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Breve commento introduttivo

Il tema della cosiddetta "Spending review" (riduzione della spesa pubblica), E' ormai lo stretto cunicolo dal quale debbono passare i governi che negli ultimi anni si sono succeduti alla guida del nostro Paese. Un crinale infido ma ineluttabile, posto lo scenario economico ed i cogenti vincoli di bilancio interni ed esterni.
Dopo l'ultimo Governo Berlusconi, si e' ritenuto di affidarsi a professionisti di valore (Monti ad Enrico Bondi, Letta e quindi Renzi a Carlo Cottarelli), ai quali si e' chiesto di indicare i settori in cui e' possibile risparmiare, in una logica pero' che non sembra ipotizzare quei radicali interventi riformatori senza i quali nulla si potra' fare sulle cause strutturali degli sprechi della nostra Pubblica Amministrazione.

E' chiaro che cosi' procedendo e' difficile che ai buoni propositi possano far seguito fatti concreti. Cosi' come e' altrettanto inevitabile che questa logica conduca ad un abbassamento dei livelli delle prestazioni, anche in settori importanti dell'intervento pubblico, quali la sanita', la sicurezza, la giustizia, la scuola.

Se e' vero, come e' vero, che in molti paesi dell'UE i servizi pubblici funzionano meglio ed a costi inferiori, qualcosa vorra' pur significare, a partire dalla constatazione che e' possibile ridurre i costi senza ridurre i livelli delle prestazioni.
Per questo e' anzitutto necessario distinguere nitidamente cio' che e' spreco, quali sono le sue cause, quali sono gli strumenti per rimuoverne le cause strutturali: azione non certo ne' facile ne' indolore, ma l'unica strada idonea per uscire dalla logica dei proclami e delle piu' o meno buone intenzioni.

Un obiettivo ben superiore a quello di dare qualche sforbiciata qua e in la', con inevitabili ripercussioni sulla qualita' di servizi essenziali e con la concreta prospettiva di far pagare il prezzo alle categorie piu' deboli.

Una prospettiva che rende retorica anche qualsiasi intenzione di destinare le necessarie risorse alla crescita: priorita' assoluta in un Paese in cui l'emergenza lavoro e' la madre di tutte le emergenze.

Il testo che propongo ai lettori di Fucinaidee offre una prospettiva metodologica diversa, certo impegnativa e difficile, ma oggettivamente l'unica in grado di affrontare il problema in termini strutturali.
Solo cosi' si potranno affrontare i veri nodi della questione, evitando che gli interventi colpiscano solo i servizi e le categorie piu' deboli, lasciando immutato il contesto in cui disfunzioni, sprechi e privilegi si alimentano, a vantaggio delle solite categorie della burocrazia e dei vari sottoboschi che fioriscono alla sua ombra e a quella della politica.

I nodi sono quindi di respiro politico: e' quindi la politica che dovra' farsi carico del fardello - non leggero - di assumersi sino in fondo le proprie responsabilita' e di riuscire, grazie ad un progetto complessivo e ben leggibile e credibile, a far si' che i cittadini lo accettino, ridimensionando cosi' il peso interdittivo delle varie corporazioni piu' o meno forti, che sono fra i piu' tenaci difensori (che si badi bene sono moltissimi al di la' della retorica) dell'esistente.

Paolo Razzuoli

Spesa pubblica, perché i tagli sono difficili

di Luca Ricolfi

Sono troppi o troppo pochi 34 miliardi all’anno di tagli della spesa pubblica?

 

La domanda aleggia nelle stanze della politica da qualche giorno, perché 34 miliardi è quanto il Commissario alla spending review Carlo Cottarelli ipotizza di risparmiare nel 2016, dopo aver tagliato la spesa pubblica di 7 miliardi quest’anno e 18 l’anno prossimo.

