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L’assenza di verità nelle corporazioni - L’autocritica che non c’è

di Ernesto Galli Della Loggia

L’invito alla verità, a dire finalmente a se stessi e al Paese come stanno realmente le cose, rischia di trasformarsi fatalmente a causa dei troppi consensi nella retorica della verità. E dunque in niente. Quando tutti si dicono subito d’accordo - «verità! sì, come no, verità, verità!» - allora è certo che la menzogna ha ancora un lungo avvenire davanti a sé.

In realtà c’è un solo modo per essere davvero dalla parte della verità, specialmente in politica: essere disposti a praticare l’autocritica. Che invece in Italia, come si sa, è una pratica molto rara. Nella nostra vita sociale, e in particolare in quella politica, nessuno, anche a distanza di anni, riconosce mai pubblicamente di aver commesso un errore, di non aver capito, di aver omesso di far qualcosa, di aver pensato o detto delle sciocchezze. E, sia detto tra parentesi, sta proprio qui, nell’impermeabilità all’autocritica la ragione forse principale di una delle più tipiche caratteristiche delle carriere pubbliche italiane: la loro durata potenzialmente illimitata. Perché mai ritirarsi o essere messo da parte anche a 70 o 80 anni compiuti, infatti, se uno non ha mai sbagliato un colpo?

In tema di mancanza di autocritica c’è solo l’imbarazzo della scelta. Si può cominciare dalle grandi corporazioni come quella dei magistrati, i quali, poco curandosi delle necessità del Paese, non ammetteranno mai di esercitare da sempre un paralizzante potere d’interdizione e di ricatto nei confronti di qualunque tentativo di modifica dell’ordinamento della giustizia. Che essi vogliono solo conforme al mantenimento delle loro prerogative e dei loro privilegi, abusivamente spacciati come sinonimo dell’interesse generale.

Dopo i magistrati si può poi proseguire con le migliaia di rappresentanti della classe politica locale, per esempio di quella delle Regioni. Mai nessuno di questi che in mezzo secolo abbia detto una parola sola di rincrescimento e di autocritica per il malfunzionamento, gli sprechi e i costi smisurati di quei carrozzoni che appena istituite sono diventate le suddette Regioni. Quanto avrebbe fatto piacere agli Italiani ascoltare almeno una volta un consigliere regionale, dico per dire, della Calabria o della Sicilia, ammettere che le loro amministrazioni hanno rappresentato e rappresentano un’autentica vergogna nazionale, o che per esempio l’autonomia siciliana è diventata ormai un’autentica truffa, utile solo ad arricchire a spese di tutti poche migliaia di fortunati.
E magari sentire dire anche a qualcuno di loro che l’interesse dei calabresi e dei siciliani onesti sarebbe molto meglio tutelato da qualunque prefetto nominato da Roma, anziché dai miserabili politicanti di Reggio, di Cosenza o di Palermo. E per dare la sua parte anche al Nord, ma sempre restando in tema, perché nessun consigliere della Provincia di Trento ha mai colto l’occasione per ammettere che il fiume di soldi che l’Italia regala a quel territorio non ha di fatto alcun motivo di essere se non un garbuglio da legulei messo in piedi per fingere che esista un solo ente regionale chiamato Trentino-Alto Adige? Il fatto è che in Italia la verità sembra che siano sempre e solo gli altri a doverla dire, e che anche gli errori e i privilegi siano sempre e solo quelli degli altri.

Così si spiega anche perché, ad esempio, dei tanti imprenditori succedutisi alla presidenza della Confindustria, con i loro mille stucchevoli discorsi invariabilmente volti nei decenni ad ammonire, a intimare, a dare voti (e spesso a chiedere soldi), neppure uno, terminato il proprio mandato, abbia avuto il coraggio di spendere una parola di critica verso i propri colleghi: di solito così restii a reinvestire e a mettere soldi nelle loro aziende, così pronti a fare cassa vendendo e rifugiandosi nelle rendite, nelle concessioni o nei monopoli, sempre così defilati da ogni impegno civico. E come mai in tutti questi anni dalla Confindustria non è mai venuta una parola chiara e forte sulla larghissima pratica della manipolazione degli appalti, dove se da un lato i politici chiedono, dall’altra però sono sempre gli imprenditori che danno e non è certo un comportamento irreprensibile?

La memorialistica politica (che in pratica è l’unica esistente: in Italia infatti non accade quasi mai che un industriale di successo, un artista celebre, un grande manager, scriva le proprie memorie) è forse lo specchio più significativo di questa incapacità generale a guardare dentro di sé con uno sguardo di verità, e dunque all’occasione anche inevitabilmente critico.
Si tratta di una memorialistica soprattutto di sinistra (non so perché), ex comunista e in particolare di quei politici del vecchio Pci appartenenti all’ala migliorista. Ebbene, anche qui è quanto mai raro trovare la franca ammissione degli errori commessi. Primo e più macroscopico, ad esempio, quello di essere rimasti nel loro partito, prigionieri per anni del ricatto della «disciplina» e dell’appartenenza. Non sarà stato anche in parte significativa colpa loro, dei loro timori e delle loro cautele, se in Italia non è mai nato un grande partito socialdemocratico e per avere un’alternanza al governo abbiamo dovuto aspettare tanto tempo?

Se vuol essere una cosa seria, insomma, l’omaggio generale alla verità non può che accompagnarsi all’autocritica di alcuni. Magari, visti gli errori commessi e le responsabilità accumulate, accompagnata alla decisione di farsi da parte.

(dal Corriere della Sera - 20 luglio 2014)

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