiano avverte, e una delle ragioni del credito che Renzi continua a riscuotere dall’elettorato.

Il discorso, tuttavia, cambia sensibilmente se il termine di paragone non è la qualità di chi c’era prima, ma sono le promesse di Renzi. Qui siamo messi maluccio. Non è il caso di infierire con l’elenco delle scadenze disattese e degli impegni non rispettati, ma credo che chiunque provi a ripercorrere questi dieci mesi non potrebbe non constatare che quasi nulla di ciò che era stato annunciato entro una certa data è stato portato a termine nei tempi previsti, e buona parte attende tuttora di essere portato a compimento.

Quel che è interessante, tuttavia, è che i ritardi e i tradimenti di Renzi non paiono incrinare più di tanto il consenso di cui gode nel paese, e tutt’al più alimentano i borbottii dei suoi critici (un club piuttosto ristretto, cui pare sia iscritto anch’io). Perché?
Me lo sono chiesto spesso, e credo che se si vuole dare una risposta onesta non ce la si possa cavare con la solita spiegazione, secondo cui il pubblico è ignorante, superficiale e abbindolabile. Questa risposta era già sbagliata quando la si usava per spiegare il successo di Berlusconi, e resta sostanzialmente sbagliata anche oggi, quando la si ricicla per spiegare la tenuta di Renzi. No, se Renzi piace nonostante i limiti della sua azione politica, non è perché il pubblico non veda tali limiti. A me la ragione di fondo della tenuta di Renzi pare tutta un’altra: l’elettorato usa due pesi e due misure con i successi e gli insuccessi di Renzi, e tutto sommato ha qualche ragione per adottare questo doppio registro.

Vediamo come funziona. Intanto bisogna dire che alcune norme varate da Renzi hanno effetti positivi e, soprattutto, immediatamente tangibili, su specifiche categorie sociali: bonus da 80 euro, riduzione dell’Irap, decontribuzione per i neoassunti. Queste misure sono puntualmente riconoscibili nei benefici (perché chi ne usufruisce «se ne accorge») ma opache e diffuse nelle coperture e negli effetti collaterali (perché i relativi costi sono distribuiti su una miriade di soggetti, comprese le generazioni future). Quindi il pubblico ne percepisce il lato benefico, ma ne ignora o ne sottovaluta il lato oscuro (aumento di altre tasse, riduzione di servizi, maggiore deficit pubblico).

C’è poi un secondo meccanismo fondamentale: l’attribuzione esterna (cioè ad altri) della responsabilità dei ritardi. Giusta o sbagliata che sia, finora a livello di opinione pubblica è passata l’idea che il premier vorrebbe cambiare le cose, e cambiarle alla svelta, ma non ci riesce perché innumerevoli poteri, forti e deboli, cercano di ostacolarne l’azione. Se le riforme costituzionali ritardano, se i costi della politica restano alti, se il Jobs Act non è ancora legge, se la Pubblica amministrazione non paga i suoi debiti, non è colpa di Renzi ma è colpa dei sindacati, della minoranza Pd, dei poteri forti, dei burocrati dei ministeri, dei tecnocrati europei.

E infine c’è la ragione probabilmente più potente che rende il premier invulnerabile alle critiche: la mancanza di un’alternativa. Anche chi si rende conto dei tanti limiti delle giovani marmotte, anche chi ne depreca la superficialità e l’impreparazione, anche chi non sopporta l’arroganza di alcuni dei nuovi venuti, non può che arrendersi di fronte al cosiddetto argomento Tina, di thatcheriana memoria: There Is No Alternative.
Quest’ultimo, a mio parere, è il maggiore fattore di rischio per Renzi, perché nulla garantisce che la mancanza di alternative si protragga indefinitamente. E’ vero, quello di una scena politica povera di idee e presidiata da personaggi mediocri resta lo scenario più verosimile, tuttavia non è detto che il convento della politica italiana sia destinato a offrire per sempre uno spettacolo così modesto come quello che va in scena da alcuni anni. Se, per una felice quanto improbabile combinazione astrale, lo spettacolo dovesse cambiare, se nuove idee (sensate) e nuovi leader (credibili) si dovessero aprire un varco nella scena pubblica, nulla di ciò che ha protetto Renzi fin qui basterebbe a prolungarne il regno. E, simmetricamente, se il piccolo teatro della politica italiana continuasse a offrire il deprimente spettacolo di questi anni, non c’è errore o promessa mancata che basterebbero a provocare la caduta del re.

(da La Stampa - 27 dicembre 2014)

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