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Gli esiti del sondaggio di Renato Mannheimer che proponiamo ai lettori di Fucinaidee, esplicitano una situazione ben nota a chiunque abbia un po' di "orecchio" attento al pensiero della gente.
Uno scenario che e' stato delresto oggetto di un'analisi di Antonio Rossetti, in due scritti recentemente pubblicati da questo sito.

Sono ormai anni che la sfiducia degli italiani e' venuta meno, in un crescendo che sembra inarrestabile, certo primariamente verso i partiti, ma, in misura non certo marginale, anche verso le istituzioni.
Non poteva delresto essere che cosi', visto che sono persone espresse dai partiti ad amministrarle, e che su di esse proiettano tutta la loro inadeguatezza, le loro contraddizioni, in buona sostanza i virus degenerativi che li hanno ammorbati.
Basta pensare al diffusissimo clientelismo dal quale non si salva nessuno, ai privilegi assolutamente inaccettabili che la casta si e' attribuita, alle gravi inefficienze di gestione che nessuno punisce (vedi caso dell'Asl di Massa), all'ipertrofizzazione della struttura che hanno fatto delle regioni carrozzoni costosissimi, deltutto fuori misura rispetto a quegli enti di programmazione che avevano pensato i Padri Costituenti.
Venendo fugacemente all'attualissimo problema delle province, prescindendo dal dibattito sulla loro definizione territoriale, mi pare di dover dire che l'ipotesi governativa finalizzata alla costituzione di aree vaste non puo' prescindere da un sostanziale ripensamento anche del ruolo delle regioni. Un motivo in piu' per valutare quantomeno azzardata la volonta' di addivenire ad un riordino delle province partendo da aspetti meramente economici, peraltro veri ed importanti, al di fuori di un ragionamento complessivo sul riordino delle circoscrizioni di governo di questo Paese, che io ritengo di estrema attualita' e urgenza.

Infine due parole sulla questione dell'antipolitica: e' di tutta evidenza che e' stata la politica a generare l'antipolitica. E' ridicolo che siano i padri dell'antipolitica a gridare allo scandalo e a stracciarsi le vesti di fronte alle reazioni, magari a volte irrrazionali, degli elettori.
Il Paese versa sicuramente in una condizione molto grave e complessa: il rinnovamento profondo della classe politica potra' forse non essere sufficiente a risanarlo in tempi brevi ma sicuramente costituisce la condizione obbligatoria per cercare di risalire la china.

Paolo Razzuoli

Due italiani su tre non credono più alle Regioni

di Renato Mannheimer

Dopo i partiti, le istituzioni. In crisi perfino il rapporto con i Comuni

Le Regioni sono nell'occhio del ciclone. Il susseguirsi di scandali e di sprechi incomprensibili in questa o in quella Regione ha profondamente turbato i cittadini. E comportato un sensibile incremento del trend di diminuzione di fiducia nelle istituzioni. Oggi, la quota di italiani che riesce a giudicare positivamente i partiti politici è ridotta al 4 per cento: meno di quanti, in qualche modo, operano attivamente all'interno dei partiti stessi. Molti degli stessi militanti disistimano le forze politiche in cui operano.

Ma, come si è detto, la disaffezione ha finito con il toccare anche le istituzioni. La maggioranza (53 per cento) degli elettori manifesta sfiducia persino nei confronti del Comune in cui vive, l'istituzione locale un tempo più amata. Ancora minore è il consenso espresso per le Province (38 per cento). E, com'è comprensibile alla luce degli ultimi avvenimenti, risulta ulteriormente inferiore quello dichiarato per le Regioni: due italiani su tre (64 per cento) affermano di non apprezzare più queste ultime. Il distacco è ancora più accentuato tra i giovanissimi (71 per cento di sfiducia) e tra i residenti nelle Regioni meridionali (70 per cento di sfiducia), a conferma del tradizionale minore attaccamento alle istituzioni rilevabile in queste aree.

Nell'insieme, dunque, gli italiani non si fidano più delle istituzioni locali e delle Regioni in particolare: un sentimento che mina progressivamente il consenso sociale verso gli organismi rappresentativi.

Ciò porta alcuni a proporre di abolire le Regioni oltre alle Province. Sull'eliminazione di queste ultime, si sa, vi è un largo consenso e auspicio tra gli elettori. Quasi due italiani su tre (63 per cento) ne auspicano l'eliminazione, anche se una quota consistente (38 per cento) propone di limitare questo provvedimento solo ai contesti di minore dimensione (ma, come è noto, il consenso per l'abolizione delle Province si attenua fortemente nel momento in cui viene presa in considerazione la Provincia in cui si risiede).

Tuttavia, dopo l'estendersi degli scandali che hanno riguardato le Regioni, molti (44 per cento), come si è detto, propongono di abolire anche queste ultime. Si tratta, beninteso, di un'idea che è difficile prendere in considerazione: anche se per la maggior parte degli osservatori i poteri attribuiti oggi alle Regioni (anche per effetto della riforma del titolo V) sono eccessivi e vanno forse ridotti, una loro completa abolizione appare quantomeno problematica. Resta il fatto che, sull'onda degli avvenimenti delle ultime settimane, tanti vogliano liberarsene buttando anche ciò che c'è di buono.

Questo atteggiamento è relativamente più frequente tra chi è più lontano dalla politica: se ne occupa poco o per nulla ed è tentato dall'astensione. Tra chi esprime questa posizione, la maggior parte (28 per cento) ritiene però che il provvedimento dovrebbe riguardare in particolare le Regioni più piccole, considerando il fatto che è difficile pensare di applicare la stessa normativa ad entità territoriali di dimensione così diversa tra loro.

Gli avvenimenti delle ultime settimane non hanno però prodotto solo disaffezione e sfiducia crescente verso le istituzioni locali: non pochi cittadini si sono risolti, alla luce di quanto è successo, a cambiare la loro opzione di voto o a prendere in considerazione l'astensione. In particolare, ben il 14 per cento afferma di avere mutato, a seguito degli scandali, la propria scelta elettorale. E una percentuale altrettanto ampia - ancora una volta, più accentuata tra quanti manifestano un minore interesse per la politica - dichiara di voler passare alla diserzione dalle urne.

Se si tiene conto che un altro 27 per cento di cittadini afferma di «avere comunque deciso di non andare a votare già da prima», si giunge complessivamente a più del 40 per cento di italiani che prende seriamente in considerazione la possibilità di non presentarsi alle urne alle prossime elezioni. È ragionevole pensare che, alla fine, buona parte di costoro si recherà comunque a votare. Ma la diffusione dell'intenzione dichiarata ad astenersi costituisce di per sé un altro segnale dell'estendersi della disaffezione verso la politica e le stesse istituzioni: un fenomeno di cui non si può non tenere conto, pena il dissolversi dei fondamenti su cui si regge il consenso sociale.

(dal Corriere della Sera - 7 ottobre 2012)

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