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Il tema della crescita e del lavoro e' sicuramente il nodo centrale del momento che sta vivendo il nostro Paese, e non solo esso.
Solo in un contesto di crescita infatti, si potranno affrontare in profondita' i nodi strutturali del deficit di modernita' della societa' italiana, fare le necessarie riforme anche quando queste richiedano interventi chirurgici significativi, quindi sperare in una nuova stagione di consolidamento dei pilastri della coesione sociale, per assicurare un futuro ai nostri giovani.
Se invece la crescita non ci sara', e' purtroppo realistico pensare che l'impoverimento complessivo di sempre piu' ampi strati di cittadini si coniughera' con un processo di aggravamento della disgregazione del tessuto sociale, con seri rischi per la coesione nazionale e per la stessa sopravvivenza della democrazia.

Assunto che delresto vale per ogni Paese che si ispira alla logica del capitalismo democratico. Gia' c'e' chi ha detto che "la crescita e' indispensabile al capitalismo democratico cosi' come la repressione e' necessaria al socialismo reale".

Lo stato di frustrazione degli italiani e' ben fotografato nel recente rapporto Eurispes, che ci presenta una societa' ripiegata sulla dimensione del presente, incapace di pensarsi quindi in una logica di sviluppo per il futuro.

Ma quali possono essere - al di fuori di certe facilonerie della propaganda politica - gli strumenti atti a creare condizioni per la ripresa?
Ovviamente non sono certo in grado di rispondere ad una domanda tanto impegnativa. In verita' mi pare che anche la campagna elettorale in atto non offra agli italiani grandi prospettive.
Per offrire qualche elemento di riflessione, Fucinaidee offre ai suoi lettori un contributo di due noti economisti, assai esposti nell'attuale dibattito politico-economico nazionale: Alberto Alesina e Francesco Giavazzi
Della loro riflessione, mi pare di dover sottolineare l'accento posto sulla pericolosita' delle scorciatoie: modo di pensare e di agire ben radicato nel nostro tempo, come ben emerge anche dalla campagna elettorale in corso. La tentazione di imboccare la strada delle scorciatoie e' delresto fortemente sollecitata da una mentalita' che guarda all'utilita' immediata; al massimo risultato nel piu' breve tempo possibile; al "bottino" del presente, senza saper, o voler, immaginare le conseguenze delle scelte sulla lunga prospettiva.

La grande affermazione dei sondaggi, anche in politica, segnala questa deriva di "presentismo", di ripiegamento sulla quotidianita', che e' quanto di meno utile per affrontare problemi che invece richiedono capacita' di visione e strumenti proiettati nel lungo periodo.

Bisogno di visione e di prospettiva necessarie particolarmente oggi, in una societa' profondamente diversa dal passato, che deve trovare la forza di misurarsi con sfide sempre nuove, che richiedono conseguentemente approcci analitici e strumenti operativi non rinvenibili nei modelli del passato.
La sensazione e' che complessivamente questa consapevolezza ancora non ci sia, e che si insista nell'affrontare contesti radicalmente nuovi con modelli di analisi e strumenti vecchi.
MI auguro che il futuro possa smentirmi!

Paolo Razzuoli

 

Perche' resiste il mito neostatalista - Troppe illusioni sull'innovazione

di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi

Le scorciatoie sono pericolose: non solo in montagna, anche nella politica economica. L'ansia di accorciare i tempi che intercorrono fra il momento in cui una riforma è approvata e quando essa si traduce in maggior crescita può far commettere gravi errori. Un esempio: qualche anno fa, per favorire gli investimenti in energie rinnovabili si decise di sussidiare l'installazione di pannelli solari. Per far presto furono concessi incentivi che oggi, a pannelli installati, si traducono in una rendita di circa 11 miliardi di euro l'anno: li pagano tutte le famiglie nella bolletta elettrica e vanno a poche migliaia di fortunati. Non solo si è creata un'enorme rendita che durerà per almeno un ventennio: si è favorita una tecnologia che a distanza di pochi anni è già vecchia. Oggi l'energia solare si può catturare semplicemente usando una pittura sul tetto, con costi e impatto ambientale molto minori. Ma i nostri pannelli rimarranno lì per vent'anni e nessuno si è chiesto quanto costerà e che effetti ambientali produrrà la loro eliminazione.

