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Frenare la corsa delle lobby

di stefano lepri

Se il Congresso degli Stati Uniti esaminando la legge di spesa federale per il 2015 ha anche votato contro la protezione di un uccello noto come «gallo della salvia», e nella maxi-manovra anticrisi del drammatico febbraio 2009 aveva inserito incentivi ai produttori del gioco delle freccette, si capisce che qualche degenerazione si produce in tutte le grandi democrazie.

Non per questo sono meno preoccupanti le traversie della legge di stabilità 2015 nel nostro Parlamento. Vanno esaminate per ciò che ci rivelano sullo stato del nostro sistema politico. Matteo Renzi si vanta di aver fermato in extremis il tradizionale assalto alla diligenza; ne ha solo ridimensionato gli effetti.

Il grosso della manovra, non troppo stravolto dalle aggiunte, mostra una limitata capacità di incidere. Un calo delle imposte c’è, seppur assai inferiore ai 18 miliardi di euro vantati dalla propaganda governativa. Le imprese pagheranno 4,5 miliardi in meno; gli 80 euro ai redditi più bassi sono resi duraturi.
Il carico fiscale complessivo dovrebbe ridursi di 8 miliardi netti nelle stime della Banca d’Italia; sarà meglio distribuito grazie a misure una volta tanto concrete contro l’evasione.

Quanto agli effetti sull’economia, «espansivi» secondo il governo, la maggior parte degli esperti valuta che saranno all’incirca neutrali. Le controverse regole di bilancio europee ci chiedono in realtà una manovra restrittiva: nei calcoli fatti a Bruxelles, questa lo sarà solo per lo 0,1% del prodotto lordo, poco o nulla.
L’interrogativo più importante concerne lo sgravio di contributi alle nuove assunzioni a tempo indeterminato. Se davvero i decreti di attuazione del «Jobs Act» convinceranno le imprese a creare nuovi posti fissi in buon numero, gli 1,7 miliardi stanziati finiranno prima di metà anno, e si creerà il problema di trovare altre risorse.

Su come fare di più e meglio, di voci se ne sono sentite tante. Sfidare le regole europee – come molti sono bravi a proporre dall’opposizione e non osano mai fare se al governo – poteva riuscire controproducente, come ha spiegato Piercarlo Padoan. Però un serio programma pluriennale di revisione delle spese avrebbe consentito di ottenere di più.
Una occasione è stata perduta per incidere su quanto gli scandali, a Roma e altrove, rivelano. Sono timide le norme approvate in Senato per iniziare la pulizia delle partecipate degli enti locali. Proprio alla responsabilità di Regioni e Comuni è affidata la speranza che i tagli ai loro fondi non si traducano in aggravi fiscali (magari dopo il voto amministrativo della primavera).

E poi c’è il pulviscolo di micro-misure che si ripete, nonostante le riforme della sessione di bilancio che promettevano di eliminarlo. Lo stesso ministro dell’Economia si sente tenuto a ricordare che sono ripristinate le agevolazioni al gasolio per l’autotrasporto: un incentivo a inquinare mantenuto dalla minaccia di sciopero dei Tir.

Un problema di fondo continua ad essere eluso. Non si tratta di decidere se sia giusto o meno, ad esempio, stanziare 50 milioni per la lotta alla ludopatia, ossia alla mania del gioco d’azzardo. Bisogna al contrario capire se le strutture pubbliche che abbiamo sono davvero capaci di fare qualcosa per combattere questo brutto vizio, oppure no. Solo così si può evitare di sprecare denaro.

Per inanellare promesse la politica chiede allo Stato di fare di tutto, senza mai preoccuparsi se ci riesca. E se vogliamo frenare la corsa a compiacere i lobbisti, non basta il monocameralismo: occorrono anche una più forte riduzione nel numero dei parlamentari, un legame stretto tra eletto e collegio, regolamenti della Camera che non consentano a pochi di rallentare i lavori.

(da La Stampa - 21 sdicembre 2014)

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