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Le torbide conseguenze dei sospetti

di michele brambilla

Il Presidente della Repubblica ha dunque risposto ieri, nel tanto atteso interrogatorio al Quirinale, alle domande dei magistrati e degli avvocati impegnati nel processo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia. Per la precisione ha risposto a «tutte» le domande: aveva detto di non avere nulla da nascondere, e nulla ha nascosto. Va aggiunto che c’è un terzo «nulla» di cui parlare, ed è il nulla che seguirà dal punto di vista giudiziario, visto che c’era pure un quarto «nulla», e cioè il punto di partenza. Il Presidente della Repubblica - come spiega bene Francesco La Licata nella sua analisi - non sapeva e non sa alcunché su questa trattativa, ammesso che una trattativa ci sia stata e ammesso (e non concesso) che siano stati fatti regali alla mafia.

Tuttavia, al nulla che seguirà sul piano giudiziario si affiancherà purtroppo qualcosa di concreto: il fango lasciato sulle istituzioni da una campagna dissennata.

Facciamo un esempio. Pochi minuti dopo la fine della deposizione al Quirinale, molti organi di informazione stranieri hanno titolato, sui loro siti web, più o meno così: «Giorgio Napolitano ascoltato come testimone in un importante processo di mafia». Una semplificazione giornalistica, certo: ma una semplificazione alla quale i colleghi stranieri sono stati indotti dalla «Disinformatia» messa in scena qui da noi in Italia; e una semplificazione drammatica perché questo è purtroppo quel che rischia di rimanere non solo negli archivi dei giornali stranieri ma anche nella memoria di tanti italiani: che il Presidente della Repubblica è stato sentito come testimone «in un importante processo di mafia». E che magari sapeva chissà quante e quali cose che per anni ha taciuto.

Naturalmente non è così, e infatti Napolitano ieri non ha avuto alcuna difficoltà nel rispondere alle domande dei magistrati e degli avvocati. Ma chi ha messo in piedi la campagna mediatica che ha portato alla deposizione del Quirinale proprio questo si prefiggeva: insinuare sospetti, lasciare qualche macchia.

Non c’è nulla di illecito, ovviamente, in ciò che hanno fatto i giudici di Palermo, e non c’è nulla di sbagliato neppure nel tentare di approfondire - non solo nelle aule di giustizia, ma anche sui media - quello che è successo in Italia durante gli anni delle stragi mafiose. Anzi, cercare la verità è doveroso. Ma sul ruolo di Giorgio Napolitano tutto un mondo di sedicenti paladini della giustizia ha giocato una subdola campagna fatta di allusioni e sottintesi, mirando in fondo a creare confusione sulla vera veste in cui il Capo dello Stato veniva sentito dai giudici: testimone o imputato?

Parallelamente a questa campagna mediatica ne è stata portata avanti un’altra, non accessoria ma del tutto funzionale alla prima, della quale è stata indispensabile stampella. Cioè s’è detto e scritto che, mentre i pm di Palermo cercavano di scoprire le inconfessabili verità, c’era tutta una stampa di regime che quelle verità le voleva seppellire per sempre. È una tattica ormai consumata: chi la pensa diversamente da me non è, appunto, qualcuno che la pensa diversamente: è uno che la pensa come me ma non lo dice perché è un traditore dell’informazione, un prezzolato, un servo. Come si delegittima il nemico, si delegittima - e sul piano personale - anche chi il nemico non lo attacca o addirittura lo difende.

Tutto questo, insomma, è il vero lascito torbido, le vere macerie lasciate da questa campagna contro il presidente Napolitano e più in generale da campagne che in Italia si ripetono ormai da anni, promosse da gruppi che si autodefiniscono «gli onesti», «i migliori». Sono gruppi che diffondono fra gli italiani l’idea che - a parte loro, naturalmente - tutto sia marcio, tutto corrotto, tutto senza speranza. Gruppi che hanno un bisogno vitale di sempre nuovi bersagli: eliminato uno, avanti con il prossimo. E che cosa abbiano prodotto questi veleni, nella politica e nel Paese, lo vediamo ormai da anni: quali frutti e quali tribuni.

(da La Stampa - 29 ottobre 2014)

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