Un altro esempio di scorciatoie pericolose è la politica industriale dirigista. Scrive il Pd: «La liberalizzazione dei mercati non è sufficiente. Il contrasto alle rendite, le privatizzazioni, gli abbattimenti fiscali possono favorire innovazione e competitività ma ci lasceranno con un lavoro fatto a metà. È necessario ripensare le linee strategiche e gli strumenti della politica industriale. L'illusione che sia il mercato a far crescere l'economia ci sta portando a sbattere. La risposta spontanea delle imprese (alla globalizzazione) è insufficiente». (Partito democratico, Per una politica industriale sostenibile, giugno 2012). Neppure il governo Monti ha saputo resistere alle sirene dell'intervento pubblico. Nel breve arco di un anno ha usato il risparmio postale, che è una grande risorsa, per attuare, attraverso la Cassa depositi e prestiti, una politica industriale discutibile. La Cassa oggi possiede - oltre a un Fondo che dovrebbe selezionare e investire in imprese «strategiche» - le reti elettriche e del gas, sta acquistando la rete a banda larga, controlla Fintecna e Sace, ha partecipazioni importanti in Enel, Eni, Poste, Assicurazioni Generali. Un tempo con il risparmio postale la Cassa concedeva mutui ai Comuni per migliorare gli edifici scolastici.

Nel Dopoguerra, fra il 1945 e la metà degli anni Settanta, la politica industriale fu un elemento essenziale della nostra rinascita economica. L'Istituto per la ricostruzione industriale (Iri), l'attore centrale di quel periodo, fu preso ad esempio da molti Paesi in via di sviluppo, in particolare dal Giappone. Negli anni Sessanta l'Iri, come il Miti (Ministero del Commercio internazionale e dell'Industria) giapponese, erano parte di un sistema finanziario incentrato sulle banche, su relazioni stabili fra banchieri e imprenditori (si pensi al rapporto fra Enrico Cuccia e Giovanni Agnelli), scarso avvicendamento dei manager (Vittorio Valletta guidò la Fiat per un ventennio) e un ampio intervento dello Stato nell'economia.

Ma erano tempi molto diversi. Italia e Giappone erano agli inizi della loro esperienza industriale. Non era necessario inventare cose nuove, bastava importare tecnologia dagli Stati Uniti e riprodurla, possibilmente facendo meglio di chi l'aveva inventata. Fu così in Italia per l'acciaio: l'impianto siderurgico di Taranto fu copiato dalle acciaierie texane di Houston, ma quando fu terminato suscitò l'ammirazione degli americani. Lo stesso accadde alla Toyota e all'elettronica giapponese.

Oggi crescere per imitazione non è più possibile perché siamo troppo vicini alla frontiera tecnologica. Oggi si cresce innovando, non imitando. La crescita oggi richiede innovazione e per innovare la politica industriale che tanto successo ebbe nel Dopoguerra non funziona.

Ovvero non può funzionare l'illusione che lo Stato e la politica siano in grado di individuare i settori e le imprese che avranno successo. L'innovazione è per definizione imprevedibile. Vi immaginate quattro funzionari dell'Iri in un garage che si inventano Apple? O un giovane impiegato dell'Iri che inventa Facebook? Affidereste allo Stato la scelta del tipo di robotica su cui puntare? Quello di cui abbiamo bisogno sono università eccellenti, la capacità di trattenere e attrarre i cervelli migliori, e una dose massiccia di «distruzione creativa», cioè un ambiente dove le vecchie imprese chiudono rapidamente e possono essere sostituite da aziende nuove, perché è in queste che più facilmente nascono le idee e si creano nuovi prodotti. Per questo è necessaria grande flessibilità. Innanzitutto un mercato finanziario e un mercato flessibile del controllo proprietario delle aziende, in cui non si incrostino gruppi di potere inamovibili. Il contrario di ciò che funzionava 50 anni fa. Oggi le imprese italiane dipendono troppo dal credito bancario: non era un problema 50 anni fa, lo è oggi. Molte imprese familiari beneficerebbero dal quotarsi in Borsa affidando il controllo a manager esterni. E serve un welfare che consenta la riallocazione del lavoro, proteggendo i lavoratori, non i posti di lavoro. Il contrario della cassa integrazione.

L'Italia degli anni Cinquanta era un Paese «emergente» lontano dalla frontiera tecnologica. Bastavano grandi imprese pubbliche che copiassero quello che altri facevano. Oggi l'Italia è un Paese alla frontiera della tecnologia. In questo mondo per crescere servono creatività e flessibilità, non una politica industriale che affida le scelte allo Stato.

(dal Corriere della Sera - 3 febbraio 2013)

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