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Etica

 

(Filosofia morale e secolarizzazione)

 

Di Andrea Talia

 

 

Parte I

 

Premessa

 

     Heri dicebamus. Abbiamo gia’ trattato della “questione morale”, limitatamente ai rapporti tra questa categoria e quella della politica. (1)

Ritorniamo, ora, sul tema. Con chiavi di lettura interdisciplinare. Al crocevia della filosofia morale, di quella pratica e del diritto.

A cio’ motivati sia da un ulteriore impoverimento culturale e morale della politica che sembra aver toccato il fondo nella considerazione generalizzata dei cittadini, che dalla perdurante incapacita’ dei partiti di autoriformarsi con massicce distrazioni degli specifici fondi sibi et suis.

A cio’ aggiungasi, a completamento di un quadro desolato e desolante, un sistema diffuso e poroso di corruzione, concussione, evasione fiscale.

Il senso cinico continua ad avvolgere e logorare il senso civico. Non c’e’ scandalo ormai che riesca a scandalizzare. Serpeggia il dubbio (atroce) che vivere rettamente sia inutile, se non controproducente. Il dovere per il dovere – che connota il carattere e il modus vivendi – viene solitamente relegato, con una punta di fastidio, tra le anticaglie del passato. Anche se una larga maggioranza degli italiani amerebbe vivere in una societa’ piu’ ordinata e piu’ onesta.

Tutti ci lamentiamo dell’assenza dei cosiddetti valori condivisi: ma pochi lavorano davvero per costruirli.

L’attuale degrado non e’ figlio del destino cinico e baro. E’ l’eredita’ – come vedremo – di antiche distorsioni. Il vero delitto storico compiuto dalle aristocrazie italiane e’ stato sempre quello di occultare la realta’, premiando la superficialita’ e la semplificazione in luogo della serieta’ e della responsabilita’. Quale puo’ essere, per una nazione civile, l’attentato piu’ grande alla formazione e all’educazione del popolo se non l’”insegnamento” pervicace a disattendere l’etica della responsabilita’?

 

Etica: un’introduzione

 

     L’etica e’ una delle componenti principali della filosofia e della scienza speculativa. Il suo territorio e’ costituito dalla ricerca universale dell’operare.

Piu’ specificatamente, l’etica e’ lo “studio filosofico della morale intorno ai fini buoni o cattivi da perseguire nella vita e alle scelte giuste o sbagliate che si possono compiere. Si tratta percio’ di una disciplina soprattutto pratica”. (2)

Essa ha quindi origine da domande (apparentemente) semplici. Ad esempio: che cosa rende giuste le azioni oneste e ingiuste quelle disoneste?; Perche’ la morte e’ cosi’ drammatica?; la felicita’ e’ qualcosa di piu’ che piacere e liberta’ dal dolore?

Domande che – a cascata – ne evocano altre e le cui risposte abbracciano l’orizzonte cognitivo dell’umanita’ e, al contempo, il sentiero speculativo di ogni uomo. Alla ricerca inesausta della Verita’ o meglio di cio’ che si ritiene essere la verita’ (pro veritate habetur), sulla base della pratica matura e riflessiva dell’umilta’.

 Altre definizioni dell’etica possono essere fornite sia come “la disciplina del dovuto da ciascuno a tutti”, (3) che come oggettivazione di particolari teorie. Cosi’ i filosofi discettano di etica di Hume, di etica di Kant, di etica utilitaristica.

Chiarito poi che indichiamo come metaetica la branca della filosofia morale che si occupa della natura dei concetti e dei termini etici, quali i rapporti tra etica e morale?

  Nell’accezione comune, e in senso stretto, i due termini, avendo la parola “costume” (4) come matrice comune, appaiono (e sono usati) come sinonimi.

Costume poi sta ad indicare sia:

-         quella permanente tendenza della volonta’, originante dall’abitudine liberamente e coscientemente acquisita, consistente in una ripetizione del medesimo atto, che

-           quel comportamento di origine collettiva che si presenta, in maniera coattiva, ai membri della societa’. (5)

 

La cittadella morale

 

     Il termine “etica” e’ diventato una specie di passepartout, da esibire,  piu’ che da praticare.  Restringiamone quindi gli ambiti, limitandoci ad affermare, ulteriormente, che l’etica visualizza un sistema di valori e di norme costituenti l’assetto sociale di una data collettivita’. (6)

L’uomo morale - per Croce - e’ il “Vir bonus agendi peritus”. La sua educazione morale abbraccia contemporaneamente l’educazione politica e l’educazione pratica, nei suoi vari rivoli: prudenza, accorgimento, pazienza, ardimento. (7) Purezza degli ideali, etica civile, amore per la Patria, forte saldatura tra pensiero e azione, sono queste le connotazioni culturali di un intellettuale universale, come Croce.