  

La sequenza 7-18-34, a quanto pare, spaventa Renzi e i suoi. Non solo perché siamo sotto elezioni, e parlare di tagli di spesa pubblica ad appena 60 giorni dal voto può danneggiare il partito del premier, ma anche perché alcuni tagli ventilati da Cottarelli, ad esempio quelli alle pensioni superiori a 2500 o 3000 euro mensili lordi, appaiono davvero sorprendenti: come si fa a considerare ricco, e quindi soggetto a un «contributo di solidarietà» (che brutta e ipocrita espressione…), un pensionato che incassa 2000 euro netti al mese, e nello stesso tempo considerare povero, e quindi da aiutare con uno sgravio Irpef, un lavoratore dipendente che di euro al mese ne guadagna 1500?

  

Dunque Renzi frena. Secondo alcuni (Federico Fubini venerdì 21 marzo su Repubblica) sarebbe orientato a tagli di «soli» 20-25 miliardi, meno di quanti ne aveva programmati il timido governo Letta.

 

Secondo altri, più maliziosi, la vera entità dei tagli che Renzi si appresta a mettere in cantiere, specie riguardo alle pensioni del ceto medio, la conosceremo solo dopo le Europee, quando non ci saranno più appuntamenti elettorali importanti alle porte.

 

Che cosa dobbiamo pensare?

 

Non lo so, perché delle vere intenzioni del premier (ammesso che esistano) non ho la minima idea. Però, avendo studiato per anni gli sprechi della Pubblica amministrazione, ho un’idea di quanto grandi essi siano e del perché sarà impossibile eliminarli a breve.

  

Cominciamo dalle cifre. La spesa pubblica, se trascuriamo gli interessi sul debito e le pensioni vere e proprie (che sono retribuzioni differite), ammonta a circa 500 miliardi. Questa cifra include sia la spesa sociale in senso stretto (sanità, scuola, assistenza, ammortizzatori sociali) sia le spese generali di funzionamento di qualsiasi stato moderno (difesa, giustizia, carceri, amministrazione, trasporti, infrastrutture). La stragrande maggioranza degli studi che hanno provato a stimare l’entità degli sprechi in uno o più di tali settori hanno riscontrato tassi di spreco medi nazionali compresi fra il 15% e il 30%. Tali tassi, però, variano enormemente da territorio a territorio, diciamo da un minimo del 5%, tipicamente riscontrabile per diversi servizi erogati in Lombardia e in Veneto, fino al 50%, tipicamente riscontrabile in molte (non tutte) le regioni meridionali.
Complessivamente, una stima prudente del tasso medio di spreco a livello nazionale, intendendo con spreco tutto quel che si spende in più rispetto ai territori più efficienti, si può situare intorno al 20%. In concreto significa che, ogni anno, buttiamo dalla finestra più o meno 100 miliardi di euro, dove «buttare dalla finestra» significa che potremmo produrre gli stessi servizi spendendo 400 miliardi anziché 500 o, alternativamente, che con la medesima spesa di prima potremmo ampliare i servizi di circa il 20%: più asili nido, più politiche contro la povertà, migliori ospedali, migliori scuole e così via.

  

Se ci fermiamo fin qui la conclusione è scioccante: altroché troppi tagli, 34 miliardi è appena un terzo di quel che si potrebbe tagliare! Dunque Renzi dovrebbe tagliare di più, non di meno di quel che Cottarelli ipotizza.

 

C’è un «però» grande come una casa, tuttavia. Tagliare senza ridurre i servizi è difficile, difficilissimo (su questo, e fino a questo punto, i sindacati hanno perfettamente ragione). Si può fare, ma solo a tre condizioni, nessuna delle quali è attualmente rispettata, e l’ultima delle quali è indigeribile per i sindacati.

 

Prima condizione (studi macro). Ci vogliono studi di settore, servizio per servizio, articolati territorialmente almeno a livello regionale, per individuare le «migliori pratiche» (le cosiddette best practices) e stimare il tasso di spreco di ogni territorio, che si può ricavare da un confronto sistematico, in termini di costi e benefici, con il territorio meglio organizzato. Bisogna, in altre parole, continuare il lavoro meritoriamente iniziato dalla Commissione Muraro (Commissione tecnica per la finanza pubblica), insediata nel 2007 da Padoa Schioppa e malauguratamente sciolta da Tremonti nel 2008, dopo poco più di un anno di lavoro. Non è questo, a quel che è dato conoscere, il lavoro che sta facendo il Commissario Cottarelli. Eppure nessuna riduzione degli sprechi è possibile in Italia se non si parte da studi macro ben fatti e da obiettivi di risparmio territoriali.

