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Breve commento introduttivo

In questi giorni i media hanno dato rilievo all'ìinvito, rivolto al Governo da Berlusconi, di essere piu' deciso nel confronto con la Merkel. Un confronto che, se non dara' i frutti auspicati potrebbe, secondo il leader del PdL, mettere in discussione la nostra appartenenza alla zona Euro.
Senza voler sottovalutare la necessita' di un ripensamento sulle strategie messe in campo dall'Unione Europea, ripensamento che peraltro sta sempre piu' emergendo anche in analisi e riflessioni di importanti organismi internazionali (vedi l'ultima presa di posizione del Fondo Monetario Internazionale), mi pare che un serio confronto non potra' produrre risultati veri se non in presenza di alcune condizioni di base, fra cui ne elenco solo due: il rifiuto di atteggiamenti demagogici, ispirati da valutazioni elettoralistiche interne e non ancorati ad una visione di prospettiva; il ritenere di poter trarre risultati da un confronto, senza aver finalmente imboccato la strada di una vera cultura riformista (ben diversa dalla retorica riformista), che consenta al Paese la rimozione delle cause del suo enorme ritardo sui paesi piu' avanzati dell'Unione e, nel contempo, gli ridia la necessaria credibilita' nel concerto europeo.
Temi questi che mi sembrano ben focalizzati nell'intervento di Giuliano Amato che propongo ai lettori di fucinaidee.

Paolo Razzuoli

Per trattare con la Merkel facciamo le riforme

di Giuliano Amato

Si può essere più o meno ruvidi nel chiedere alla cancelliera Angela Merkel, e attraverso di lei all'Europa, di cambiare registro e di dare più spazio alle politiche per la crescita. Quel che è certo è che la richiesta nasce dall'indebolimento generalizzato di tutte le economie dell'Eurozona, quella tedesca compresa, e che in alcuni Paesi - lo sappiamo noi italiani - siamo addirittura in recessione. Il minimo che se ne può ricavare è che si sfruttino tutti i margini di flessibilità che si possono ritagliare entro le strettoie dei nostri bilanci. E farà quindi bene il nostro governo ad instaurare un negoziato a tal fine con Bruxelles, con l'aspettativa di trarne più spese di investimento e più spazio finanziario per altre spese prioritarie e per riduzioni fiscali. Ma al di là dei risicati benefici che così riusciremo (forse) ad ottenere, lo sappiamo tutti che azioni per la crescita con il necessario respiro le si può impostare e mettere in moto soltanto al livello europeo, rafforzando e spingendo più avanti i processi di integrazione che con la crisi hanno iniziato a prender corpo.

Si lamenta, giustamente, il perdurare del "credit crunch" a danno della maggior parte delle nostre imprese, che le banche continuano a vedere come fonte di ulteriori sofferenze e che proprio per questo ricevono ben poco da una raccolta tuttora prioritariamente destinata alla patrimonializzazione delle stesse banche. Ci sono in tutto ciò errori e limiti oggettivi delle nostre istituzioni creditizie, ma una volta che lo si sia constatato sappiamo bene che la via maestra per uscirne è il completamento di quell'unione bancaria europea, che è appena ai primi passi. Non è forse vero che ancora oggi le banche transnazionali destinano agli impieghi in un Paese la sola raccolta effettuata in quello stesso Paese, mentre il mercato interbancario europeo è tuttora quasi inesistente? È dunque più Europa quella che serve. Così come serve più Europa per immettere nelle economie più esangui un sangue che solo in minima quantità esse possono comunque estrarre da bilanci pubblici aventi il risanamento come loro fine primario.

Non a caso si è preso finalmente a parlare - negli stessi documenti ufficiali della presidenza del Consiglio europeo e della Commissione - della necessità di dotare Bruxelles di una "fiscal capacity" che oggi non ha e che sarebbe essenziale per contrastare gli shock asimmetrici che si possono abbattere (come in concreto si sono abbattuti) su alcune delle nostre economie. Si tratta di cambiamenti importanti, di passi ben più lunghi verso l'integrazione di quelli che abbiamo fatto da ultimo, sia in sé (la fiscal capacity - diciamocelo chiaro - richiede un bilancio europeo che dall'uno per cento del Pil comune arrivi almeno al cinque per cento), sia per le implicazioni che portano con sé sul piano politico. A risultati del genere non si arriva mantenendo immutata una governance fortemente intergovernativa come quella attuale. Ci si arriva con un'integrazione che deve essere insieme fiscale e politica, perché l'una non ci sarà senza l'altra.

