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Intellettuali ora più liberi dalla politica

di Giovanni Orsina

Il precario assetto bipolare che il sistema politico italiano aveva raggiunto dal 1994 intorno alla leadership carismatica di Berlusconi e alla tradizione culturale e organizzativa del Pds-Ds-Pd è saltato fra la fine del 2011 e le elezioni del 2013. La crisi del berlusconismo, l’ascesa di Renzi alla guida dei democratici prima e del governo poi, l’avvento del grillismo ci hanno proiettato in una nuova fase di transizione. E sono mesi che giornalisti, commentatori e analisti ne scrivono e riscrivono, alimentando le speranze che un profondo rinnovamento istituzionale e politico ci renda infine un «Paese normale» o paventando i rischi di un ennesimo, devastante fallimento. Giornalisti, commentatori e analisti, tuttavia, si sono soffermati assai di meno sulle opportunità e i pericoli che questa mutazione politica contiene per loro stessi – o meglio: per noi stessi. Eppure la questione è tutt’altro che secondaria, se vogliamo che il nostro diventi davvero un «Paese normale».

  

Il discorso pubblico italiano è malato da sempre di partigianeria. Le ragioni sono numerose, e tutte ben conosciute: i centri del potere mediatico sono tradizionalmente troppo vicini alla politica.

 

Il settore pubblico è troppo ampio, e il ceto politico dispone perciò di risorse abbondanti per remunerare gli intellettuali amici, o punire i nemici; la lotta politica ha assunto troppo spesso la forma di uno scontro ultimativo fra i «buoni» e i «cattivi»; gli spazi «terzi» messi al riparo dal conflitto politico sono complessivamente deboli – non soltanto nell’ambito mediatico e culturale, ma pure in quello istituzionale.

 

Anche le forme di questa partigianeria sono note. Capita nei casi più gravi che la realtà sia distorta o stravolta.

  

In altri casi può essere taciuta, occultata, minimizzata. Un avversario che faccia la cosa giusta può esser criticato perché non ha fatto a sufficienza (il cosiddetto «benaltrismo»). I misfatti di un amico possono essere nascosti sotto quelli di un nemico o sotto quelli di tutti (se ci fosse da scherzare potremmo parlare di «travipagliuzzismo» e «cosifantuttismo»). Ha più di mezzo secolo, del resto, la celebre denuncia di Enzo Forcella sul circuito perverso fra giornalismo e politica, «Millecinquecento lettori». Poco più di dieci anni dopo, Ennio Flaiano ebbe a constatare, sconsolato, che in Italia semplicemente non esiste la verità.

 

Poiché molti di questi difetti potevano esser ricondotti al clima di Guerra Fredda, era lecito sperare che col 1989 il discorso pubblico italiano sarebbe finalmente entrato in un’età più libera. Ahinoi, è accaduto l’esatto contrario. La stagione di Tangentopoli ha generato un garbuglio tale di asimmetrie, commistioni fra piani diversi, capri espiatori, speranze palingenetiche, appartenenze fideistiche e ostilità viscerali, che la «laicizzazione» della sfera pubblica italiana non ne è stata certo agevolata. Un garbuglio che, sia detto per inciso, a vent’anni di distanza aspetta ancora di essere dipanato e storicizzato. Poi è sceso in campo Berlusconi. E fra il berlusconismo trascendentale di un parte e l’antiberlusconismo trascendentale dell’altra siamo caduti dalla padella nella brace.

  

La mutazione politica avviatasi fra il 2011 e il 2013 ci offre oggi – offre a noi «intellettuali» – una nuova, straordinaria opportunità per costruire in Italia un discorso pubblico finalmente laico. L’agonia del berlusconismo e l’ascesa di Renzi hanno ormai consegnato alla storia la dicotomia fra berlusconiani e antiberlusconiani. Chi culturalmente si colloca a destra non può restare nel solco delle antiche fedeltà: al contrario, ha bisogno della massima libertà intellettuale per valutare fino in fondo non solo in che razza di vicolo cieco l’abbia cacciato il berlusconismo, ma anche quanto la mutazione del Pd e l’avvento di Grillo (insieme ad altri fenomeni di portata ben maggiore) stiano trasformando le categorie stesse di destra e sinistra. Con queste trasformazioni deve fare i conti anche chi culturalmente si schiera a sinistra. Renzi ha rinunciato alla pretesa arrogante e autolesionistica della cultura progressista di rappresentare l’Italia «giusta». E soprattutto ha recuperato dal berlusconismo modi e contenuti che per vent’anni quella cultura non solo non ha mai smesso di condannare, ma aveva addirittura identificato, apocalitticamente, con la fine della democrazia se non della civiltà.

  

Oggi siamo tutti più liberi, dunque. Ma dobbiamo decidere che cosa fare della nostra libertà. Perché la mutazione politica in corso può condurci in due direzioni molto differenti. O verso un dialogo pubblico pluralistico, dissonante e anche aspro, ma finalmente aperto e progressivo perché meno asservito a urgenze immediatamente partigiane. Oppure – data la crisi della destra e il contenuto intellettuale scarsissimo o nullo del grillismo – verso il monologo di uno schieramento politicamente e culturalmente egemone. Il rischio, insomma, è che la ritrovata libertà sia usata per correre al soccorso e mettersi al riparo di un nuovo padrino politico – l’unico ormai a disposizione, vincente, progressista e moderato –; che il discorso pubblico si isterilisca nella ripetizione unanime e pappagallesca dei mantra del politicamente corretto; e che le voci dissonanti siano silenziate di fatto se non di diritto. Sarebbe davvero un peccato mortale.

 

(da La Stampa - 8 giugno 2014)

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