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Breve commento introduttivo

Marine Le Pen ha vinto, insieme all'assenteismo, le elezioni amministrative francesi di domenica scorsa. Fatto che ha trovato ampio spazio sui media europei, considerato che siamo ormai alle porte delle elezioni per il rinnovo del Parlamento di Strasburgo, fissate per il prossimo 25 maggio.

E' di tutta evidenza che questo risultato non fa che alimentare le gia' forti inquetudini per cio' che potra' accadere in Europa, a seguito di un forte successo dei vari partiti antieuropeisti, presenti ormai praticamente in tutti i 28 Paesi dell'Unione.

La crisi Comunitaria e' sotto gli occhi di tutti. Anche in Paesi tradizionalmente europeisti, (penso ai 6 fondatori del Mercato Comune Europeo), sta montando insoddisfazione e rabbia verso istituzioni burocratiche, lontane dai cittadini e che, diciamolo onestamente, non hanno saputo interpretare i cambiamenti conseguenti alla caduta del muro di Berlino.

La crisi iniziata nel 2008, con le sue gravi ripercussioni sul tenore di vita dei cittadini, e' piombata su un edificio gia' di per se' fragile, rischiando di comprometterne irrimediabilmente la stabilita'.

Anche in politica, le crisi hanno effetti un po' assimilabili a quanto accade nelle famiglie nei momenti di difficolta': possono consolidare la solidarieta', ma possono anche scatenare egoismi e fratture dagli effetti devastanti.
L'europa sembra aver imboccato la seconda strada.

Pur nella piena consapevolezza dell'attuale insufficienza di visione nella classe politica europea e della conseguente necessita' di un profondo ripensamento delle istituzioni Comunitarie, sono convinto che nello scenario del mondo globalizzato l'Europa o avra' un futuro comune, o andra' inesorabilmente incontro ad una definitiva subordinazione di ruolo rispetto alle aree emergenti del pianeta.

So benissimo che sara' difficile far accettare questa impostazione, in un momento nel quale all'Europa vengono, piu' o meno superficialmente, attribuite tutte le responsabilita' delle difficolta' in cui si dibattono fasce sempre piu' ampie di cittadini.
Sono altrettanto convinto che e' dovere di ogni cittadino responsabile, contribuire a far comprendere il pericoloso portato demagogico e dirompente di certe posizioni, solo mirate a capitalizzare in termini di consenso elettorale il grave disagio del momento.

Certo deve levarsi una forte richiesta di cambiamento, a partire dal rendere piu' vicine ai cittadini le istituzioni europee. Ma la giusta richiesta di cambiamento non va confusa con i disfattismi ed i populismi.
La consapevolezza delle inadeguatezze non puo' far dimenticare il cammino percorso negli ultimi 60 anni: un cammino di pace e di progresso che, di fronte a scelte irresponsabili, potrebbe anche non risultare una condizione irreversibile.
Cambiare quindi guardando in avanti, non dimenticando mai quella "maestra di vita" che e' la storia.
E non dimenticando il messaggio e la testimonianza che ci hanno lasciato i grandi europeisti, quelli che hanno vissuto direttamente le tragedie europee della prima meta' del XX secolo: penso a De Gasperi, Schumann, Adenauer, Spinelli, Delors.

A questi grandi uomini dobbiamo pensare; non alla Le Pen, a Salvini, a Grillo o ad altri simili strilloni e/o saltimbanchi.

paolo Razzuoli

L'Europa dilaniata tra ribellismo ed egoismi

di Adriana Cerretelli

Marine Le Pen ha vinto insieme all'assenteismo che ha sfiorato il 40%. Entrambi hanno umiliato la Francia socialista e quella gollista mettendone a nudo l'impotenza politica, il fossato che le separa dalla gente, dai loro problemi e anche dalle loro nevrosi. La duplice vittoria di due "sussulti" popolari estranei ai giochi della democrazia tradizionale promette però di non fermarsi sulle sponde della Senna.

Se così sarà, l'Europa comunitaria prima o poi potrebbe invertire rotta, cambiare il corso della sua storia. Mancano solo due mesi alle elezioni europee che rischiano di travolgerla, di vedere una parte consistente dei suoi oltre 500 milioni di cittadini consegnarle un messaggio-killer, l'invito a rassegnarsi alla propria eutanasia. Dovunque nei 28 Paesi dell'Unione euroscetticismo, anti-europeismo, populismo e nazionalismi crescono per le ragioni più diverse.

