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Gli europeisti senza passione - Il silenzio di una classe dirigente

di Beppe Severgnini

Gli unici che parlano con passione dell’Europa sono i nemici dell’Europa. Lo dimostrano le elezioni amministrative francesi, e il successo di Marine Le Pen; il tripudio della Lega; il referendum (sondaggio?) autonomista in Veneto; l’intervista di Beppe Grillo e il suo imminente tour elettorale (a pagamento), «Te la do io l’Europa». Il paradosso è spiegabile. In ogni Paese i governi, sebbene con diversa convinzione, partecipano al progetto europeo, e i partiti d’opposizione li attaccano. Gli europeisti, davanti a tanta foga polemica, tacciono. È un’ignavia rischiosa. Non soltanto perché l’elezione diretta del Parlamento europeo - inaugurata tra grandi fanfare nel 1979, poi ridimensionata dalla svogliata partecipazione popolare e dai poteri limitati dell’Assemblea - rischia di replicare la gazzarra vista in alcuni parlamenti nazionali. Il rischio è che i partiti tradizionali rincorrano gli antieuropei sullo stesso terreno.

Nel Regno Unito, i conservatori di David Cameron, insidiati dall’Ukip del folkloristico Nigel Farage, non perdono occasione di denigrare Bruxelles, fingendo di poter vivere fuori dall’Unione. In Italia, Silvio Berlusconi descrive l’euro come una «moneta straniera», senza aggiungere che siamo stati gli unici, in tutta la Ue, a ricavarne danni persistenti. Nei quindici anni dall’introduzione della nuova valuta sui mercati (1999-2014), il prodotto interno pro capite è salito in tutti i Paesi europei, salvo che in Italia, dov’è calato del 3 per cento. Colpa dell’euro o colpa nostra, e di chi ci ha governato?

Davanti all’avanzata dell’euroscetticismo - Matteo Renzi non si lasci tentare, è un investimento miope - una consolazione esiste, ed è questa: la costruzione europea procede per salti e spaventi. Dalla Seconda guerra mondiale sono nati i Trattati; dalla crisi economica degli anni Settanta, il Mercato unico; dal crollo del comunismo, l’allargamento a est; dalla tempesta finanziaria del 2008, le nuove regole bancarie. Chissà che certe facce e certe urla nel prossimo Europarlamento non servano da sveglia continentale.

Perché di una sveglia c’è bisogno. Anzi, di uno squillo di tromba. Passare da Altiero Spinelli a Matteo Salvini, e da Jacques Delors a Marine Le Pen, sarebbe grottesco. Consegnare all’olandese Wilders l’eredità di Adenauer, Schuman e De Gasperi costituirebbe un fallimento epocale. A chi tocca, dunque, suonare la riscossa? A chi l’Unione la conosce, la frequenta, la usa e la ama, per cominciare. La generazione Erasmus, dell’Europa, ha condiviso le piazze, le aule, gli appartamenti e i letti: ora ha l’obbligo e l’onore di difendere ciò che ha contribuito a costruire. I pioneri del programma (lanciato nel 1987) hanno ormai cinquant’anni, e molti partecipanti sono influenti nella politica, negli affari, nelle professioni.

Cos’aspettano? Non vogliono consegnare ai figli l’Europa che hanno ricevuto da madri e padri? Non basta, però. La difesa tocca anche a chi, dall’Europa, riceve benefici quotidiani: quindi, a tutti noi. Benefici che diamo per scontati, e non dovremmo. È vero, non tutto funziona nella Ue. Il presidente della Repubblica italiana, a Strasburgo, ha ammonito che non si vive di sola austerità; lo stesso ha fatto il presidente del Consiglio al suo primo vertice europeo. Ma è vero - e va ricordato con forza - che grazie all’Unione abbiamo luoghi di lavoro migliori, aria meno inquinata, alimenti controllati, giocattoli sicuri, viaggi più semplici, telefonate meno care, dogane inesistenti.

Il 9 maggio sarà Europe Day, il Giorno dell’Europa. Dovremmo trasformarlo nel Giorno Senza Europa (No Europe Day) e rinunciare ai vantaggi di stare insieme?
Sorry we’re Closed (Scusate siamo chiusi!), dovremmo scrivere sulle porte d’Europa: da Varsavia a Lisbona, da Edimburgo a Palermo?
Basterebbero ventiquattr’ore per capire che della Ue non possiamo, non dobbiamo e non vogliamo fare a meno. Ma per considerare una proposta del genere occorrono coraggio e passione.
Due cose che non abbiamo. Non mancano invece ai nostri avversari, come vedremo nelle prossime settimane.

(dal Corriere della Sera - 27 marzo 2014)

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