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25 febbraio la tempesta perfetta

di Stefano Folli

La tempesta perfetta del 25 febbraio sarà ricordata a lungo. Ha prodotto un'Italia ingovernabile: un'Italia in cui i partiti che negli anni hanno seminato vento ora raccolgono tempesta. Niente riforme, niente tagli autentici ai costi della politica, scandali senza tregua, una valanga di misure recessive. Appena ne ha avuto la possibilità, più di un italiano su cinque è corso a votare Beppe Grillo con il piacere sadico di rifilare un calcio dove non batte il sole ai capi e capetti della partitocrazia.

Questa almeno è una lettura del risultato di ieri. Ma non è l'unica. Un'altra conduce all'Europa, la cui immagine non è mai stata così negativa e respingente. L'Italia, Paese fondatore della Comunità e uno fra i più sinceramente favorevoli all'integrazione, oggi sembra voltare le spalle all'Unione. La diffidenza verso la moneta unica e verso i sacrifici imposti dalla Ue (o dalla Germania?) ha prodotto una novità senza precedenti nella nostra storia politica: un Parlamento in cui il sentimento anti-europeista diventa per la prima volta maggioritario. Accade se si sommano i voti raccolti da Grillo alla maggior parte dei consensi rastrellati da Berlusconi grazie a una campagna elettorale di eccezionale vigore ed efficacia. Questa singolare convergenza nel segno del principio che «un'altra Europa è possibile» è, come ovvio, molto significativa. Perché in attesa di trovarla, questa nuova Europa, essa si traduce in ostilità dichiarata verso le istituzioni comunitarie attuali. È la convergenza di diversi ma non dissimili populismi, diffidenti o francamente contrari all'Unione. E non solo: costituisce il paradigma per altre sintonie che peseranno nelle nuove Camere in forme oggi del tutto insondabili. Forse era inevitabile. Il Nobel Paul Krugman ha scritto che le elezioni in Italia erano un referendum sull'austerity, cioè sulle politiche di rigore economico. È così. E il referendum è stato perso dai "rigoristi", capeggiati da Monti, anche perché la loro medicina si è dimostrata troppo amara per un'opinione pubblica che non vedeva l'ora di scrollarsi di dosso un anno e più di «lacrime e sangue», senza una prospettiva chiara di ripresa.

Ora, s'intende, si tratta di capire se un modello alternativo è possibile. In assenza di una maggioranza politica, o meglio con la sola Camera in grado di esprimerne una (grazie al premio del famigerato "Porcellum"): laddove è noto che il nostro è tuttora un sistema bicamerale. Come si pensa di far fronte alla pressione europea e all'inquietudine dei mercati finanziari? Come si pensa di esorcizzare un possibile commissariamento da parte della "troika" Unione-Bce-Fmi?

Non sembra che qualcuno abbia idee chiare al riguardo, Grillo a parte. Ma da oggi, una volta contati i voti e i seggi, si dovrà tornare con i piedi per terra. Partendo dalle cose concrete. E cioè:
eÈ illusorio credere che i Cinque Stelle siano pronti a fare concessioni al centrosinistra, il gruppo più forte in quanto titolare del "premio" di governabilità a Montecitorio. Il loro leader ha già detto che il 25 febbraio costituisce solo una tappa sulla via della maggioranza assoluta. Dal suo punto di vista, difficile dargli torto.
Pd e Pdl solo in apparenza hanno salvato qualcosa del vecchio bipolarismo, poiché sono riusciti a sopravvivere a se stessi. Intanto perché con tutta evidenza il sistema bipolare è in realtà diventato tripolare (con Grillo) e addirittura quasi quadripolare, se si considera il pur modesto raggruppamento che fa riferimento a Monti (costato il suicidio di Casini e Fini). Ma Pd e Pdl hanno un disperato bisogno di rinnovarsi in modo radicale nelle idee, nei programmi e nelle persone. La destra non può reggersi ancora solo sullo spregiudicato attivismo di Berlusconi. La sinistra non può rivolgersi al Paese senza comprenderlo a fondo, come se l'Italia fosse ancora quella di trent'anni fa, magari immaginata alla stregua di una grande Emilia Romagna.

Lo scenario che si apre a breve termine è drammatico. C'è bisogno di un accordo istituzionale per eleggere il capo dello Stato, oltre ai due presidenti di Camera e Senato. Ma prima ancora c'è la necessità improrogabile di individuare una chiave per gestire il Parlamento. Ci sono due possibilità, entrambe di estrema complessità. La prima è anche velleitaria: dar vita a un governo Pd minoritario, fondato sul premio di maggioranza alla Camera e sulla buona volontà al Senato. Si può immaginare come sarebbe giudicato nella comunità internazionale.
La seconda invece è un'intesa di grande coalizione, variamente declinata.
Quest'ultimo punto (la grande coalizione) equivale al tabù assoluto. Pd e Pdl che stringono un patto di governo? Sulla carta, impensabile. Ma sarebbe soprattutto un patto per fare tre o quattro riforme, a cominciare dalla legge elettorale, e poi tornare al voto entro un lasso di tempo ragionevole.
Se fosse solo un accordo per galleggiare, prepariamoci al successivo trionfo definitivo di Grillo. Se fosse invece un accordo davvero transitorio, ben finalizzato, equivarrebbe invece a quel segno di riscossa, da parte di un sistema malato cronico, che oggi appare indispensabile.

Il compito a cui si accinge Giorgio Napolitano nelle ultime settimane del suo mandato è quasi proibitivo. Ma l'attuale presidente della Repubblica è anche l'unico ad avere l'autorità e l'esperienza per affrontarlo. Trovare il suo successore, del resto, non è mai stato così difficile. Per un Parlamento polverizzato rischia di essere un compito impari, estremo fattore di paralisi. Ecco perché l'ipotesi di una rielezione di Napolitano, imposta da circostanze straordinarie, da oggi ha una qualche legittimità, al di là della contrarietà espressa a più riprese dal diretto interessato.

(dal Sole 24 Ore - 26 febbraio 2013)

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