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Commento introduttivo

Il presidente designato della Commissione europea Jean-Claude Juncker ha ricevuto ieri dal Parlamento europeo l'atteso voto di fiducia.
L'ex Primo Ministro lussemburghese ha ottenuto 422 sì, 250 no, 57 astensioni e voti non validi. La maggioranza richiesta era di 376 voti. A votare a favore di Juncker, designato a fine giugno dai Ventotto paesi dell'Unione, sono stati i Popolari, i Socialisti, e i Liberali.
Nella votazione non sono mancati franchi-tiratori. In teoria, Juncker poteva godere infatti di una maggioranza di 480 deputati.

Il voto è giunto dopo che l'ormai nuovo presidente della Commissione aveva pronunciato un discorso in tre lingue con cui ha cercato di convincere i deputati a concedergli la loro fiducia. L'intervento, durato oltre 45 minuti e spesso interrotto da applausi, ma anche da fischi, è stato l'occasione per tratteggiare un programma politico che prevede, tra le altre cose, un piano di investimenti pubblici e privati, il ritorno al metodo comunitario, l'idea di un bilancio proprio della zona euro e una politica comune sul diritto d'asilo.
Ora va completato il quadro delle cariche e speriamo che l'Italia possa vedere soddisfatte le proprie aspirazioni.

Esprimo soddisfazione per questo esito, non solo per la condivisione della famiglia di riferimento di Junker (il Ppe), ma per una scelta che risulta coerente con le indicazioni degli elettori dell'Unione che hanno assegnato al gruppo del Ppe la maggior consistenza nel parlamento di Strasburgo.

L'ampia piattaforma politica su cui poggia l'accordo (Popolari, Socialdemocratici, Liberali), costituisce la miglior risposta alle drammatiche emergenze che attendono le istituzioni comunitarie nei prossimi anni. Junker ne e' pienamente consapevole, cosi' come lo sono le forze che lo sostengono.

Le sfide sono gigantesche e coinvolgono l'Ue in ogni sfera del suo essere: economica, politica, istituzionale culturale. Solo un'ampia e condivisa strategia politica potra' fronteggiarle. Naturalmente la strada non e' tutta in discesa e le difficolta' sono sempre dietro l'angolo. Fortunatamente Bruxelles e Strasburgo non sono Roma. Si puo' legittimamente sperare che l'ampia coalizione che ha votato Junker sviluppi un'azione rivolta agli interessi degli europei e non a banali interessi di parte.

Condizione indispensabile per favorire - come ha detto Junker - il processo evolutivo dell'Ue in senso sempre piu' comunitario e sempre meno intergovernativo. Processo necessario, se il nostro continente vorra' giocare un ruolo di protagonista nei nuovi scenari mondiali.

Paolo Razzuoli

Junker nuovo Presidente della Commissione europea. Il neorealismo nella lettura delle regole Ue

di Adriana Cerretelli

L'era Juncker si è aperta ieri a Strasburgo nel segno della speranza e del pragmatismo. Della speranza che non vuole vivere di retorica e labili promesse ma di azioni concrete, attingendo e ispirandosi al passato vincente dell'Europa oggi in crisi per provare a raddrizzarne il presente e a restituirle un futuro solido e sicuro.

Non a caso il nuovo presidente della Commissione Ue ha eletto Jacques Delors, Helmut Kohl e François Mitterrand a propri numi tutelari per «la loro pazienza, il coraggio e la determinazione». Per il loro modello di Europa: politica e non solo tecnocratica, decisamente comunitaria e poco intergovernativa, sociale e solidale oltre che economica, e per questo anche consensuale diversamente da quella di oggi. Nel segno del pragmatismo perché dogmi e ideologie dividono gli europei invece di unirli: l'Europa invece ha un disperato bisogno di vincere tutta insieme evitando l'affossamento collettivo.