La morale puo’ essere presentata sia sotto forma oggettiva: comandamenti, prescrizioni, regole di condotta che soggettiva. Quindi come un precetto che ci riguarda.

Ha un solo comandamento bidirezionale. Agisci verso tutti gli altri nel modo in cui essi stessi vorrebbero essere trattati. Trattali come tu vorresti essere trattato, se fossi al loro posto.

In definitiva, la morale e’ una scelta. La scelta dell’altruismo al posto dell’egoismo; la scelta degli altri al posto di me stesso. A riconoscere l’altro come un viandante con gli stessi nostri bisogni.

E’ questo il nobile approdo della speculazione sul punto, innervatosi nel corso dei secoli. Dalla Bibbia a San Paolo, a Lutero, all’utilitarismo, a Kant. Ci ritorneremo.

  La morale ci rende “responsabili” di quanto e’ in nostro potere di fare per il bene degli altri. Il nostro prossimo, gli altri, il chiunque.

 Il segreto del ragionamento morale riposa “sulla capacita’ di guardare con occhi oggettivi, a quanto vi e’ di piu’ soggettivo nel mondo: noi stessi e il nostro corteo dei nostri desideri, delle nostre paure, delle nostre speranze, delle nostre ipocrisie e dei nostri capricci”. (8)

Abbiamo quindi una sorta di sensore interno. Grazie ad esso, noi sappiamo immediatamente e intuitivamente che cosa e’ morale e che cosa e’ immorale; che cosa e’ da seguire e che cosa e’ da ripudiare; che cosa e’ bene, e che cosa e’ male.

  Una educazione alla morale e’ un’educaizone all’ascolto degli altri. (9) E, in termini di filosofia politica, rappresenta una concezione di persona in grado di ottenere il rispetto e la sensibilita’ anche da chi ha visioni completamente divergenti.

 

Una riflessione sociologica

 

     Il gomitolo della riflessione sociologica sulla morale si dipana per fasi successive.

La prima e’ dominata dal pensiero dei classici del marxismo (Marx, Engels). La morale e’ stata concepita come ideologia, ovvero come elemento sovrastrutturale.

La morale dominante e’ sempre la morale della classe dominante. Mentre la morale “borghese” sigilla, sotto copertura ideologica, i valori tradizionali (Dio, Patria, Famiglia), l’universo marxista affidava a scopi o fini concreti la possibilita’ per l’uomo di riappropriarsi del proprio destino.

I comunisti non predicavano alcuna morale. Da popolo a popolo, da epoca a epoca le idee di bene e di male sono cambiate in tale misura da essere arrivate, spesso, a contraddirsi. Ergo: la morale, marxianamente intesa, e’ mera ideologia.

“Cio’ che conta”, si legge in un passo della Sacra famiglia, e’ “che cosa… quel proletario, o anche tutto il proletariato, sara’ costretto storicamente a fare in conformita’ a questo suo essere”. Cosi’, per Marx, fini, ideali e valori non sono scelti, pur entro vincoli, ma dati, come cause.

   La seconda fase e’ contrassegnata dal relativismo culturale, dalla compresenza cioe’ di una varieta’ e molteplicita’ delle idee morali. (10)

Ogni valore, ogni norma, ogni manifestazione di un bisogno debbono essere contestualizzate e relativizzate. Cioe’ giudicate esclusivamente nella societa’ e nella cultura, entro le quali, spazialmente e temporalmente, sono collocate.

  La terza fase, infine, pone al centro dell’analisi, la funzione integratrice universale delle idee morali. (11) La Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (1948), puo’, ad esempio, essere considerata un Documento emblematico in ordine alla sua generalizzata validita’. Costituisce infatti un manifesto storico che sintetizza virtu’ cristiane, virtu’ laiche, virtu’ politiche.

Un denominatore comune dovrebbe legare almento due delle tre teorizzazioni: un ideale della vita umana. Questo ideale, che rende significative le nostre azioni, puo’ essere declinato come codici morali, come valori.

