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Il nuovo partito comincia qui

di elisabetta gualmini

Il messaggio di Matteo Renzi dalla prima Leopolda di governo è, come di consueto, chiaro e netto, senza troppe sfumature. Gli obiettivi polemici, le promesse di cambiamento, il frame comunicativo sono sempre gli stessi, ma ora il progetto si va componendo. Quella che a tanti pareva boria vanagloriosa ha dimostrato d’essere, che piacciano o meno i risultati, effettiva capacità di esercitare la leadership, a livelli che l’Italia non ha conosciuto per decenni.

Nel mirino c’è sempre l’indistinta nebulosa composta da professori-gufi, tecnocrati, politici di lungo corso, dall’establishment, insomma, che ha portato l’Italia al collasso e continua a pontificare, che «rosica», e teme che i «ragazzi della Leopolda» possano riuscire dove loro hanno fallito. Ma, ovviamente, il bersaglio grosso della Leopolda5 è l’altra sinistra. Quella «minoritaria, identitaria e nostalgica», pronta sempre a dire no. Nei confronti della quale ora la sfida è aperta: potete pure protestare, riempire le piazze, fare un partito: sarà bello vedere chi vince; quello che non vi consentiremo è di riprendervi il Pd (applausi scroscianti).

Può dirlo perché ora i pezzi del mosaico si stanno, appunto, mettendo al loro posto. La «narrazione» (parola-mantra alla Leopolda) c’è sempre stata sin dal primo appuntamento, nel 2010 (solo noi che abbiamo oggi trent’anni possiamo guidare il cambiamento, non certo chi di fronte a uno smartphone cerca il foro in cui mettere il gettone), poi è arrivato «il programma» (in larga parte preso in prestito da professori-gufi che ora è meglio nascondere, come Pietro Ichino, principale mentore del contratto a tutele progressive), poi «il partito» (a cui Renzi inizialmente, sottovalutando la «teoria» che legava doppio incarico, primarie e vocazione maggioritaria, non era tanto interessato), subito dopo «il governo», e naturalmente a cucire tutto insieme «il leader».

In effetti, il Pd di Renzi va oltre le più rosee aspettative dei fondatori. La reinterpretazione renziana della sinistra supera molti steccati, qualsiasi ottusa polarizzazione tra destra e sinistra diventa secondaria rispetto alla realizzazione degli obiettivi. Più che Blair, Matteo è il Clinton che guarda al centro, diffonde ottimismo, promette crescita, e tutele per quelli che non le hanno mai avute. Poletti su questo punto è il suo migliore testimonial. Sfiora la tenerezza quando ammette che la sua testa è stata costruita «in quegli anni lì» e che talvolta lui va più lento, ma è il più efficace nel rivendicare le virtù del Jobs Act. E poi le riforme della macchina istituzionale per far diventare il nostro paese una democrazia normale, capace di funzionare e di rispondere. E infine la sfida all’Europa, che solo un Pd maggioritario può sostenere, attraverso il match continuo con i tifosi dei vincoli e del rigore, e il ripristino della centralità della politica estera, per troppo tempo ancillare agli altri settori. Qui Mogherini docet.

Dalla Leopolda esce infine la rappresentazione del nuovo Pd guidato da Renzi. La racconta Maria Elena Boschi con la sua storia, di una giovane volontaria, un avvocato, diventata ministro a 33 anni, e anzi di più, simbolo del cambiaverso. Come a dire tutto è possibile.

E poi c’è il leader. Sempre più forte, spietato nella sua determinazione, con la sicurezza smisurata di aver fiutato lo spirito dei tempi e di saperlo cavalcare alla perfezione, per di più solo e incontrastato. Il leader che si definisce a scadenza, ma che intanto si immagina lì fino al 2023.

Sì, certo, lo «stile Leopolda» può anche lasciare perplessi. Più che un incontro politico sembrava una diretta radiofonica con il richiamo martellante dell’hashtag da twittare (per forza è diventato trending topic ...) e conduttori yé-yé, che parevano pronti a lanciare canzoni su richiesta con dedica alla fidanzata o a sottoporre al pubblico un frizzantissimo quiz (quale è la capitale dell’Azerbaijan? Lei riconosce questo rumore?).

Già si immaginano i commenti schizzinosi di autorevoli opinionisti, teste che si scuotono, bocche storte, della serie «tutto marketing», «spiccicato a Berlusconi». I difetti ci sono, le incoerenze pure, come la promessa non mantenuta della rivoluzione basata sul merito, sostituita da nomine in gran parte all’insegna di lealtà pre-politiche e prossimità personale. Ma per ora il disegno regge. Eccome se regge.

(da La Stampa - 27 ottobre 2014)

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