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Se il Paese non si libera del passato

di mario calabresi

Il nostro campo da gioco è il mondo ma non abbiamo più voglia di dirlo anzi vorremmo negarlo e se fosse possibile dimenticarlo. «Basta con questo pianeta globale, con l’Europa, con la sua moneta e tutte queste regole, basta con gli sforzi e le riforme che ci chiedono»: queste parole, pronunciate in modo più o meno gentile e nell’ordine che preferite, sono ormai un sentire comune, rimbombano in televisione, nei bar, nelle cucine di casa ed escono dalla bocca di ogni politico che voglia presentarsi come nuovo e in sintonia con i tempi.

Pensiamo di avere il diritto - visto il prezzo che stiamo pagando ad una crisi che non vuole finire - di chiuderci in casa ed essere lasciati un po’ in pace per mettere la testa sotto il cuscino e poter sognare i bei tempi andati.

Se servisse a qualcosa, o se non facesse danni, non sarebbe nemmeno male prendersi una pausa e lasciarsi andare alla nostalgia. Ma non è così: ogni istante che perdiamo, in cui scegliamo di stare fermi o di arretrare, in cui ci incantiamo a guardare indietro è uno scivolamento ulteriore verso il fondo, una nuova ipoteca sul futuro. Il dibattito di queste settimane è un insulto alla ragione, tutto costruito su polemiche interne mentre il Paese sprofonda negli scandali.

Venerdì a Torino ho ascoltato per tutta la mattina un confronto tra italiani e tedeschi aperto la sera prima dai presidenti dei due Paesi. C’erano professori, diplomatici, imprenditori, giornalisti, tutti hanno parlato, in modo veramente franco e senza nessuna falsa cortesia, del rapporto ogni giorno più faticoso tra noi e Berlino.

Solitamente mi irritano le persone che si mettono in cattedra e non sopporto chi ricorda ogni giorno che dobbiamo fare bene «i compiti a casa», ma passato un primo fastidio verso chi tende a darci lezioni, sono rimasto colpito dalla passione con cui i tedeschi parlano dell’Italia e dei suoi giovani. Il campione che avevo davanti era ampio e rappresentativo della società tedesca e delle sue classi dirigenti e ho colto uno stupore generale, che in alcuni era incredulità, per la nostra inerzia davanti al declino. Quattro frasi mi sono rimaste sul foglio che avevo davanti: «E’ immorale la disoccupazione giovanile italiana. E’ uno scandalo accettare di avere quasi la metà dei giovani senza lavoro, dovete insegnargli che possono farcela e costruirgli una chance. E’ eticamente irresponsabile che ci siano giovani che escono da scuola senza avere alcuna prospettiva professionale. Ma come potete pensare di non mettere a posto il Paese per i vostri figli, noi quando abbiamo capito che rischiavano di non avere un futuro abbiamo fatto riforme vere». Il tono di chi le ha pronunciate era realmente preoccupato e quando sono uscito mi sono infilato nel traffico congestionato dallo sciopero generale. Ho pensato a quanto abbia la testa rivolta al passato il nostro dibattito quotidiano, discussione in cui ci guardiamo i piedi, in cui non mettiamo mai la testa fuori di casa, in cui il futuro non esiste perché non si ha il coraggio di immaginarlo, ma soprattutto di costruirlo.

Riforme, «c’è bisogno di riforme» ci ripetono tutti, ogni giorno, con un’insistenza che appare petulanza. La parola provoca ormai allergia, rifiuto, ma se proviamo a tradurla in realtà potrebbe anche significare fare una vita migliore, diventare un Paese normale. Le riforme dovrebbero servire a far funzionare un’Italia ormai immobile, in cui nessuno investe – né da dentro né da fuori – perché non ci sono certezze. Una voce tedesca lo ha spiegato con matematica chiarezza: «E’ impossibile prevedere i tempi di apertura di un’attività, nessuno sa quanto ci vorrà per ottenere un permesso, una firma, un certificato, nessuno sa quanto potrà durare un processo in caso di contenzioso e poi ci sono troppe inimicizie e contrapposizioni e non si può sempre guardare con sospetto chi investe». Ma un po’ di certezza non farebbe bene anche a noi che paghiamo ogni giorno il conto di riti, tradizioni e burocrazie che non hanno più senso di esistere?

Ma accanto alle riforme avremmo bisogno di un cambio culturale, di aggiornare un dibattito stantio, giornali e televisioni continuano a leggere la realtà con le lenti del secolo scorso, a rappresentare i soggetti in campo secondo schemi superati. Se pensiamo che ormai pure la parola crescita è messa all’indice, ci hanno detto che dovevamo sperare nella decrescita felice, di decrescita purtroppo ce n’è molta, ma di felicità non ne vedo nemmeno un po’ in giro e penso che sia invece naturale crescere e svilupparsi, anche perché non ho mai visto un bambino decrescere. Sosteniamo chi ha il coraggio ogni giorno di aprire un negozio, un’attività, di inventarsi un mestiere anziché partire, di sperare anziché lamentarsi.

Proviamo a fare finalmente il funerale ad un passato che non tornerà, a fare i conti con il lutto, a liberarci dei fantasmi e soprattutto a mettere da parte una conflittualità suicida che ha già rovinato troppe volte l’Italia.

(da La Stampa - 14 dicembre 2014)

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