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Dopo un defatigante incontro fiume, nel pomeriggio dell'8 febbraio e' stato raggiunto l'accordo per il bilancio dell'Unione Europea per il periodo 2014-2020.
All'accordo si e' giunti dopo un braccio di ferro col Parlamento e scontro tra opposti interessi nord-sud, falchi del rigore e colombe della crescita.

Un accordo che, al di la' delle dichiarazioni ufficiali, attesta un'Europa in affanno, piccola piccola, un po' miope, incapace di trovare lo slancio necessario per riprendere un cammino di crescita.

Dalle cifre, infatti, emerge come settori fondamentali per lo sviluppo, quali le infrastrutture e/o la ricerca, non abbiano avuto quelle priorita' che avrebbero invece dovuto trovare, nella consapevolezza che e' su questo versante che l'Europa potra' giocare il proprio ruolo di sviluppo nello scacchiere planetario.

Se non si girera' pagina rispetto all'eccesso di una visione rigorista e meramente contabile, sara' molto improbabile che l'Europa riesca a sottrarsi ad una spirale di stagnazione che gia' sta coinvolgendo anche la stessa Germania, che della politica di rigore e' stata incrollabile paladina.
Naturalmente nessuno pensa a politiche di "spesa allegra", inutili, e non consentite dai mercati globali. IL nodo da sciogliere e' di natura squisitamente politico: riflettere sul modello di sviluppo che vogliamo realizzare, quindi investire sui settori strategici, anche affievolendo certi lacci di natura eccessivamente rigorista.

Scelte queste che, se politicamente condivise a livello europeo, potrebbero tradursi, nella media prospettiva, in occasioni di sviluppo di cui l'intera Unione potra' beneficiare.
Se prevarranno gli egoismi, le reciproche diffidenze e considerazioni dettate da istanze di breve periodo, magari di natura elettoralistica, difficilmente l'Europa riuscira' a sottrarsi dall'avvitamento in cui si e' cacciata.

Come era facilmente immaginabile, l'esito del Consiglio Europeo ha fatto irruzione nella campagna elettorale italiana, ove il risultato ottenuto dal nostro Presidente del Consiglio viene valutato in ragione degli interessi elettoralistici delle forze in campo.
Bersani si e' affrettato a parlare di "vittoria di Pirro", mentre dal centrodestra e' partito un fuoco di fila, sia dai protagonisti di quello schieramento, sia dai suoi giornali, ad esempio l'articolo di oggi 10 febbraio apparso su Libero.
Brutto vizio italiano di usare come clave tutto cio' che si ritiene possa servire per la demolizione dell'avversario, anche quando sono in gioco fondamentali interessi nazionali.
Partendo dalla maratona di Bruxelles, sarebbe molto piu' serio se si compisse una vera riflessione su come l'Italia ha saputo sinora utilizzare i fondi europei, e come fare per utilizzarli al meglio nei prossimi anni nella prospettiva della crescita, pochi o tanti che siano.

Cio' anche se, purtroppo, anche la vicenda del bilancio 2014-2020 lascia la brutta sensazione di un accordo al ribasso: sensazione che purtroppo si ripete troppo spesso nella complessa vicenda della gestione delle politiche dell'Unione Europea.

Paolo Razzuoli

Un'intesa al ribasso

di Guido Gentili

A proposito della crisi dell'euro, il premio Nobel americano Paul Krugman si è chiesto se «è possibile essere spaventati a morte e al tempo stesso annoiati». Lo stesso potrebbe dirsi del bilancio europeo 2014-2020 sul quale venerdi' 8 febbraio è stato raggiunto un accordo che al di là delle cifre (960 miliardi per gli impegni di spesa e 908,4 per i pagamenti effettivi) ci riconsegna l'immagine di un'Europa politicamente piccola e miope. Che chiude, non a caso, una generale intesa al ribasso - l'unica forse possibile per raggiungere l'unanimità a 27 - sulle note della concessione ai Paesi Bassi di altri 45 milioni di rimborsi a titolo di compensazione per il saldo negativo tra ciò che il paese spende per il funzionamento della Ue e ciò che ottiene.

