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 Il PD e il peso del passato - Lo sguardo al Novecento

di Angelo Panebianco

Si sa che sulle sorti del governo Letta peseranno soprattutto i modi e i tempi della ridefinizione degli equilibri interni al Partito democratico, uscito totalmente destabilizzato dalle elezioni e da ciò che ne è seguito. È possibile che alcune delle cause della crisi del Pd non siano del tutto chiare a molti dei suoi stessi militanti. Che cosa ha fin qui frenato quel partito, che cosa gli ha impedito di darsi una identità adeguata, spendibile con più successo nelle nuove condizioni della competizione politica? È stato soprattutto il peso del passato . Il Pd non ha una identità adeguata, utile per vincere le elezioni, perché tende a perpetuare al proprio interno concezioni, di se stesso, del proprio rapporto con gli elettori e con la società italiana, ereditate dal passato e che sono incompatibili con le circostanze presenti.

Il problema principale è che, per un antico retaggio, il Pd concepisce il proprio elettorato assai più come un «blocco» che come un insieme di «flussi». Vediamo cosa ciò significhi. Nato dall'unione fra l'ex Pci e l'ex sinistra democristiana, guidato da persone formatesi in quelle esperienze, il Pd ha ereditato la visione del rapporto fra partiti ed elettori allora dominante. All'epoca, il sistema politico italiano era immobilizzato dalla conventio ad excludendum (la permanente esclusione del Pci, a causa della guerra fredda, dall'area di governo). Inoltre, la mobilità elettorale era molto bassa: pochi elettori si spostavano da un partito all'altro; pochissimi si trasferivano da sinistra a destra e viceversa. In un sistema statico come quello, si conducevano solo guerre di posizione. Il problema dei partiti non era conquistare un bel po' di voti altrui (cosa praticamente impossibile) ma mantenere, conservare, elezione dopo elezione, il proprio «pacchetto», il proprio blocco di voti. Si pensi al Pci. Escluso dalla possibilità di andare al governo, aveva certo interesse ad ottenere qualche voto in più ma l'interesse prevalente, dominante, era conservare i voti già acquisiti. Anche la sinistra democristiana, impegnata nelle lotte con le altre correnti Dc, aveva lo stesso problema: conservare i propri consensi, condizione necessaria per continuare a praticare il gioco del potere dentro l'allora partito di maggioranza relativa.

In un mondo statico, la cosa che conta è preservare la propria forza, non c'è spazio per innovative strategie di conquista: le vittorie e le sconfitte elettorali, in un mondo siffatto, si giocano ai margini, in virtù di piccoli pugni di voti che si spostano, erraticamente, di qua o di là. Sono queste circostanze che portano a pensare al proprio elettorato come a un blocco che, in quanto tale, potrebbe in qualunque momento «spezzarsi»: occorre quindi farne oggetto di manutenzione continua, innaffiarlo, coccolarlo, tenerlo unito a tutti i costi. «La base non capirebbe» è la frase che, in quel mondo, pone termine a ogni discussione nel caso in cui qualcuno, poco consapevole delle vere regole del gioco, si azzardi a proporre idee nuove o innovazioni strategiche.

Si pensi, per contrasto, a un qualunque dirigente di partito (ad esempio, di un partito socialdemocratico) di un altro Paese europeo. Quel dirigente, nell'epoca della propria formazione politica, ha conosciuto un mondo più dinamico. Il suo partito qualche volta ha vinto le elezioni ed è andato al governo, altre volte le ha perse ed è andato all'opposizione. Certamente, anche in quel partito c'era un nucleo di elettori stabili che non potevano essere troppo maltrattati, ma il nostro dirigente socialdemocratico sapeva che per vincere le elezioni bisognava fare guerre di movimento. Sapeva che occorrevano proposte politiche vincenti e che una nuova proposta è vincente se, pur scontentando, come è inevitabile, vecchi elettori, riesce a conquistarne di nuovi (ovviamente, in quantità superiore a quelli che si perdono). Sapeva che si vincono le elezioni solo se il flusso di elettori in entrata (i nuovi elettori che voteranno per il partito) risulterà superiore al flusso di elettori in uscita.

Il problema del Pd è che, guidato da persone che sono state iniziate alla politica nell'ultima fase della Prima Repubblica, ha continuato a pensare, anche nel ventennio successivo, al rapporto con gli elettori nel modo statico di allora (l'elettorato come blocco anziché come insieme di flussi) mentre, nel frattempo, il mondo circostante diventava sempre più fluido e dinamico. Si pensi, da ultimo, alle primarie Bersani/Renzi. È stato anche uno scontro fra la concezione statica e quella dinamica del rapporto con l'elettorato. Matteo Renzi diceva una cosa che sarebbe apparsa ovvia, scontata, perfino banale, in qualunque altro Paese, ossia che per vincere le elezioni bisognava parlare agli elettori di Berlusconi. Ma poiché la concezione prevalente nel partito, ereditata dal passato, era quella descritta, questa tesi suonava come eretica, scandalosa, alle orecchie dei tradizionalisti, e Renzi stesso veniva fatto passare per un cripto-berlusconiano.

Il Pd nacque su una parola d'ordine - «vocazione maggioritaria» - che avrebbe richiesto, se presa davvero sul serio, un radicale rinnovamento di mentalità e di concezioni. Quel rinnovamento non c'è stato. Se non avverrà in tempi rapidi il Pd chiuderà malamente la sua parabola. Dove tutto è in movimento non c'è futuro per chi si attarda in guerre di posizione.

(dal Corriere della Sera - 5 maggio 2013)

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