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Il dovere del lavoro

di Alberto Orioli

Una discussione pubblica per 20 anni concentrata sulla polemica feroce sui diritti (al lavoro o del lavoro) ha sviato il confronto sull'unico argomento efficacemente "rifomista" per non dire "rivoluzionario": il dovere del lavoro. Letto con questo titolo, il tema diventa una prospettiva privata, ma anche necessità sociale, collettiva. E conduce al patibolo delle proprie responsabilità intere classi dirigenti di maggioranze di colori diversi: se oggi la disoccupazione in Italia si riassume in quel 12% che preoccupa l'Europa significa che chi doveva congegnare politiche utili a crearlo, il lavoro, ha fallito.

Tardivamente il tema è stato riconosciuto come centrale nella campagna elettorale, ma chiunque di noi ricorderà questi due mesi furenti di invettive e tatticismi come la tenzone sulle tasse, declinata in vari registri, algidamente tecnico a tratti, grossolanamente populista e demagogico in molti più casi, remissivamente realistico in altri. Sono rimasti sul fondale dati drammatici come la perdita di 16 anni nel reddito per abitante (siamo tornati ai livelli del '97) o la caduta di un quarto della produzione, nonché quei circa 9 milioni di lavoratori o (per lo più) ex lavoratori finiti ormai nell'area del disagio sociale (stime Cgil).

Il dovere del lavoro invece impone, per il decisore pubblico, strategie concrete per realizzare occasioni d'impiego. Nel migliore dei casi si traduce in un'azione coordinata e sincronica di politiche industriali, di strategie fiscali e di iniziative strutturali di formazione e di investimento nel capitale umano. Lo hanno capito, per necessità, la Spagna con il suo massiccio programma di alleggerimento fiscale del lavoro flessibile e con la nuova concreta attenzione (sconti fiscali) alle piccole e medie imprese o la Francia, con la fiscalità agevolata per le Pmi e il credito d'imposta per la ricerca (una versione più ristretta sarà operativa anche in Italia ma avrà impatto su numeri più limitati). La Germania da tempo punta su tasse basse e produttività alta, fatto che la rende il Paese più competitivo d'Europa.

Parli di lavoro e scopri il dovere di attenzione all'economia reale, alla manifattura, all'edilizia (che da sola ha perso 550mila posti di lavoro), ai campioni dell'export, a chi ha il coraggio di modificare l'organizzazione interna, le linee di produzione. Insomma, lavoro significa impresa.

Senza quest'ultima l'occupazione semplicemente non esiste. Se poi non esistono neppure politiche attive per l'occupabilità (tassello mancante della riforma Fornero) tutto si aggrava perché svanisce anche la speranza; e neppure il tentativo di puntare sull'apprendistato – previsto nella legge – fa la differenza se le Regioni non danno corso al disegno del Governo centrale.

Eccolo il primo dovere della politica: leggere il lavoro non come grumo di regole, come arena immateriale dove far scontrare opposte visioni del mondo, ma come opportunità di realizzazione della piena cittadinanza e del talento, senza furbate e senza scorciatoie elette a sistema di promozione sociale. Il vero 18 che avrebbe dovuto interessare la politica doveva essere la generazione di chi ha 18 anni oggi e niente altro: si tratta di chi deve cercare impiego o di chi deve trovare una traccia formativa per realizzare i propri sogni. Un ulteriore indizio (anzi già una prova) del fallimento delle politiche elaborate finora sono i 3,6 milioni di giovani che non cercano un impiego e non studiano. È come se una intera città grande due volte Milano ospitasse un popolo di nullafacenti senza speranza e senza scopo.

Il dovere del lavoro, dunque, passa da una visione di lunga gittata di una politica realmente manifatturiera. Non dirigismo vecchio stile, ma la scelta di agevolare i settori trainanti, le tecnologie da trasferire al mondo produttivo, le infrastrutture utili a favorire l'attrazione degli investimenti. Senza dimenticare la riduzione al minimo dell'impatto della burocrazia che altrimenti uccide le idee buone e lo spirito d'impresa. Queste sono altrettante, cruciali politiche del lavoro; ben altro rispetto alla realtà dei 100 miliardi di mancati pagamenti delle amministrazioni ai propri fornitori; al crollo degli investimenti, calati dal 2008 al 2011 del 14% nelle infrastrutture e del 30% nei trasporti; alla riduzione di almeno 39 miliardi di prestiti alle imprese strozzate da un crudit crunch senza eguali dal dopoguerra.

Ora si vedrà se la nuova maggioranza scelta dalle urne darà seguito, solo per citare un esempio, ai programmi sulla diffusione della banda larga e delle infrastrutture per ridurre il digital divide, tema presente in tutti i programmi da sempre, ma da sempre irrealizzato.

Sarà una condizione preliminare fondamentale per creare occasioni d'impiego. Così come la definizione di un piano strategico di riconversione e di bonifica dei siti dell'industria pesante e di base: un progetto pluriennale che fin dalla sua messa a punto sarebbe occasione di impiego su larga scala. Ne trarrebbero giovamento l'occupazione, l'ambiente, il contesto abitativo di almeno una trentina di città italiane. Al contrario dell'atteggiamento dirigista, poi, una massiccia dose di liberalizzazioni avrebbe l'effetto di moltiplicare le occasioni di lavoro (perché ad esempio le polizze auto in Italia costano il doppio che in Europa?). Anche di questo parlano i programmi di quasi tutti i partiti, ma difficilmente i loro dirigenti saprebbero rispondere in modo efficace alla domanda: perché allora non le avete fatte finora?

Il dovere del lavoro interroga anche i comportamenti singoli e "micro". E per lo più rimanda al tema della flessibilità e dell'aumento di produttività, di cui soffre tutta l'Italia. Da anni. La sua crescita è uno dei primi obiettivi di qualunque Governo inizi la sua stagione dalla prossima settimana: si raggiunge solo con più lavoro e più investimenti. È una sollecitazione sia per i lavoratori, sia per gli imprenditori: chissà che non trovino la forza per ricucire un dialogo prezioso per mettere in campo soluzioni intelligenti e innovative per risolvere problemi antichi come è antica la bassa competitività del "calabrone" manifatturiero dell'Europa, però pur sempre secondo Paese industriale della Ue.

Non può non mancare una valutazione (e una correzione) delle dinamiche del costo del lavoro, sotto controllo nella parte di pertinenza di imprese e sindacati (i contratti), ma del tutto fuori standard nel fardello di oneri fiscali e parafiscali di pertinenza del Legislatore che rendono l'Italia ai margini della competitività in Europa. E proprio l'Europa dovrà essere uno dei co-agenti delle nuove politiche di sviluppo: la faccia feroce del rigore da fiscal compact non potrà essere, ancora a lungo, l'unico volto della nostra nuova patria europea.

(dal Sole 24 Ore - 23 febbraio 2013)

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