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Giorno del Ricordo 2014

di Paolo Razzuoli

IL 10 febbraio cade, da quando la Legge 30 marzo 2004, n. 92 lo ha istituito, il Giorno del Ricordo per non dimenticare la tragedia delle foibe, l'Esodo istriano-dalmata, e piu' in genere le tragiche vicende che hanno caratterizzato - al termine della seconda guerra mondiale e negli anni immediatamente successivi - il nostro confine nord-orientale.

La scelta della data e' pregnante di significato: fu infatti in data 10 febbraio 1947 che venne firmato dall'Italia il trattato di pace. Un atto durissimo che, fra l'altro, ridisegno' la mappa geo-politica del confine nord-orientale, sancendo il passaggio dell'Istria alla Juguslavia comunista del Maresciallo Tito.

Una delle conseguenze della firma del trattato fu l'accelerazione dell'esodo verso l'Italia di coloro che non se la sentirono di rimanere sotto il giogo dei comunisti di Tito. Un esodo peraltro iniziato gia' al momento dell'avanzata in Istria delle truppe juguslave, ma che con la firma del trattato subi' una forte accelerazione, posto che ormai veniva meno qualsiasi illusione per una diversa soluzione della vicenda.

Fucinaidee si e' molto occupata di questi avvenimenti, proponendone, nel corso degli anni, approfondimenti storici anche avvalendosi di testimonianze dirette.
Quest'anno affidiamo la riflessione sul Giorno del Ricordo al racconto di alcune vicende personali che, nella loro crudezza e drammaticita', offrono una testimonianza del coraggio con cui questa gente affronto' la vicenda.

Coraggio che, evidentemente, si alimento' nella consapevolezza della improponibilita' della prospettiva di vita che l'attendeva nella propria terra, pur non conoscendo quale destino l'attendesse sul territorio italiano.

E non fu un destino certamente facile, giacche' coloro che abbandonarono le terre istriano-dalmate si trovarono addosso l'ostilita' di tutti: dei comunisti che li consideravano sbrigativamente dei collusi col fascismo, che scappavano da quella sorta di Paradiso terrestre che era la Juguslavia comunista; da molti altri, diciamolo senza infingimenti, che li videro come intrusi che venivano a occupare posti di lavoro, in un momento in cui di lavoro ce n'era poco per tutti mentre grande era la richiesta, e forte era lo stato di miseria e di bisogno in cui si trovava la maggioranza degli italiani.

«Mio padre infoibato» - Giorgio Bianchi racconta quegli anni tragici «Ce ne andammo senza nulla"

«Mio padre ha avuto la sfortuna di essere titolare del principale Caffè di Capodistria. Lui non faceva parte di nessun partito, non era schierato. Era semplicemente un italiano».

Giorgio Bianchi, una vita da farmacista, ricorda molto bene quegli anni, il 1945 in particolare, quando suo padre sparì in una foiba.

«Fu una pulizia etnica, sulla pelle degli italiani» continua a raccontare. «Erano le 10.30 del 5 maggio 1945 quando due uomini armati sono entrati in casa mia, a Capodistria e hanno portato via mio padre». Giorgio Bianchi era scappato pochi giorni prima, il 30 aprile, andando a vivere a Venezia. La madre rimase ancora un anno in Istria, girando per i campi di concentramento in cerca di notizie del marito. «Abbiamo sentito solo delle voci: ci hanno detto che lo avevano portato in un paesino, poi qualcuno ha detto che era stato infoibato a Buie. Ma non abbiamo avuto mai una prova di dove fosse finito».
Un anno dopo la donna venne prelevata, portata al piroscafo e fatta imbarcare a forza. Non potè portare nulla con sè.

«Abbiamo capito cosa sarebbe successo agli italiani già dall'8 settembre del 43: improvvisamente ci siamo trovati con due nemici, gli slavi e i tedeschi». C'è chi come Bianchi ha perso il padre infoibato, e chi come Adriana Tegner (moglie del sindaco di Sospirolo) è riuscita a fuggire nel 1945 da Pola con la madre e le sorelle, raggiungendo il padre che già era scappato prima:
«Siamo venuti via senza niente, abbiamo dovuto lasciare tutto lì». In quella terra, in tanti non hanno lasciato solo i loro averi, gli amici e i parenti: ci hanno lasciato anche il cuore. Ci sono tornati e ci tornano ancora molto spesso, colpiti dalla nostalgia, oggi come quasi 70 anni fa.

La vicenda di Maria Bronzin

Maria Bronzin era una ragazza quando scappò su una barca da carico, con la mamma e quattro fratelli. «Avevamo perso tutto, andammo a Venezia dove c'era un nostro zio. Fummo tra i fortunati che non dovettero andare nei campi profughi o nelle scuole, dove le pareti tra una stanza e l'altra erano fatte di coperte».
La signora Bronzin, originaria di Rovigno, rivide il suo paese natale solo nel 1986. «Tanta nostalgia, proprio tanta», racconta. E ricorda ancora adesso:
«quando battevano alle porte portavano via la gente». Gente che spariva, dentro nelle foibe o fucilata, come ha ricordato anche don Carlo Onorini durante l'omelia nella chiesa di San Rocco.

Gabriele Brescak

Gabriele Brescak aveva cinque anni e abitava vicino a Gorizia. Se ne dovette andare con la sua famiglia, come accadde a Loredana Fontanini, che aveva 12 anni quando nel 1947 scappò da Fiume senza portarsi via nulla. Suo padre che era ufficiale degli alpini riuscì a fuggire prima di essere preso. E non potè mai più tornare.

Lucca, 7 febbraio 2014

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