«Fatto, i 27 hanno trovato l'accordo, l'Europa è stata capace di decidere», ha esclamato il portavoce della Cancelliera tedesca Angela Merkel, attorno alla quale ha ruotato il compromesso finale, subito duramente criticato da tutti i maggiori gruppi rappresentati nel Parlamento europeo. Fatto sì, ma fatto che cosa? Parliamo pur sempre di un bilancio dell'Unione rattrappito (siamo intorno a quota 1% del Pil, negli Usa supera il 22%) e che per la prima volta nella storia comunitaria taglia il 3% rispetto al periodo precedente 2007-2013.

Un bilancio piccolo, che si specchia nel volto "rigorista" dell'Europa a geometria variabile (da notare questa volta l'asse tra Berlino e Londra, che com'è noto si tiene la sua sterlina e che prima della scadenza di questo bilancio terrà un referendum sull'uscita dalla Ue) e che alla "crescita" dedica, più che numeri, parole di circostanza. Non solo: a essere penalizzati, mentre resta trasversalmente protetto il settore agricolo, sono i capitoli delle infrastrutture, delle grandi reti di trasporto, telecomunicazioni ed energia, dell'innovazione e della ricerca. Come dire, in barba all'Agenda 2020, non puntiamo sul futuro.

Fa una notevole impressione notare, in un'Europa (tranne pochissime eccezioni, tra cui svetta la Germania) sfiancata dalla recessione e dalla disoccupazione, questa perdurante sottovalutazione del problema della crescita.

Mentre ad esempio gli Stati Uniti, in un quadro di guerra o guerriglia valutaria mondiale, hanno deciso (atto storico-rivoluzionario) che la politica monetaria della Fed resterà espansiva fin quando il tasso di disoccupazione non sarà sceso al 6,5 per cento. Dovrebbe far riflettere di più, in Europa, l'erosione della base industriale. La crisi ha bruciato oltre 3 milioni di posti lavoro e la quota di Pil legata al settore manifatturiero è declinata al 15,6%. La stessa Commissione europea, che vuole invertire questa tendenza, ha focalizzato bene questo punto, ricordando che l'80% dell'innovazione e due terzi dell'export vengono dall'industria e che da ogni posto nel manifatturiero se ne creano fino a due nei servizi.

Su questa strada, alla quale l'Italia è "geneticamente" interessata e che il nostro Paese dovrebbe seguire con coerenza anche al suo interno, il compromesso di ieri riconferma però un'Europa impacciata e conservatrice. Il Presidente del Consiglio Mario Monti, ha messo in evidenza i risultati positivi raggiunti per il nostro Paese, a partire dal miglioramento – rispetto al periodo 2007-2013 – di circa 700 milioni del saldo netto annuale, che rappresenta la differenza tra contributi versati e fondi ricevuti.

Nel complesso, forse l'unico risultato realisticamente possibile in questo contesto politico di Europa "minima", ma certo indicativo del grado di difficoltà che anche un governo che ha fatto del recupero di credibilità internazionale, ed europea in particolare, la sua bandiera, deve affrontare in negoziati così sensibili e dove si scontrano grandi interessi nazionali. Ci si può augurare che l'esito di questo appuntamento non venga catapultato in una campagna elettorale già molto confusa per dimostrare che il premier Monti ha (clamorosamente) vinto o perso, piegando il compromesso del Consiglio europeo alle convenienze del cabotaggio politico-elettorale nostrano. Molto meglio sarebbe avanzare proposte operative su come utilizzare bene, e con serietà, le risorse che l'Europa comunque ci assegna.

(dal Sole 24 Ore - 10 febbraio 2013)

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