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 Letta al Meeting - I professionisti dell'identità

di Pierluigi Battista

Al Meeting di Rimini Enrico Letta sapeva che, rivendicando il valore dell'«incontro» tra forze politiche diverse e che vogliono mantenere inalterate le loro «differenze», si sarebbe esposto alla logora, ma sempre vigorosamente intimidatoria, accusa di «inciucismo». Ma non ha voluto arretrare da una convinzione che ribadisce da quando è diventato capo di questo governo: il sano conflitto politico non viene necessariamente mortificato se partiti tra loro alternativi, vincolati a un mandato preciso e consapevoli della drammaticità di uno «stato di eccezione», decidono di formare un governo chiamato a realizzare pochi punti, ma decisivi. E le forze politiche non possono rovesciare sul «loro» governo ogni malumore, ogni debolezza, ogni idiosincrasia.

Il guaio è che sia il Pd che il Pdl stentano a riconoscere, senza remore e paralizzanti riserve mentali, nel governo Letta il «loro» governo. Se ne sentono ostaggi e vorrebbero tenerlo come ostaggio impotente in balia della loro volubile umoralità. Il Pdl, ferito fino allo sbandamento dopo la condanna del leader in Cassazione, sembra esigere dal governo (a giorni alterni, sinora) un salvacondotto impossibile, un atto di sottomissione con cui il Pd e Palazzo Chigi si dovrebbero accodare alla campagna contro la magistratura acutizzatasi all'indomani di una sentenza definitiva: un'assurdità infantile, prima ancora che un ricatto politico destinato, nella migliore delle ipotesi e comunque senza arrivare allo strappo definitivo, a rendere tumultuosa la vita di un governo vulnerabilissimo.

Il Pd cerca di scaricare sulla stabilità del governo un'interminabile guerriglia interna che rende del tutto irrilevante il fatto che al capo del governo ci sia un esponente storico del loro partito, addirittura vice segretario fino al giorno della chiamata del Quirinale. Ambedue, il Pdl e il Pd, sembrano vivere l'esecutivo cui hanno dato la fiducia come una camicia di forza, una prigione soffocante, un obbligo di coabitazione che non prevede bussole comuni, punti di incontro, provvedimenti circoscritti ma efficaci per far uscire l'Italia dalla crisi in cui è drammaticamente sprofondata.

Ma il messaggio di Letta si propone di mettere un argine a un primitivismo culturale che, da sinistra come da destra, liquida e squalifica come «inciucio» ogni accordo, come capitolazione ogni punto di intesa, come annebbiamento di un'identità pura e incontaminata ogni provvedimento macchiato da un peccato originale. Il messaggio di Letta, semplicemente, è in controtendenza con tutto ciò che ha avvelenato la vita politica di decenni di bipolarismo primitivo e muscolare. Non dominata da nobili passioni e contrapposizioni, come amano ridipingerlo i suoi aedi terrorizzati come guerrieri rissosi da quella che definiscono sprezzantemente «retorica della pacificazione».

Ma da un'incoercibile pulsione alla reciproca dannazione, da una voglia, sconosciuta in ogni altra matura democrazia dell'alternanza, di annientamento dell'avversario politico ridotto e caricaturizzato come Nemico assoluto. Dopo il risultato elettorale di parità perfetta, dopo la plateale prova di inettitudine politica per la (mancata) elezione di un nuovo presidente della Repubblica, dopo la strigliata di Giorgio Napolitano che ha sferzato nel suo discorso di reinsediamento l'inconcludenza verbosa dei partiti, i rinfocolatori di una guerra distruttiva e autodistruttiva, i custodi del dogma «anti-inciucista», hanno vissuto la nascita del nuovo governo come un obbligo da adempiere obtorto collo , senza convinzione, sempre con la tentazione di staccare la spina se gli interessi dei rispettivi partiti dovessero richiederlo.

Senza mai chiedersi se non convenga procedere rapidamente sulla realizzazione di un programma di governo, per non aggiungere fallimento a fallimento, per non dare un'ulteriore e stavolta definitiva dimostrazione dell'incapacità della politica di scegliere, di governare. Senza mai chiedersi perché un periodo limitato di «grande coalizione» ha portato in Germania a risultati significativi e duraturi. Senza chiedersi se la fine di questo governo non porti a una crisi drammatica della nostra democrazia. Non con le identità incontaminate, come pensano i rinfocolatori, ma con identità devastate.

(dal Corriere della Sera - 19 agosto 2013)

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