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Quando le società possono esplodere - Spese dello Stato e disoccupazione

di Giovanni Sartori

E' bene che l'opinione pubblica si renda conto della mole di spese che lo Stato deve oggi affrontare.

Se manca il lavoro, chi deve rimediare? Sembra ovvio: lo Stato. Ma lo Stato è già, di per sé, un colossale datore di lavoro. È anche, purtroppo, un cattivo datore di lavoro che spende male, che spende troppo e che, almeno da noi, è intriso di corruzione mafiosa e privata. Anche così è bene che l'opinione pubblica si renda conto della mole di spese che lo Stato deve oggi affrontare.

In primo luogo deve pagare la burocrazia che lavora per lo Stato: una vera e propria armata, più le venti armatine regionali. In secondo luogo deve garantire la sicurezza, e quindi pagare le forze armate, la polizia, i carabinieri. In terzo luogo è lo Stato che deve provvedere alla viabilità, e quantomeno alle strade: costruirle e mantenerle. Poi deve provvedere alla istruzione pubblica, scuole e Università. Infine la sanità. Negli Stati Uniti uno dei maggiori problemi pendenti è proprio se la salute debba essere a carico di assicurazioni private. Ma in Europa la salute è quasi sempre una protezione che deve essere fornita dallo Stato.

Come si vede, lo Stato di costi e di incombenze ne ha. E quando ha pagato gli interessi sui suoi sprovveduti debiti si ritrova senza un copeco in cassa. E finora non ho ricordato un ultimo dovere: la manutenzione del territorio e di tutte le cose che richiedono manutenzione. Fino all'avvento della società industriale la manutenzione richiesta era soprattutto agricola (che includeva, però, i terrazzamenti che consolidano un territorio friabile con tante colline); ma questa manutenzione è da gran tempo dimenticata. Quando arrivano le alluvioni si scopre che gli alvei dei torrenti non vengono mai ripuliti e che sono strozzati da cementificazioni tanto incoscienti quanto sospette.

Come si vede, lo Stato ha già di per sé moltissimo da fare e da spendere. Ed è bene che si fermi nell'ambito che ho appena ricordato e che lasci libera la massa di persone che sono o che dovrebbero essere addette alla produzione di beni, nonché dei servizi non serviti dallo Stato. Perché questa è l'economia che sorregge tutto il resto (ivi incluse le spese dello Stato). E se questa economia «di base» entra in crisi, in depressione, allora sono guai.

La dottrina distingue tra «privazione assoluta» e «privazione relativa» (il termine inglese è deprivation ). Nella prima, diffusa specialmente in Africa, i morti di fame si lasciano morire di fame: non reagiscono, restano seduti e muoiono. Nel caso della privazione relativa, invece, chi è minacciato dalla fame non è rassegnato, non resta passivo: si rende conto di quel che sta succedendo e reagisce. Pertanto tutte le insurrezioni, tutte le rivolte, presuppongono uno stato di privazione relativa nel quale chi teme una ricaduta nella miseria si ribella. Che poi le ribellioni risolvano i problemi non è detto. Ma intanto avvengono, e non possono essere ignorate. Il caso peggiore, in Eurolandia, è quello della Grecia. Ma anche la situazione italiana è grave, se è vero (le statistiche sulla disoccupazione non sono mai troppo sicure) che circa il 35 per cento dei nostri giovani in cerca di lavoro non lo trova. Perché questi giovani sono proprio quelli che dovrebbero alimentare l'economia produttiva, l'economia che sorregge tutto il resto, insomma, lo zoccolo duro della produzione di ricchezza. In questa situazione una società libera rischia di esplodere e di sfasciarsi. Vedi la Grecia.

(dal Corriere della Sera - 20 novembre 2012)

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