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La necessaria trasparenza - Le carte (troppo coperte) del PD

di Angelo Panebianco

I sondaggi danno il Pd come il probabile vincitore delle elezioni. Però la campagna elettorale è lunga e ciò che accadde nel 2006 quando Romano Prodi, il grande favorito, vinse alla fine solo per un soffio, consiglia prudenza. Al momento, comunque, è plausibile ritenere che possa essere Pier Luigi Bersani il prossimo presidente del Consiglio. Bersani sta annunciando, da giorni, ogni giorno, le candidature, nel suo partito, di personalità di prestigio. Sarebbe utile se cominciasse anche a dare qualche informazione agli elettori sulla composizione del suo possibile governo. È vero che in campagna elettorale i partiti cercano di non scoprire troppo le carte. Ma è per lo meno lecito chiedere al favorito dai sondaggi di fare un po' di chiarezza su questo decisivo aspetto.

Facciamo un esempio. Molti danno per probabile che Massimo D'Alema diventi il nuovo ministro degli Esteri. Poniamo che sia vero. D'Alema ha già ricoperto quell'incarico ed è un politico preparato e autorevole. Nulla da eccepire su questo. Ma c'è un ma. In un ambito che è strategico per la politica estera italiana, il Medio Oriente, D'Alema non ha mai fatto mistero di certe sue radicate convinzioni. Soprattutto, non ha mai fatto mistero della sua (chiamiamola eufemisticamente così) scarsa simpatia per Israele, e di una adesione alla «causa» palestinese così spinta da renderlo bene accetto anche ai gruppi più estremisti, dai palestinesi di Hamas agli sciiti di Hezbollah. Dovremo aspettarci da un eventuale governo Bersani una politica mediorientale non equidistante nel conflitto, ossia attenta agli interessi di tutti, ma nettamente sbilanciata a favore di una delle parti in causa?

Politica estera a parte, molto si giocherà sul piano dell'economia e delle riforme di struttura. È facile scommettere che Bersani, da politico accorto, sceglierà un ministro dell'Economia ben accetto all'Europa e ai mercati, un tecnico di prestigio con il giusto pedigree e i giusti contatti internazionali. Se non che, la politica che più inciderà sul nostro futuro la faranno soprattutto altri ministeri, quelli che si occupano di lavoro e welfare, di istruzione, di pubblica amministrazione, di sanità. Sarebbe utile avere qualche anticipazione sui nomi di coloro che andranno ad occupare quelle poltrone. Soprattutto per capire quanto peseranno sulla politica del governo Bersani gli interessi del principale «azionista» del Pd: la Cgil. In tutti quei campi, quella del governo Bersani sarà una politica in cui non si muoverà foglia che la Cgil non voglia?

Non basta qualche virtuosismo verbale per nascondere la più vistosa contraddizione con cui il Pd è entrato in questa campagna elettorale. Il gioco delle parti, e la divisione dei ruoli, fra Bersani l'europeista e Fassina l'operaista, che ha contraddistinto tutto il periodo del governo Monti, non potrà reggere ancora a lungo. Il caso del welfare è esemplare. Sappiamo tutti che è stata la politica del ministro Fornero, la riforma delle pensioni soprattutto (e anche, in parte, quella del lavoro), ciò che ha più convinto l'Europa della bontà delle ricette Monti. Ma si dà anche il caso che la politica della Fornero sia stata avversatissima dalla Cgil e dai politici (quasi tutti membri dell'entourage di Bersani) che alla Cgil fanno riferimento.

Quando non ci sarà più Giorgio Napolitano a trattenere per la giacca il Pd, che fine faranno le riforme Fornero? Basterà il reclutamento di un prestigioso giuslavorista come Carlo Dell'Aringa a compensare e a neutralizzare il conservatorismo in materia di welfare e lavoro che è proprio della Cgil e dei suoi (tanti) amici del Pd? Non è forse proprio perché non ha più creduto nella possibilità di neutralizzare quel conservatorismo, ad esempio, che Pietro Ichino se ne è andato?

Il ragionamento vale anche per altri ministeri ove pesano gli interessi Cgil. Per esempio, nel campo della scuola, ove la Cgil è tradizionalmente la punta di diamante del fronte conservatore contrario a qualunque forma di riqualificazione in senso meritocratico del corpo insegnante. Né risulta che il Pd abbia mai formulato, in materia scolastica, proposte in conflitto con i desiderata della Cgil. L'unica eccezione fu, molto tempo fa, Luigi Berlinguer, quando stava alla Pubblica Istruzione, e mal gliene incolse. E vale per la pubblica amministrazione, un altro ambito nel quale qualunque eventuale proposito modernizzatore si scontrerebbe subito con i veti sindacali.

Il problema è reso ancor più acuto dall'(auto)ridimensionamento politico di Matteo Renzi. Dopo aver fatto sfracelli, conquistando quasi il 40 per cento dei consensi nelle primarie contro Bersani, Renzi ha scelto, per troppo tempo, di rimanere in silenzio. La notizia dell'ultima ora è che ha appena fumato il calumet della pace con Bersani. Collaborerà alla campagna elettorale. Ma forse i suoi sostenitori si aspettavano altro, si aspettavano che fosse il contraltare politico, entro il Pd, della linea Cgil/Vendola. Il suo ridimensionamento sembra privare quella linea di un solido contraltare interno.

Poniamo che, dopo le elezioni, mancando la maggioranza al Senato, Bersani sia costretto a negoziare con Monti e i suoi la composizione del governo. A questi ultimi converrebbe esigere proprio quei ministeri, a cominciare dal welfare, nei quali, per chi vuole innovare, lo scontro con la Cgil è garantito. Alla fin fine, ciò converrebbe anche a Bersani. Difficilmente potrebbe durare a lungo un governo appiattito sulle posizioni sindacali. Né l'eventuale presenza di un tecnico di prestigio all'Economia riuscirebbe a nascondere per molto tempo, di fronte agli altri governi europei, l'incapacità di innovazione di coloro che staranno nelle retrovie.

(dal Corriere della Sera - 4 gennaio 2013)

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