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Breve commento introduttivo

In questi giorni mi pare di avvertire l'onda montante dell'offensiva conservatrice che in Italia ha sinora impedito ogni seria riforma.
Qualche giorno fa abbiamo letto l'appello dei soliti esponenti del radicalismo di sinistra, opportunamente stigmatizzato nell'articolo di Ernesto Galli Della Loggia, pubblicato su questo sito.
Poi abbiamo ascoltato l'intervento del presidente del Senato, piero Grasso, che se fosse uscito dalla bocca di Schifani o di Pera gia' avrebbe messo in azione i girotondini. Sappiamo infatti molto bene di come certe frange della nostra "intelligentia" sono mosse dal piu' supponente manicheismo.

La verita' e' che al di la' delle parole, tantissimi sono quelli che nel nostro Paese si oppongono alle riforme. Si oppongono ampie fasce della politica per non perdere i privilegi; si oppongono ampie fasce dei corpi intermedi della societa' (sindacati, organizzazioni di categoria ecc.) per non perdere il potere interdittivo ampiamente praticato da oltre quarant'anni, si oppongono i gruppi che, un po' piu' o un po' meno, hanno goduto di rendite di posizione o di privilegi ormai incompatibili con una societa' che voglia ristabilire un minimo di patto generazionale.

Renzi fa bene ad aggredire la situazione con decisione, cercando di rispettare le scadenze indicate agli elettori. Ha ottenuto il sostegno di Obama e una importante linea di credito dai capi delle cancellerie europee.
All'appuntamento del semestre della presidenza italiana dell'UE, non potra' certo presentarsi a mani vuote.

Ma al di la' di questa circostanza, ed anche al di la' dell'attenzione alle elezioni europee del 25 maggio, e' il Paese che non puo' attendere. Ogni italiano di buon senso lo sa, e confida che il forte impulso riformista impresso dall'ex Sindaco possa produrre effetti.

SE Renzi perdera' la partita, non sara' solo lui a perderla, ma con lui la perdera' l'intero Paese, aprendo le porte a scenari veramente imprevedibili.

Paolo Razzuoli

Non c’È nessuna deriva autoritaria - Il complesso del tiranno

di PIERLUIGI BATTISTA

Difficile spiegare a uno straniero dell’Occidente liberaldemocratico che la fine del bicameralismo perfetto, fortunatamente sconosciuto nel suo Paese, sia visto in Italia come l’anticamera di una mostruosa «deriva autoritaria». O che un ragionevole rafforzamento dei poteri del capo del governo sia il primo passo dello sprofondamento negli abissi di un regime antidemocratico. O che l’abolizione delle Province sia l’avvio di una ipercentralizzazione tirannica dello Stato che soffoca ogni autonomia locale. Difficile spiegare i vibranti appelli contro la riforma radicale del Senato, la psicosi di una cultura così impaurita e paralizzata dallo spettro del «regime autoritario», da vedere pericoli di dispotismo in riforme istituzionali che altrove, all’interno di democrazie consolidate e sicure di sé, appaiono semplicemente normali.

Ovviamente, nel merito del pacchetto di proposte di riforme costituzionali che Matteo Renzi ha voluto intestarsi si può e si deve discutere, ci mancherebbe. Ma spingere, dopo decenni di dibattiti inconcludenti, sul tasto dell’«allarme democratico» e della «Costituzione violentata» rivela l’impantanamento in uno schema mentale squisitamente conservatore che ha impedito sin qui di avviare le riforme istituzionali, di incardinarle in un progetto razionale, senza il terrore del cambiamento e la difesa cieca di un assetto immutabile.

I nostri padri costituenti avevano ragione ad avere paura. Venivano da vent’anni di dittatura. Disegnarono un sistema in cui nessuno potesse vincere mortificando le minoranze, come era accaduto con il fascismo. Avevano il «complesso del tiranno», come dicono i costituzionalisti, e crearono un edificio istituzionale dominato dalla mediazione, dal bilanciamento estremo, dall’equilibrio perfetto, dalla lunghezza dei tempi di riflessione. Ma con il passare del tempo, e mentre questo sistema di equilibri perfetti diventava l’alibi di ogni immobilismo, l’incancrenirsi del «complesso del tiranno» ha impedito la modifica, anche la più lieve, in senso «decisionista». Da notare che gli stessi costituenti avevano previsto, regolando ogni modifica del testo costituzionale con apposite procedure di garanzia, che si potesse mutare la legge fondamentale della nostra Repubblica, almeno nella sua seconda parte, «istituzionale», pur lasciando intatta la prima, quella dei principi. Ma con il tempo si è sedimentata una distorsione conservatrice con connotati quasi religiosi di omaggio e venerazione del testo costituzionale («la Costituzione più bella del mondo»), una mistica e una sacralizzazione dello status quo che hanno portato alla scomunica tutti quegli esponenti politici (da Fanfani a Craxi, da Cossiga a D’Alema, da Berlusconi fino allo stesso Matteo Renzi) che si sono impegnati in un modo o nell’altro nella proposta di riformare le nostre istituzioni.

«Deriva autoritaria» è stata la formula magica di questa scomunica. Non la discussione sui singoli punti delle riforme, ogni volta opinabili e migliorabili, ma l’idea stessa che si possa ritoccare in una direzione più vicina al resto delle democrazie occidentali il nostro assetto istituzionale. Modificare la Costituzione è diventato «stravolgere la Costituzione». Ogni riforma «un attentato alla democrazia». Ogni semplificazione un annuncio di pericoloso «autoritarismo». Un pregiudizio difficile da superare. Gli accorati appelli di questi giorni ne sono una testimonianza.

(dal Corriere della Sera - 1 aprile 2014)

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