Vinte le amministrative, il Fronte nazionale potrebbe diventare in maggio il primo partito francese. E contare di più nelle dinamiche europee attraverso le alleanze che sta stringendo con il partito della Libertà di Geert Wilders, che a sua volta promette di arrivare primo in Olanda, con la Lega in Italia, il Fpoe in Austria, il Vlaams Belang in Belgio. E formazioni simili in Finlandia e Svezia.

Nel nuovo Europarlamento, annunciano i sondaggi, gli anti-europeisti potrebbero oscillare tra un quarto e un terzo del totale dei seggi. Al gruppo "lepenista" si affiancheranno infatti le forze dell'inglese Ukip, a sua volta probabile primo partito, gli eletti del Movimento 5 Stelle che potrebbero convergere nelle loro file. Estrema destra e sinistra greca. I partiti nazionalisti dell'Est, Ungheria in testa. Nella stessa Germania, tradizionalmente vaccinata contro questo tipo di pulsioni, "Alternativa per la Germania", il partito anti-euro, sarebbe all'8%. Con l'estrema sinistra che combatte la stessa battaglia, il no arriverebbe al 15%. In attesa di vedere come andrà a finire, sorge una domanda: ma l'Europa si merita questa insurrezione popolare, i forconi dei suoi cittadini infuriati, il plebiscito del rifiuto?

Insomma l'euroscetticismo dilagante è davvero il figlio legittimo della Malaeuropa o non è piuttosto il suo bastardo?
Le risposte non sono univoche perché la realtà europea è estremamente complessa, priva di una chiara identità, di ambizioni e visioni comuni. È un oggetto che, soprattutto in tempi di avversità economiche, suscita diffidenze e paure, spesso irrazionali ma non per questo meno sentite. Per timore dei servizi a basso costo che avrebbe potuto offrire in Francia grazie alla detestata direttiva Bolkestein, il famoso "idraulico polacco" indusse i francesi a bocciare la Costituzione europea, con tutti i contraccolpi negativi che si scaricarono sull'Ue. Qualche anno dopo si scoprì però che in quel maggio 2005 in Francia di idraulici polacchi ce ne erano 13. Sì, soltanto 13.

Una volta l'Europa era una casa immobile nel mondo bloccato di Yalta, una casa piccola, coesa e rassicurante che distribuiva pace e benessere, in una parola sicurezze. Il mondo è cambiato, è diventato mobile e globale. Dalla caduta del Muro in poi, anche l'Unione si è globalizzata, riunificandosi e allargandosi.
Mercato unico, moneta unica, frontiere sempre più a Est. La Germania raddoppiata che inevitabilmente esce dalla taglia media, quella degli altri Grandi, per farsi unica superpotenza europea: economica ma anche politica e soprattutto culturale.

Poi la grande crisi finanziaria del 2008 che dagli Stati Uniti sbarca in un'Europa psicologicamente disarmata, impreparata a gestirla. E così la piccola Grecia (2% del Pil euro e 3% del debito) con le sue malefatte sui conti pubblici diventa l'incredibile detonatore della grande euro-crisi. I mercati ci sguazzano, i governi non sanno che pesci pigliare. In attesa di rafforzare la governance dell'euro, partono le cure da cavallo del rigore e la troika che non guarda in faccia a nessuno. Irlanda, Grecia, Portogallo, Spagna e Cipro evitano in extremis il default ma gli aiuti europei costano carissimo: recessione, disoccupazione alle stelle, welfare nelle stalle. Il debito però sale invece di scendere.
Mentre il Sud soffre, il Nord, che pure ha contribuito alla crisi con gli incauti investimenti nei titoli sovrani mediterranei dai lauti rendimenti, lucra sui Paesi più vulnerabili: le casse dello Stato e le imprese tedesche si finanziano a tassi sottozero ma nell'immaginario collettivo è il contribuente tedesco a pagare ingiustamente per fannulloni e frodatori meridionali. Così l'Europa si spacca. Nord e Sud si guardano in cagnesco, incattiviti, esasperati.
Esplode una crisi di sfiducia reciproca senza precedenti. L'Europa che distribuiva pace e benessere ora dispensa sacrifici, rancori, disperazione, insicurezze diffuse, futuro incerto. Ha perso lo spirito di famiglia, il senso di solidarietà. Fondata sul principio dell'"unità nelle diversità" si trasforma nel club dei separati in una casa dove le "divisioni nelle avversità" sono la regola.

