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 Gli effetti della sentenza di Milano. - Una malsana immobilita'.

di Ernesto Galli Della Loggia

La sentenza di condanna nei confronti di Berlusconi, emessa dal tribunale di Milano, consegna ancora per chissà quanti anni i due maggiori protagonisti della politica italiana - e quindi, necessariamente, l'intera politica italiana in quanto tale - a una virtuale condizione di ostaggio. Oggi più che mai, infatti, sia il Pdl che il Pd sono soggetti su cui «si possono esercitare ritorsioni - così recita la definizione di «ostaggio» sullo Zingarelli - nell'eventualità che certe richieste non siano accolte».

Oggi come non mai il Pdl è ostaggio - verrebbe da dire di più: prigioniero politico - di Silvio Berlusconi. Che questi decida di liberarlo dalla sua presenza, di favorirne in qualche modo l'emancipazione, è, dopo Milano, assolutamente impensabile. Il Cavaliere ha bisogno del «suo» partito per restare un soggetto politico (e di quale stazza!, egli è tuttora il vincitore in pectore di ogni eventuale competizione elettorale), e in tal modo, grazie al proprio ruolo pubblico, oscurare e annullare le condotte della sua figura privata. Naturalmente, insieme al Pdl è tutta la Destra italiana ad essere ostaggio del Cavaliere, anche se si tratta di un ostaggio preda da un ventennio dalla «sindrome di Stoccolma». E cioè grata al suo padrone per i benefici insperati di cui egli l'ha gratificata evocandola dal nulla in cui era stata relegata dalla Prima Repubblica. Lo stesso nulla di personalità e di idee in cui a questo punto, però, la Destra appare destinata a tornare nel momento in cui Berlusconi cessasse (e prima o poi cesserà!) di essere il suo padrone. Riconsegnando così il Paese a quell'identico squilibrio organico tra Destra e Sinistra che lo ha afflitto fino al 1994.

Il Pd, dal canto suo, solo a prima vista sta meglio. Che se ne renda conto o meno, la sentenza milanese, infatti, lo consegna ancora più che per il passato in mano al sistema giudiziario e al suo establishment castale. A sinistra non sono molti, temo, coloro abituati a leggere sul Fatto Quotidiano le puntuali, documentate analisi critiche di un valente giurista e magistrato come Bruno Tinti circa la deriva politico-correntizia in cui è da tempo immerso il Consiglio Superiore della Magistratura e il tono malsano che esso così finisce per dare a tutto l'ordine giudiziario. Sono molti di più, invece, coloro che da anni vedono nella magistratura una preziosa alleata di fatto, capace tra l'altro di risultati politici molto più risolutivi di quelli ottenuti da un'azione e da una leadership di partito sempre, viceversa, ondivaghe e incerte. La clamorosa condanna di Berlusconi non può che suonare come una conferma di tutto ciò. E quindi dare ancora più spazio, se mai ce ne fosse bisogno, a quell'area giustizial-movimentista alla sinistra del Partito democratico che da sempre, con varie denominazioni, gli sta piantata come una freccia nel fianco. Proprio quell'area politico-culturale, va aggiunto, che finora ha impedito al Pd di essere davvero un partito «a vocazione maggioritaria», padrone del proprio operato, in grado di dare al Paese un governo di sinistra riformatrice sottratto ai ricatti di coloro che a sinistra detestano ogni riformismo.

Sia chiaro: nessuno pensa che la magistratura debba farsi condizionare dalle eventuali conseguenze politiche del suo operato. Ma da quando è accaduto che vent'anni fa tale operato è valso a disintegrare una maggioranza parlamentare, nonché il sistema dei partiti del Paese, sarà pur consentito, spero, di valutare quell'operato anche per i suoi effetti politici. Che nel caso di questa sentenza sono pessimi: suonando come una ratifica della paralizzante immobilità della scena italiana.

(dal Corriere della Sera - 26 giugno 2013)

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