Non a caso se ne è accorto lo stesso presidente francese François Hollande, il quale, spinto da una necessità più forte di lui e di una lunga tradizione francese, ha abbandonato l'Europa delle patrie di tutti i suoi predecessori e ha messo la stessa Francia sulla strada, appunto, dell'integrazione sovranazionale. È troppo cattivo dire, alla luce di questo stesso cambiamento francese, che la strada conviene ai Paesi più fiaccati dalla recessione, non invece ai più ricchi e ai più robusti? No, non è così, e non soltanto per ragioni economiche - in un mercato integrato la debolezza di alcuni va a danno di tutti - ma anche per ragioni civili e politiche, giacché il portato della situazione attuale - lo abbiamo constatato più volte- è il diffondersi delle chiusure nazionali, della mancanza di solidarietà verso gli altri, addirittura dell'ostilità verso gli altri, che corrode il tessuto comune e mette a repentaglio tutto quello che sinora abbiamo costruito insieme.

Vero, verissimo. Ed è proprio in nome di tutto ciò e contro letture distorte delle ragioni dell'integrazione che io ed altri ci siamo adoprati nei mesi scorsi affinché non si parlasse più di eurobond, vale a dire di mutualizzazione dei debiti nazionali. Eppure, ciò non è bastato a convincere i tedeschi, i finlandesi, gli olandesi, gli estoni e non solo, che vedono l'integrazione come il cavallo di Troia portato da noi al centro della casa comune, per farne uscire il pagamento dei nostri debiti a spese loro. Sono gretti, sono egoisti, sono tanto prevenuti contro di noi da non saper neppure valutare il loro stesso interesse? Molti di loro forse lo sono, ma saremmo noi inadeguati nel capire le ragioni degli altri, se non ci rendessimo conto che gli altri sanno leggere di noi non solo l'entità del debito, ma anche l'entità dei difetti grazie ai quali esso è cresciuto, mentre non cresceva nella stessa misura un Pil capace di sostenerlo. E qui mi riferisco in particolare a noi italiani, ritratti in modo ineccepibile dal Governatore della Banca d'Italia, Ignazio Visco, quando scrive nelle sue conclusioni di quest'anno che le origini finanziarie e internazionali della crisi non devono far dimenticare che in Italia, più che in altri Paesi, gli andamenti ciclici si sovrappongono a gravi debolezze strutturali, ben anteriori alla stessa crisi.

E queste debolezze non sono storia, sono, ahinoi, realtà italiana attualissima e perdurante. Qualche esempio? Si stanzia troppo poco per l'edilizia scolastica e il nuovo ministro, Maria Chiara Carrozza, giustamente lamenta che i nostri bambini vanno in scuole fatiscenti e a volte addirittura poco sicure. Ma nota lei stessa che di quei pochi milioni stanziati dal Cipe tre anni fa, neppure un terzo è stato sinora impiegato: perché? E perché i crediti di imposta, decisi con legge diversi mesi addietro per determinati tipi di investimento, sono ancora lì, sulla carta, in attesa di non so quale misura di attuativa, fermando opere che sarebbero pronte a partire?

Diciamo la verità: le riforme per spendere di meno - in tema di pensioni - le abbiamo sapute fare. Quelle per essere più efficienti e magari, quando è il caso, per spendere di più sono ancora in lista d'attesa. Non voglio desumerne che siamo masochisti, ma certo, come ha scritto giovedì Fabrizio Forquet su "Il Sole", paghiamo le riforme non fatte. Non siamo i soli. Secondo Gerhard Schröder, che ne ha scritto sul Financial Times di venerdì, la stessa cosa si può dire infatti della Francia. La conclusione è e rimane che non ci sarà crescita senza più Europa. Ma se a chiederla saremo noi e i francesi, per convincere gli altri dobbiamo aver fatto tutto ciò che ci spetta. In caso contrario sarebbe anche colpa nostra se restasse chiusa quella porta europea che avrebbe un gran senso aprire per tutti.

(dal Sole 24 Ore - 9 giugno 2013)

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