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Per il Senato ci vorrà un miracolo

di Elisabetta Gualmini

D’altronde non può fare miracoli. Nonostante la velocità, il ritmo e il carisma, Matteo Renzi è pur sempre a capo di un governo di compromesso. Un governo di coalizione tenuto in piedi da una strana maggioranza di partiti e correnti Pd, che sono tuttavia fondamentali per farlo sopravvivere.

  

Al momento del cambio a Palazzo Chigi, sia il nuovo centrodestra di Alfano sia la sinistra post-bersaniana del Pd hanno festeggiato (pur senza applaudire), perché Renzi garantiva una zattera di salvataggio alla legislatura. Non ci hanno pensato un attimo a scaricare Letta in cambio di un po’ di ossigeno.

  

Ma ora che Renzi detta l’agenda, su una sua linea molto netta, rischiano di scomparire: i primi, palesemente, alle elezioni europee e i secondi, senza che nessuno se ne accorga, dentro al Pd. Hanno quindi un ovvio bisogno di comunicare ai rispettivi constituencies la loro esistenza in vita e un punto di vista che li distingua, senza poter mettere d’altro canto in discussione il governo. Perché, è ovvio che, caduto Matteo, non resterebbe che tornare al voto. E allora sì, che rischierebbero di rimanere davvero senza fiato!

  

Questa «naturale» dinamica di un governo di coalizione, in Italia si svolge secondo le liturgie e i canoni del nostro scombinato assetto istituzionale. Con un Parlamento caotico, poco autorevole e vociferante che si è già abituato da un bel pezzo al gioco delle parti che prevede la moltiplicazione degli emendamenti civetta, senza speranze, presentati per parlare a segmenti organizzati dell’elettorato, in attesa che il governo tolga tutti dall’imbarazzo con il ricorso alla fiducia.

  

Da questo punto di vista, niente di nuovo sotto il sole. A meno che le due questioni oggi in ballo non aprano una crepa o non creino un alibi, dopo le Europee, per una rottura.

  

Quindi entrando nel merito della prima questione – il lavoro – siamo al solito conflitto divisivo tra difensori della flessibilità e i paladini delle garanzie a tutti i costi (un teatrino che va in scena da quasi vent’anni, dal Pacchetto Treu in avanti). Che tuttavia dà esiti molto deludenti, provvedimenti zoppi e annacquati senza alcun impatto di tipo strutturale. Come il decreto legge su cui ieri Renzi ha messo la fiducia dopo il compromesso raggiunto con la minoranza Pd. L’ennesimo (e modesto) maquillage alle regole sui contratti di impiego (diminuzione delle proroghe per i contratti a termine e più vincoli all’uso dell’apprendistato) che, sia nella formulazione originaria sia in quella addomesticata di ieri, non avrà un grande effetto sulla creazione di posti di lavoro.

  

La crepa sulla riforma del Senato è ancora più insidiosa. Perché su questo punto Renzi ha realmente innovato rispetto a tutte le proposte precedenti, le quali partivano dall’assunto di conservare due distinti corpi di parlamentari eletti, e di conseguenza una doppia filiera di incarichi e strutture burocratiche: il vero costo finanziario e decisionale del bicameralismo. E’ sempre stato un assunto non detto ma rigorosamente intoccabile, da cui discendeva poi, di conseguenza, la necessità di dare al Senato un ruolo, se non identico, equipollente a quello della Camera, finendo per costruire architetture ancora più bizantine dell’attuale. Gli oppositori interni di Renzi, da ultimo il senatore Chiti, mentre enunciano grandi principi, si appendono in realtà a questa consolidata resistenza corporativa e si sono infilati nella consueta traiettoria. Con il Movimento 5 Stelle che, messo in difficoltà ormai ogni giorno dall’antipolitica di Renzi, non può che andare a sposare una battaglia di retroguardia. Ma il mancato superamento del bicameralismo, al di là della sua intrinseca irragionevolezza, si porterebbe dietro anche l’inapplicabilità o l’inutilità dell’Italicum. Perché un Senato eletto (magari con la proporzionale) verrebbe sicuramente dotato di poteri in grado di intralciare il percorso del governo, che abbia o no formalmente il potere di votare la fiducia.

  

Quindi, sul lavoro Renzi può anche muoversi come hanno già fatto quasi tutti i governi degli ultimi anni. La rivoluzione «gigantesca» che ogni giorno ci promette, nel caso che qualcuno si distragga, non passerà da lì. Non sarà per lui o per il ritocco all’impianto giuridico che ripartirà il mercato del lavoro. Sul Senato invece si gioca la partita della vita, del suo governo e dei governi delle prossime legislature. Qui sì, pensandoci meglio, il miracolo ci vorrebbe davvero.

(da La Stampa - 23 aprile 2014)

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