 

I valori: un primo approccio

 

     I valori rappresentano il criterio simbolico di valutazione dell’azione sociale. Al contempo, la dimensione essenziale delle cose reali. Cioe’ dei nostri comportamenti. Vogliamo sapere, cioe’, non solo se dobbiamo fare la cosa onesta in circostanze in cui la disonesta’ sarebbe piu’ vantaggiosa, ma anche se qualcosa abbia valore in se’.

I valori rappresentano poi quei bisogni esistenziali, di trascendenza e di correlazione, che costituiscono la connotazione specifica della condizione umana.

I valori inglobano quindi una gamma di qualita’, (12) caratterizzate da due tratti fondamentali: la polarita’ (positiva o negativa) e il grado comparativo (inferiore – superiore). 

Il pluralismo e’ cio’ che si avvicina all’idea di oggettivita’ dei valori umani. Molti e differenti sono i valori ultimi, i fini cui gli esseri umani possono aspirare, restando pienamente umani. E mantenendo la capacita’ di riconoscersi e mutuamente comprendersi.

Noi possiamo capire che cosa si prova a vivere una vita umana alla luce di valori che non sono nostri. Quindi “Senza l’esperienza dei valori le nostre vite sarebbero prive di senso e le persone prive di identita’”. (13)

Le tavole valoriali sono gli ancoraggi, la sostanza morale degli ideal-tipo delle persone moralmente apprezzabili. Quindi: varieta’ ma convergenza nell’ambito del pactum societatis.

Se i valori confliggono, noi dobbiamo scegliere. E se scegliamo un valore, dobbiamo sacrificarne un altro. Il conflitto, fra valori, nobilita la nostra liberta’ di scelta. Nella solitudine del giudizio e al rischio dell’impopolarita’.

Comunque, i valori, per essere tali, devono passare indenni, almeno per un certo tempo e per certe epoche, non come ipotesi, proposte, variabili, ma come “argomenti” pedagogici da valere (almeno) per un certo numero di utenti-cittadini. Come ethos pubblico condiviso.

In questo ambito, alcuni di questi, sono valori tradizionali, universali, sub specie aeternitatis. Pensiamo alla tolleranza, (14) alla giustizia, come misura del dovuto ad ogni essere che sa che tutti gli altri accettano gli stessi principi, (15) alla bonta’, al bello.

Altri sono piu’ effimeri, legati a mode, consuetudini, abitudini: li potremmo definire “affievoliti”.

Molto lucidamente, come sempre, Bobbio sosteneva (L’eta’ dei diritti, Einaudi, 1990, 19) che vi sono tre modi di fondare i valori: “il dedurli da un dato obiettivo costante, per esempio la natura umana; il considerarli come verita’ di per se stesse evidenti; e infine lo scoprire che in un dato periodo storico sono generalmente acconsentiti”.

Concludiamo, per il momento, affermando che i valori, incentrati anche su regole di condotta, riposano piu’ sui doveri. Molto meno sui correlativi diritti.

 

Alle radici dell’etica

 

     L’eudomonismo era la teoria dominante nell’etica della Grecia antica. Il termine – come ci ricorda Deigh - (16) deriva dal greco eudaimonia che si traduce raramente come “prosperita’”, usualmente con “felicita’”.

Una chiosa. Ricordo che, per Aristotele (Etica nicomachea), la felicita’ risiede nell’esercizio dell’intelletto; per gli Epicurei, nel dominio delle passioni (atarassia); per gli Stoici nel “non desiderare”.

Cio’ premesso, per l’eudomonia il sommo bene coincide per ciascuno con il proprio benessere. Ponte tra l’uno e l’altro: l’egoismo, in prospettiva utilitaristica. Le considerazioni etiche, per gli antichi, erano funzionali alla promozione di tale bene.

  L’etica moderna, invece, riposa su elementi diversi, piu’ “nobili”, rispetto a quelli meramente egocentrici. Quindi,  l’accadere del bene, della giustizia, della liberta’ si declina in atti, gesti esperienze concrete. Modi di vivere la vita: amicizia, amore, passione, dolore, piacere, sforzo, pazienza, perdono.

  Possiamo sostenere che l’etica antica era partita dal mondo e aveva cercato di adeguarvi l’uomo. L’etica intermedia tra le due stagioni, almeno quella di matrice cristiana, origina dall’uomo, ma e’ rimasta riassorbita, nel medioevo, dal pensiero antico. Come tale, preda dell’indissolubile contrasto dell’uomo e del mondo, della liberta’ e della necessita’. Vanamente ha tentato di superare l’antinomia, spezzando il mondo in due parti e vagheggiandone l’una in una lontanaza ideale.

