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Una marcia dei 40 milioni

di luca ricolfi

è già successo 21 anni fa, con Mani pulite e la fine della prima Repubblica, sta risuccedendo ora, con la sentenza della Cassazione su Berlusconi e la fine della seconda Repubblica. La storia, in Italia, la scrive la magistratura, mentre la politica la subisce. In molti pensano, non senza qualche buona ragione, che sia la magistratura ad aver esondato nel la politica.

Ma la realtà è che è innanzitutto la politica ad essersi esposta all’alluvione giudiziaria, che ora la sta sommergendo per la seconda volta.

Ai politici non piace sentirselo dire, ma la causa fondamentale dello strapotere della magistratura è proprio la politica. E lo è in tutte le sue forme ed espressioni. E’ la politica (tutta la politica) che non ha saputo riformarsi, né dopo tangentopoli (1992), né dopo il referendum radicale che aveva tentato di cancellare il finanziamento pubblico dei partiti (1993), né dopo il trionfo del Movimento Cinque Stelle alle ultime elezioni. E’ la politica (in questo caso quella della destra) che ha continuamente modificato le regole del gioco per salvare Berlusconi dai suoi processi. E’ la politica (in questo caso quella della sinistra) che ha rinunciato a battere elettoralmente Berlusconi al solo scopo di favorire un candidato premier debole (Bersani) a scapito di un candidato premier forte (Renzi). Ed è la politica, infine, che ha così poco e male governato l’Italia, lasciando che i problemi veri, occupazione, tasse, Stato sociale, fossero sommersi dai problemi finti, le questioni altamente ideologiche che appassionano il ceto politico, e purtroppo anche tanta parte dei mass media.

Se oggi siamo a questo punto non è perché la magistratura non ha permesso alla politica di governare, ma perché l’incapacità di un intero ceto politico di governare e di decidere ha dato alle vicende giudiziarie uno spazio abnorme nella nostra storia. C’è una differenza importante, però, rispetto al 1992. Allora il sentimento dominante dell’opinione pubblica era una generalizzata ansia di cambiamento, e infatti l’elettorato si divise fra i semi-nuovi partiti di centro-sinistra, mai stati al governo e guidati dal Pds, e i nuovissimi partiti di centro-destra, guidati da Forza Italia. I nostalgici del passato, o forse sarebbe meglio dire i moderati spaventati dal radicalismo della destra e della sinistra, erano una minoranza, che trovò un approdo nelle formazioni postdemocristiane di Segni e Martinazzoli.

Oggi la situazione è profondamente diversa. Gli elettori sono molto più disincantati, il discredito e la delusione coinvolgono più o meno pesantemente tutti i partiti (compreso il Movimento Cinque Stelle), nessuno si illude che un Berlusconi, un Epifani o un Grillo sappiano non dico come affrontare i problemi del Paese, ma quanto meno quali essi siano. Alle prese con un’economia in ginocchio e uno Stato asfissiante in tutte le sue articolazioni, la maggior parte degli italiani non crede a nessuno degli imbonitori che cercano di eccitarne gli animi, né pensa che nuove elezioni risolverebbero i nostri problemi. Per qualcuno è difficile rendersene conto, o farsene una ragione, ma la realtà è che la maggior parte di noi non è né indignata per le malefatte di Berlusconi, né disperata per il destino cinico e baro che l’Italia gli sta riservando. La maggior parte di noi è solo stanca, sfinita, esausta. Non ha nessun desiderio di rivedere, per altri dieci o venti anni, il film che è stata costretta a vedere finora. Vorrebbe che questo clima da guerra civile fredda finisse una volta per sempre, e che si mettesse mano una buona volta ai problemi del Paese. Se un paragone storico si può azzardare, forse il momento che più somiglia a quello attuale non è il 1992 ma il 1980, quando la «marcia dei quarantamila» pose fine bruscamente al decennio più drammatico e conflittuale della nostra storia repubblicana. Con la differenza che oggi, a giudicare dai sondaggi, non siamo 40 mila ma semmai 40 milioni. Quaranta milioni di italiani che potranno avere le opinioni più diverse su Berlusconi, il ruolo dei giudici, la destra e la sinistra, ma che da una cosa sono accomunati: non hanno la minima intenzione di passare i prossimi decenni a discutere e recriminare sulla «guerra dei vent’anni» fra Berlusconi e la magistratura.

Non perché siano indifferenti, o superiori, o annoiati, ma semplicemente perché non se lo possono permettere, e hanno capito che quella guerra ha fatto danni immensi che paghiamo tutti. La situazione economico-sociale del Paese è molto più seria di quanto viene spesso rappresentata. Quando, come avviene da qualche settimana, si parla di segnali di ripresa, si dovrebbero sempre ricordare due cose. La prima è che la cosiddetta ripresa è tale rispetto al tonfo del 2012, un tonfo che in 12 mesi ha raddoppiato il numero delle famiglie in difficoltà: siamo come una pallina da tennis che è caduta in un pozzo di 10 metri di profondità e si compiace di essere rimbalzata di 30 centimetri sul fondo del pozzo. La seconda cosa da ricordare è che, nonostante lo spread sia sotto quota 300, il rating del debito pubblico dell’Italia è di nuovo a un passo dal baratro, dove il baratro è il punto nel quale i buoni del tesoro vengono classificati come spazzatura (junk bonds) e gli investitori istituzionali sono obbligati a venderli in massa, con conseguente rischio di un default dell’Italia. Alcuni osservatori paiono non rendersi conto che il fatto che le agenzie di rating abbiano sbagliato in passato non implica logicamente né che stiano sbagliando di nuovo, né che il loro giudizio sull’Italia – giusto o sbagliato che sia – sia destinato ad essere ignorato dai mercati, dagli operatori esteri e dai fondi pensione.

Per questo guardo con molta preoccupazione ad entrambi i copioni che la politica sta recitando. I fautori dello scontro permanente non sembrano rendersi conto che la seconda Repubblica è finita il 1° agosto 2013 e costruire la terza con lo sguardo rivolto al passato significa non uscire mai dal brutto incantesimo in cui siamo vissuti in questi venti anni. I fautori del governo ad ogni costo, primo fra tutti il presidente Letta, paiono non rendersi conto che la mera sussistenza dell’esecutivo, con la garanzia di stabilità politica che questo implica, non solo è molto di meno di ciò di cui l’Italia ha bisogno, ma è un obiettivo irraggiungibile. Il secondo governo Prodi, quello del 2006-2008, vivacchiò e alla fine cadde anche perché Prodi si ingegnò a farlo sopravvivere solo con l’arte democristiana del troncare, sopire, mediare, rimandare, anziché assumersi risolutamente la responsabilità e il rischio di decidere. Oggi per Enrico Letta è ancora più difficile, perché mediare fra un partito ferito come il Pdl e un partito maramaldeggiante e autoreferenziale come il Pd è sicuramente più arduo che gestire la dialettica fra D’Alema e Bertinotti. Temo che, se vuole sopravvivere (e farci sopravvivere) alla bufera di questi giorni Letta dovrà farsi forza, e rinunciare almeno a un po’ della sua democristianità. O forse, più semplicemente, pensare un po’ di meno ai suoi 40 irrequieti ministri, viceministri e sottosegretari, e un po’ di più ai 40 milioni di elettori che non credono nel potere salvifico delle urne e già sarebbero molto felici se solo avessero un governo che governi.

(da La Stampa - 4 agosto 2013)

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