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Matteo Renzi senza rivali nel PD - Il soccorso al vincitore

di Angelo Panebianco

Fa impressione osservare una slavina di queste proporzioni, vedere un partito quasi al completo, salvo un po' di irriducibili, precipitarsi sotto le ali di un politico che, solo pochi mesi prima, era stato trattato da tanti come un corpo estraneo, un «infiltrato» della destra. Matteo Renzi ha già vinto il prossimo congresso facendosi consacrare leader, con un bagno di folla, in una regione, l'Emilia Romagna, che mantiene un peso decisivo negli equilibri interni al Partito democratico e che, nelle primarie dello scorso anno, aveva (secondo copione) incoronato Bersani.

Ciò fa impressione ma non stupisce. È la reazione all'inatteso fallimento di Bersani, andato alle elezioni in nome della tradizione, della continuità. È normale che, dopo una grande delusione, un partito allo sbando si aggrappi a una nuova leadership , accetti il ricambio rifiutato in precedenza. Resta da vedere se il ricambio produrrà anche un effettivo rinnovamento identitario e delle politiche del partito. L'effetto slavina, o effetto bandwagoning (con quasi tutti che saltano sul carro del vincitore), è per Renzi un'arma a doppio taglio. Lo innalza irresistibilmente agli onori della leadership ma esercita su di lui anche una pressione tesa a fargli abbandonare, o a diluire, quelli che, nelle primarie dello scorso anno, erano risultati gli aspetti più innovativi della sua proposta.

Conosciamo il Renzi 1, il novello Davide che fece la campagna delle primarie contro il vecchio apparato e le sue logore parole d'ordine. Ma non conosciamo ancora il Renzi 2, il futuro leader del partito. Non sappiamo quali compromessi dovrà accettare. E poiché non è chiaro quanto il Renzi 2 sarà diverso dal Renzi 1, non è nemmeno possibile immaginare quanto rinnovamento ci sarà davvero. Non sappiamo insomma se l'innovazione batterà il trasformismo (di quelli che si sono precipitati sul carro) o se il trasformismo neutralizzerà l'innovazione. Ha ragione Walter Veltroni quando mette in guardia Renzi: un eccesso di consensi nasconde insidie che potrebbero palesarsi presto.

Renzi ha un partito da ricostruire. Un partito che per lungo tempo ha tenuto a bada le proprie divisioni interne, e nascosto il proprio conservatorismo, usando il mastice dell'antiberlusconismo (uno spiacevole effetto collaterale è stato l'eccessivo spazio che il partito ha dato per anni ad orientamenti forcaioli in materia di giustizia). Un partito, inoltre, che a causa della sua debolezza, si è abituato ad essere largamente etero-diretto nelle sue politiche: dai giornali d'area, dalla Cgil, da settori della magistratura. Al punto che non è sempre stato chiaro quale ne fosse il «vero» gruppo dirigente.

È un partito siffatto che Renzi dovrà governare e rigenerare. Da qui il dilemma: se Renzi si allontanerà troppo dalle sue posizioni originarie incontrerà poche resistenze interne, almeno nella prima fase, ma la sua azione risulterà alla fine poco incisiva. Se, al contrario, sceglierà di restare fedele a se stesso, incontrerà resistenze molto più forti, fronteggerà conflitti acuti, ma avrà anche qualche chance in più di cambiare il partito. In ogni caso, gli irriducibili, i nostalgici, si rassegnino. Nelle attuali condizioni della competizione democratica, un partito non può che essere la struttura di supporto di un leader. Forse Renzi non riuscirà a rinnovare in profondità il partito ma, per lo meno, distruggerà qualche mito, svecchierà almeno un po' una cultura politica da sempre troppo diffidente verso le leadership individuali.

(dal Corriere della Sera - 6 settembre 2013)

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