 Da quanto detto, emerge che non sussiste una cesoia netta tra l’etica “antica” e quella “moderna”; spesso le caratteristiche delle due tipologie si fondono e si confondono.

Abbiamo parlato, in premessa, dell’eudomonismo;  questa categoria, unitamente all’egoismo e all’utilitarismo, fa parte delle teorie teleologiche (da telos: fine, scopo).

  Le teorie invece che considerano gli standard morali di per se’, sono dette deontologiche (da deon: dovere).

Estrapoliamo, dalla prima, l’utilitarismo; dalla seconda, la legge morale.

 

L’utilitarismo come sistema etico

 

     L’utilitarismo parte dal presupposto che l’uomo (homo faber) agisca unicamente per il proprio vantaggio personale. La morale e’ in funzione servente della “massimizzazione” del piacere per il maggior numero di persone.

Centrale, quindi, per questo ancoraggio filosofico, etico e politico, e’ il Principio di utilita’ o Principio della massima felicita’. Riassumibile nel considerare il bene degli altri come il proprio (in senso allargato); quindi con carattere di imparzialita’.

La tesi del fondatore dell’utilitarismo, Jeremy Bentham, (17) fu ripresa, con varianti, da John Stuart Mill. (18)

Il Mill enfatizzo’ questo principio, avvicinandolo agli ideali di amore universale, di carita’ incondizionata, di grazie della vita. Due proposizioni del filosofo inglese ne chiariscono meglio il pensiero.

“Chi salva un suo simile che sta annegando fa cio’ che e’ moralmente corretto fare, non importa se il motivo sia il dovere o la speranza di venire compensato per il disturbo”.

“Il solo aspetto della propria condotta di cui ciascuno deve rendere conto alla societa’ e’ quello che riguarda gli altri: per l’aspetto che riguarda solo lui, la sua indipendenza e’, di diritto assoluto. Su se stesso, sulla sua mente e sul suo corpo l’individuo e’ sovrano”.

Sono state mosse a questa concezione,  alcune obiezioni. Riassumiamole.

Il principio di imparzialita’ e’ molto difficile da realizzare nella pratica. Critica sollevata, tra gli altri, da G. E. Moore, nella sua opera Principia Ethica (1903).

Inoltre la massimizzazione delle utilita’ individuali si presenta inaccettabile sia per il concetto di giustizia retributiva che per quella distributiva.

Per la prima, l’utilitarismo, lungi dall’avere una giustificazione morale della punizione, ne considera esclusivamente le conseguenze. Per la seconda, l’utilitarismo, rinnega il concetto di uguaglianza per una diversa quantificazione della pena: totale, parziale, media.

Infine -  terza critica – per l’utilitarismo il principio dell’agire politico e’ moralmente giustificato se e in quanto massimizza l’utilita’.

 

L’utilitarismo come liberta’ di fronte ai conformismi

 

     L’utilitarismo,  oltre che come principio di giustificazione morale dell’agire individuale, viene anche proposto come principio di giustificazione politica. E delle istituzioni che caratterizzano una determinata societa’.

In particolare, Mill, difendeva l’individuo di fronte al “conformismo” soporifero imposto dalla societa’. Egli rientrava nel grande tronco liberale, patrocinando quella liberta’ negativa intesa come assenza di ostacolo lungo le strade che una persona puo’ decidere di percorrere.

Il diritto alla liberta’ non e’ soltanto un insieme di garanzie giuridiche concrete, ma anche un’esigenza morale. “La sola liberta’ che meriti questo nome, e’ quella di ricercare il proprio bene a proprio modo nella misura in cui non si cerchi di privare altri o di ostacolare i loro sforzi per ottenerla”. (19)

Il principio di utilita’, secondo la riformulazione dell’utilitarismo di Mill, non solo determina le regole della moralita’, ma definisce anche le eccezioni a quelle regole. Secondo questa versione, il favorire i propri amici e le persone amate, poiche’ i loro interessi ci stanno piu’ a cuore di quelli di semplici conoscenti o completi estranei, non si pone in contrasto con l’idea utilitaristica.

Concludiamo, permettendoci di esplicitare, anche noi, una critica all’utilitarismo, oltre alle sue indubbie virtu’. Esso si ispira a una concezione meccanicistica della societa’. La societa’ invece non e’ un meccano, ne’ un organismo. E’ una societa’: e cioe’ una rete di individui e gruppi al tempo stesso autonomi e interdipendenti. L’individuo non e’ uno strumento della societa’; la societa’ non e’ solo un insieme di individui.

