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Renzi, l’ex Cavaliere e le toghe - Una proposta per la giustizia

di Angelo Panebianco

Se il premier deciderà di affrontare la questione dell’ordine giudiziario, e dovrà farlo se davvero vorrà cambiare il Paese, sarà costretto a dotarsi di strumenti adeguati.

Per venti anni è stata opinione dominante che fin quando Berlusconi fosse stato al centro della politica italiana, una seria riforma del sistema giudiziario sarebbe stata impossibile. C’è sempre stato anche il dubbio che questa argomentazione fosse in realtà solo l’alibi di chi, Berlusconi o non Berlusconi, una riforma della giustizia non la voleva e basta. Comunque sia, l’ impasse dura da venti anni. Un periodo in cui Berlusconi, spesso pessimamente consigliato da avvocati privi di una visione d’insieme dei problemi dell’ordine giudiziario, affastellava leggine che, nelle sue intenzioni, avrebbero dovuto difenderlo dai procedimenti a suo carico, e in cui i suoi oppositori, consapevoli della propria inettitudine politica, difendevano lo status quo nella speranza di una liquidazione di Berlusconi per via giudiziaria. Adesso Berlusconi è fuori gioco a causa di una condanna definitiva (che ieri ha di nuovo criticato duramente) ed è opinione generale che, se anche resterà un protagonista, non potrà mai più avere il ruolo che ha avuto negli ultimi venti anni. Nessuno pensa, ad esempio, che potrà tornare ad essere presidente del Consiglio.

Forse è questa la ragione per cui qualche segnale di disgelo intorno alla questione giustizia comincia ad apparire. Ha suscitato impressione leggere sul Fatto (17 aprile), il principale organo di stampa del giustizialismo italiano, un articolo a firma di Bruno Tinti, che conteneva una requisitoria contro il metodo spartitorio con cui le correnti della magistratura gestiscono il Csm, l’organo di autogoverno. Quali che siano le motivazioni del Fatto , resta che in quell’articolo si dice la pura verità e che risulta confermato, anche da una fonte insospettabile di berlusconismo, che il Csm necessita di una radicale ristrutturazione. Sostenere che l’ordine giudiziario richiede, a tutela dei diritti del cittadino, serie revisioni, non significa «avercela con i magistrati». Significa riconoscere la validità di una «legge sociale» che non ammette eccezioni: se un potere è incontrollato, e privo anche di forti meccanismi interni di checks and balances, di pesi e contrappesi, esso si presterà ad abusi. Senza bisogno di presumere nessuna particolare malvagità da parte di chi esercita quel potere. Basta solo ammettere che si tratta di uomini e donne uguali a tutti noi, soggetti alle stesse tentazioni di chiunque altro.

È il precetto su cui si regge una delle più importanti invenzioni occidentali, il costituzionalismo: mai permettere, se vuoi tutelare le libertà di tutti, che un potere risulti incontrollato, o perché non bilanciato da poteri concorrenti o perché organizzato in modo da rendere deboli anche i controlli interni.
L’ordine giudiziario italiano è in realtà strutturato in un modo non compatibile con i principi del costituzionalismo. Quando si dice, ad esempio, che le carriere dei giudici e dei procuratori dovrebbero essere separate o che le decisioni sulle carriere dei magistrati, o sulle sanzioni disciplinari, non dovrebbero essere appannaggio di un organo eletto da quegli stessi magistrati, perché ciò porta con sé lottizzazioni e altre patologie, si sta solo chiedendo di rendere l’ordine giudiziario italiano meno anomalo di quanto esso non risulti nel panorama delle democrazie occidentali.
Il premier Renzi si muove come un ciclone in tante direzioni. Come era forse inevitabile, è già entrato in urto anche con la potente Associazione nazionale magistrati a proposito delle remunerazioni degli alti magistrati. Più o meno con la stessa irruenza con cui, occupandosi di un altro ganglio vitale dello Stato, aveva annunciato pochi giorni fa una «violenta lotta contro la burocrazia». Solo che, si tratti del funzionamento dell’amministrazione o di quello della magistratura, le ruspe non servono per venire a capo dei problemi.

Se Renzi deciderà di affrontare la questione dell’ordine giudiziario, e prima o poi dovrà farlo se davvero vorrà cambiare questo Paese, sarà costretto a dotarsi di strumenti adeguati. Occorrono analisi serie e decisioni ponderate per approdare a qualche risultato. Il vicepresidente del Csm, Michele Vietti (sul Corriere della Sera di ieri 19 aprile 2014), ha proposto l’istituzione di una commissione che affronti la questione della giustizia civile. Forse, occorrerebbe puntare più in alto, mettere le mani in tutte le principali patologie che affliggono la giustizia. Perché il governo non affida a un gruppo di esperti (non esclusivamente giuristi), eventualmente guidato da un uomo della competenza di Luciano Violante, il compito di formulare, dopo un lavoro di due o tre mesi, una proposta articolata? Magari affiancato da un altro gruppo di esperti che lavori sul tema dell’amministrazione (e della giustizia amministrativa). Dopo un’attesa di venti anni tutto serve meno che l’improvvisazione.

(dal Corriere della Sera - 20 aprile 2014)

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