Nasce da qui l'ambizioso programma con cui Jean-Claude Juncker intende aggredirne errori recenti e problemi ormai ineludibili. Partendo però da tre punti fermi: il patto di stabilità non si tocca perché le sue regole su deficit e debito contengono già sufficienti margini di flessibilità, quindi non vanno rinnegate nè rinegoziate.

Le riforme strutturali sono indispensabili per far ripartire la crescita e riassorbire 27 milioni di disoccupati, il 29mo Stato dell'Unione. Niente allargamenti Ue, infine, nei prossimi cinque anni, tutta l'attenzione concentrata invece sulla soluzione delle troppe magagne di casa.

Fissati questi paletti l'Europa di Juncker, proprio nel giorno in cui l'Fmi prevede per quest'anno il rallentamento della crescita dall'1,1 all'1%, annuncia per il febbraio prossimo la proposta di un programma di investimenti pubblici e privati da 300 miliardi in tre anni nei settori dell'energia, infrastrutture e economia digitale che vada di pari passo con la reindustrializzazione del continente, l'introduzione del salario minimo in tutta l'Unione, la lotta all'evasione fiscale come al dumping sociale, la creazione di un bilancio autonomo per l'eurozona insieme a una serie di incentivi finanziari per i Paesi impegnati a fare le riforme, anche per convogliarle nel bacino di una governance migliore e più collettiva.

Finalmente, dunque, l'Europa cambia passo, riscopre lo spirito delle origini, esce dalla gabbia ideologica per sintonizzarsi sui drammi quotidiani dei cittadini, depone la maschera arcigna per farsi più umana e solidale nell'acquisita consapevolezza che con una crescita asfittica nessuno può andare molto lontano?
Forse. Di sicuro da mesi in giro si respira un nuovo realismo nell'interpretazione delle regole Ue. E di sicuro il nuovo presidente della Commissione intende esserne il grande interprete: per sensibilità personale e consumata abilità politica. Anche se appare deciso a recuperare la centralità del suo ruolo istituzionale, a non essere «nè il segretario del Consiglio nè l'attendente del parlamento europeo», Juncker sa bene che dovrà fare i conti con entrambi.

E non sarà per niente facile. Proprio perché sarà dichiaratamente più politica, la sua Commissione rischia di finire politicizzata, in breve ostaggio delle ideologie contrapposte che pure rifugge, in un'Europa divisa dove Francia e Germania si guardano in cagnesco pur sapendo di avere l'una bisogno dell'altra, dove la Gran Bretagna incerta e euroscettica mesta nei torbidi continentali, dove centro e periferia a Sud come a Est si intendono sempre più a fatica. E dove il modello dell'economia sociale di mercato è diventato più un'arena di scontro che un laboratorio condiviso. La Commissione Delors terminò la sua missione in gloria perché potè godere dell'armonia e del costante sostegno della coppia Mitterrand-Kohl. La Commissione Juncker sarà invece costretta a mediare tra le profonde incomunicabilità che tormentano il dialogo Merkel-Hollande come tra le tensioni ideologiche che complicano nell'europarlamento l'alleanza tra popolari, socialisti e liberali.Le stesse che potrebbero tra l'altro riflettersi nella vita del nuovo Esecutivo Ue restringendone o paralizzandone gli spazi di manovra. E, inevitabilmente, anche i tanti progetti positivi annunciati ieri. Non sarebbe certo la prima volta: le ormai famose reti transeuropee furono messe in cantiere dalla Commissione Delors ma si trascinano tuttora largamente incomplete.

Molto dipenderà dalla spartizione dei portafogli, dagli uomini che li assumeranno e dagli equilibri di potere che ne scaturiranno. Di buono oggi c'è che Juncker è una vecchia volpe della politica europea, ne conosce i molti limiti ma anche le enormi potenzialità che emergono soprattutto nei suoi momenti di crisi. Per questo la debolezza attuale dell'Europa potrebbe diventare la sua forza. Il condizionale però è d'obbligo.

(dal Sole 24 Ore - 16 luglio 2014)

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