  

Seconda condizione (studi micro). Una volta individuate le inefficienze di uno specifico servizio e la loro distribuzione territoriale, occorrono studi molto precisi e dettagliati per passare dalla individuazione dell’entità complessiva degli sprechi alla loro eliminazione in un dato territorio. Quando il governatore Cota mi chiese di dare una mano a razionalizzare la spesa sanitaria in Piemonte, non se ne fece nulla perché lui voleva risultati in pochi mesi, mentre io ritenevo che un piano che non peggiorasse il servizio ai malati richiedesse almeno 2 anni di duro lavoro di un’équipe di decine di medici, infermieri, sociologi, economisti, eccetera. Il governatore della mia regione aveva commesso, a mio parere, il medesimo identico errore di Renzi e di tutti i premier che lo hanno preceduto: quello di sbarcare al governo senza avere né un’analisi, né piani operativi pronti, né la consapevolezza che, se li si intende costruire da zero, bisogna avere la pazienza di aspettare 2-3 anni.

  

Terza condizione (comando). Una volta capito che un determinato servizio in un dato territorio «spreca», poniamo, 100 milioni di euro, e che per ridurre lo spreco bisogna intervenire in determinati, specifici, punti del sistema di erogazione del servizio, manca ancora una condizione fondamentale, quella che in un libro di qualche anno fa Giulio Tremonti ebbe a chiamare il «comando» nella Pubblica amministrazione. Occorre, in altre parole, che ci sia qualcuno che abbia sia la competenza sia il potere per riorganizzare il servizio, e non solo per imporre tagli di spesa.
Oggi non esiste praticamente alcun servizio erogato dalla Pubblica amministrazione in cui un dirigente informato e motivato abbia un effettivo potere di riorganizzazione. E questo per la semplice ragione che chiunque provi a mettere le mani davvero su mansioni, orari di lavoro, trasferimenti, ruoli e gerarchie, invariabilmente incontra la più o meno sorda resistenza di tutti, dai sindacati che preferiscono tutelare i propri iscritti piuttosto che difendere gli utenti, ai singoli lavoratori che non esitano a ricorrere alla magistratura pur di evitare qualsiasi decisione che non gradiscono.

  

Purtroppo nessuna delle tre condizioni precedenti è soddisfatta, per adesso. Il lavoro della commissione Muraro è incompleto e in ogni caso andrebbe aggiornato.
Di studi analitici se ne conoscono pochissimi, mentre ce ne vorrebbero diverse centinaia. Quanto a ristabilire un minimo di «comando» nella Pubblica amministrazione, ne siamo lontani anni luce. A queste tre difficoltà, ne andrebbe poi aggiunta un’altra, di tipo politico generale, e cioè che una spending review che volesse fare sul serio non potrebbe nascondere tre fatti su cui i governanti, chiunque essi fossero, hanno sempre preferito sorvolare: che il grosso degli sprechi e delle inefficienze nell’erogazione dei servizi ha luogo nel Mezzogiorno; che spendiamo ogni anno 10 miliardi per false pensioni di invalidità; che almeno un terzo dei «poveri» che usufruiscono di esenzioni varie, dai ticket sanitari alle tasse universitarie, sono finti poveri, che evadono il fisco o autocertificano il falso.

  

Conclusione?

 

Nessuno, in Italia, riuscirà mai ad azzerare 100 miliardi di sprechi della Pubblica amministrazione.
Sarebbe già molto che un governo riuscisse a eliminarne la metà, diciamo 50 miliardi, ossia un po’ di più di quello che Cottarelli ha ipotizzato per il 2016. Per farlo, però, occorrerebbe che fossero soddisfatte le condizioni che ho ricordato. Finché non lo saranno tutte e tre, dalla più facile (la prima) alla più difficile (la terza), è inutile illudersi. Se 34 miliardi di tagli saranno, scordiamoci i servizi. E se vogliamo salvare i servizi, scordiamoci i 34 miliardi di tagli.

 

(da La Stampa - 23 marzo 2014)

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