E allora Europa perché, per fare che cosa e andare dove? E, poi, si può amare un riformatorio? Prolifera sul ribellismo popolare, scatenato dal rigore cieco che ha bloccato la crescita e distrutto lavoro, l'euroscetticismo che spadroneggia a Sud. A Nord invece si alimenta di egoismi e istinti difensivi: la vecchia paura del club-Med, il terrore di dover pagare di tasca propria, via la moneta unica, l'irresponsabilità degli altri.
Euroscetticismo, in breve, fa rima con incomunicabilità: soprattutto culturale. Debito in tedesco significa colpa, in greco fiducia: due mondi agli antipodi eppure due concetti entrambi compatibili con quella parola: dipende da come si maneggiano i debiti. Sarebbe semplicistico però spiegare la rivolta con la sola emergenza euro. Il disagio viene da più lontano, ha radici più profonde.

La crisi ha strappato il velo delle ambiguità e delle ipocrisie europee, facendo non a caso riaffiorare ferite della storia che si credevano cicatrizzate proprio grazie al successo dell'integrazione post-bellica. Sulla piazza Syntagma ad Atene si sono viste bruciare bandiere naziste. Sulla "Bildt" tedesca titoli cubitali invitavano i greci a vendere Rodi e le isole per fare cassa. Europa? Europa sì, la vecchia Europa dei ciechi nazionalismi, dei turpi egoismi che sfociarono in tre guerre civili.
Mentre si consumava il divorzio dai suoi cittadini, l'Europa ha continuato a funzionare uguale a se stessa. Meglio, quasi uguale. Il quinquennio di crisi ha infatti accelerato l'indebolimento delle istituzioni comunitarie, garanti del rispetto dei Trattati Ue oltre che naturale luogo di mediazione tra i molteplici interessi dei Paesi membri. Istituzioni comuni più fragili, metodo intergovernativo all'arrembaggio. Unione più frammentata, meno coesa paradossalmente proprio quando cerca più convergenza per uscire dalla crisi.

Questo consesso più intergovernativo, dove ovviamente vige la legge del più forte, usa l'Europa come l'idiota del villaggio, l'alibi per vendere decisioni impopolari ai propri cittadini, dipingendola come un'eurocrazia stupida, arrogante, troppo invadente. Tacendo sul fatto che quell'eurocrazia si limita a usare i poteri che le sono affidati dai governi e dai Trattati, scritti da quegli stessi governi, ratificati dai loro parlamenti.
Allora Malaeuropa o malgoverni, mala-comunicazione e mala-informazione?
C'è una diffusa ignoranza in Europa sull'Europa, su che cosa fa davvero e perché. Nessuno, per esempio, ha spiegato ai cittadini che cosa significavano le riforme che hanno rafforzato il patto di stabilità, i poteri più intrusivi della Commissione nei bilanci nazionali. Per la verità nemmeno tutti i parlamenti nazionali l'hanno capito. E così quando poi se ne coglie il senso, è rivolta, indignazione, rifiuto. Anche perché il nuovo trasferimento di sovranità nazionale a Bruxelles si è compiuto senza trasparenza democratica. L'Europa vive come progetto delle elites, non dei popoli. Però ora che entra sempre più nella gestione delle nostre vite e delle nostre tasche, la gente pretende a giusto titolo che sia più democratica, meno opaca e tecnocratica.

Sfortuna vuole che la crisi esistenziale dell'Unione si incroci sia con quella provocata dalla globalizzazione economica e migratoria con il carico di insicurezze che si porta dietro, sia con quella delle democrazie occidentali, incapaci di trovare un efficace modus vivendi e operandi nella società della comunicazione istantanea e dei social network dove i partiti tradizionali non si ritrovano più, incapaci di risposte convincenti, avvitati su politiche miopi, prive di orizzonti strategici. Ansiosi solo di mettere la testa sotto la sabbia.
In 60 anni di vita l'Europa ha dato tanto ma non è riuscita a darsi una solida identità: dopo il quinquennio di passione, l'euro non sembra il veicolo più adatto. Come ricostruire il consenso perduto? Se tornerà la ripresa economica, l'anti-europeismo rientrerà nei ranghi fisiologici, giurano in molti.
C'è da sperarlo. Nel mondo globale l'Europa non è un'opzione ma una necessità assoluta. Peccato che, prima dei loro cittadini, siano molti governi a non averlo ancora capito. Per questo Marine Le Pen potrebbe essere l'avanguardia francese di un disastro europeo.

(dal Sole 24 ore - 25 marzo 2014)

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