logo Fucinaidee

 

I partiti e la societa' civile. Gli equivoci dell'antipolitica

di Ernesto Galli Della Loggia

Tutto cominciò con «Mani Pulite». Poi Berlusconi terminò l'opera. Fu nel 1992-93, infatti, che in Italia, sull'onda della protesta contro la corruzione dei partiti, iniziò a diffondersi fino a dilagare un sentimento di disprezzo per la classe politica in quanto tale, un sentimento di avversione profonda per la politica come professione, direi per la dimensione stessa della politica e per la sua naturale (e aggiungo sacrosanta) pretesa di rappresentare la guida di una società. Giunto il momento di tirare le fila alle elezioni del '94, l'uomo di Arcore cavalcò l'onda da par suo. Mise insieme tutti gli ingredienti appena detti; li miscelò con il confuso antistatalismo ideologico prodotto dalla globalizzazione; e si presentò come il profeta di quella società civile che nel biennio precedente era stata osannata da tutti (in Italia qualunque idiozia, purché di moda, può contare quasi sempre su adesioni unanimi: il federalismo è un altro caso), osannata come la matrice per antonomasia del «nuovo» e dell'«onestà».

Da allora tutto il fronte antiberlusconiano non si stanca di denunciare l'«antipolitica» che rappresenterebbe l'anima del «populismo» del Cavaliere, di denunciarne ad ogni occasione i pericoli. Ma ciò nonostante proprio da allora, e forse non per caso, esso sembra spinto irresistibilmente a imitarlo. Da allora anche gli avversari di Berlusconi sono diventati sempre più inclini a vellicare i luoghi comuni dell'antipolitica. Come si vede bene oggi, tanto al centro che a sinistra, con l'inizio di questa campagna elettorale. Dietro un omaggio di facciata (per carità, non sia mai detto «scendere», bensì «salire», in politica), in realtà l'intera piattaforma centrista di Monti si fa un vanto esplicito, ripetuto, insistito, della propria (reale?) estraneità alla politica: estraneità che neppure si sforza di nascondere la sua effettiva ostilità alla politica. Ne è espressione eloquente il bando comminato a chiunque abbia seduto alla Camera o al Senato per più di un certo numero di anni.

Monti e i suoi collaboratori hanno aderito all'idea - questa sì tipica di ogni populismo - che la politica non ha bisogno di persone esperte dei suoi meccanismi, persone pratiche del funzionamento delle amministrazioni, conoscitrici dei regolamenti delle assemblee parlamentari. No. Il nostro presidente del Consiglio - parlano per lui le procedure con cui ha voluto formare le liste dei candidati - sembra aver fatto proprio, invece, il pregiudizio volgare secondo cui il professionismo politico sarebbe il peggiore dei mali. Mentre un industriale, un economista, un professore universitario - loro sì, espressione della celebrata «società civile» - sarebbero invece per ciò stesso non solo onesti e disinteressati, e capaci di scelte giuste nonché di farle attuare presto e bene, ma anche in grado di soddisfare quella condizione non proprio tanto secondaria che è il consenso.

Pure per questa via, insomma, affiora nell'insieme del montismo, se così posso chiamarlo, quell'opzione irresistibilmente tecnocratica che, se ne sia consapevoli o no, rappresenta essa pure un esito classico dell'«antipolitica». La quale antipolitica poi, a ben vedere, alla fine non è altro che politica con altri mezzi. Lo dimostra quanto sta accadendo sempre in queste settimane stavolta a sinistra, nel Pd. Qui pure tutta l'operazione della designazione «dal basso» delle candidature elettorali è stata condotta - in maniera perlopiù non detta, ma comunque chiarissima - facendo leva sull'ostilità verso il professionismo politico, verso chi occupava da troppo tempo la fatidica poltrona. Come appare ormai evidente, si è trattato di una versione per così dire dolce della renziana «rottamazione», guidata però dall'abile regia della segreteria Bersani. La quale, facendosi forte del mito della «società civile» e del «rinnovamento» - reso in questo caso più perentorio dal comandamento del «largo ai giovani e alle donne» - se ne è servito per fare fuori buona parte della vecchia rappresentanza, a lei estranea, e sostituirla con «giovani turchi» e dirigenti interni vicini al nuovo corso. E quindi per rafforzarsi.

Ma naturalmente poche cose sono così sicure come il fatto che, al centro come a sinistra, coloro che risulteranno eletti con il crisma salvifico della società civile, anche loro, alla fine, si adegueranno disciplinatamente ai vincoli e agli obblighi della politica. Anche loro obbediranno a quella regola suprema della politica che chi ha più forza, più potere, comanda: e poiché la gran parte dei cosiddetti esponenti della società civile di forza propria ne hanno poca o nulla, proprio essi - c'è da scommetterci - risulteranno in definitiva i più obbedienti.

(dal Corriere della Sera - 14 gennaio 2013)

Torna all'indice dei documenti
Torna alla prima pagina