  

Oltre l’utilitarismo

 

     Rawls, (20) rifiutava la posizione utilitarista, di misurabilita’ delle utilita’ individuali. Al contempo, rigettava la posizione contrattualista di tipo paretiano (fondata cioe’ sull’equilibrio Pareto efficiente: si migliora la propria posizione senza peggiorare la posizione altrui).

Egli adotta una norma obiettiva, fondata su due regole di giustizia. La prima regola e’ che ciascuna persona ha diritto alla piu’ estesa liberta’ possibile, compatibilmente con una simile liberta’ per tutti.

La seconda e’ che ogni ineguaglianza sociale e’ arbitraria, a meno che non sia ragionevole aspettarsi che si traduca in un vantaggio per tutti e particolarmente per i piu’ svantaggiati.

Il giusto – per Rawls – (“si deve dire il vero”; “si devono mantenere le proprie promesse”; “si deve obbedire alla legge del proprio paese”) e’ prioritario sul bene. O meglio e’ immorale cio’ che si colloca fra le varie idee di bene circolanti in una societa’ pluralistica.

La teoria della giustizia richiede, quindi, una teoria della comunita’; rimanda a una concezione forte, costitutiva di appartenenza.

I postulati rawlsiani sono stati estremizzati, sul versante della giustificazione del potere coercitivo dello Stato, da Nozick. (21)

L’unico compito dello Stato e’ quello di tutelare la giustizia come presidio degli inalienabili ed assoluti diritti di liberta’ e proprieta’. Il rispetto “Kantiano” per l’individuo come fine in se’, significava per Nozick, che “un’entita’ sociale, il cui bene sopporti qualche sacrificio per il proprio bene, non esiste. Ci sono individui, individui differenti con le loro vite individuali”. (22)

E’, in campo economico, il trionfo del laissez faire, in un universo unidimensionale – individualistico – totalizzante, che attinge i limiti utopistici del radicalismo libertario. In cio’ dimenticando che il mercato e’, almeno all’origine, una sorta di disordine da circoscrivere, un recinto regolato (come vedremo) da regole morali, all’interno di una societa’ solidale.

Solo nello Stato-nazione dell’eta’ moderna, la struttura sociale connota il mercato come imprenditore-capitalista. Mercifica cosi’, nelle societa’ capitalistiche, cio’ che non era mercificabile (la terra e il lavoro). Consentendo, infine, al mercato di diventare la struttura centrale della societa’.

Avere peraltro dimenticato i “lacci e i lacciuoli”, ha portato (prima) al turbo capitalismo, e (dopo), alla crisi.

Habermas, (23) infine, nell’auspicare un ritorno al mondo positivo delle relazioni sociali, patrocinava un contratto sociale tra gli uomini. Essi sono al tempo stesso l’ambiente (societa’) e i soggetti del sistema. La societa’, in definitiva, parla con se stessa. Habermas affermava poi due principi estremamente attuali nel dibattito politico.

“La politica non consiste soltanto, e neppure in primo luogo, in questioni di reciproca intesa etica”.

“Una democrazia costituzionale, per giustificarsi, non ha bisogno di un presupposto etico o religioso”.

Proposizioni lontane, se non antitetiche, rispetto a quelle relative allo Stato etico, teorizzato da Hegel (assoluta eticita’, assoluto credo nella patria e nel popolo) e da Gentile (tutto e’ nello Stato, nulla fuori dello Stato). Conseguentemente, fine immanente per la storia, schematismi elitisti, decisionismi autoritari. Enunciati – questi – precursori dei movimenti nazisti e promotori di quelli fascisti. Il diritto e la morale ne rimangono brutalizzati. 

 

La legge morale

 

     Le teorie deontologiche sono nate dall’idea della legge divina, dalla quale il cattolicesimo ha preso le mosse. Fonte ispiratrice, altresi’, sia l’antica Grecia che l’antica Roma. L’identificazione delle leggi divine universali con le leggi di natura, deriva dal pensiero degli stoici, attraverso Cicerone. (24)

Le idee deontologiche del cristianesimo riposano, invece, nella concezione delle leggi divine come legge di un Regolatore supremo (legge mosaiche) che “obbligano” i suoi sottoposti a obbedirgli, avendo stretto un “patto” con lui.

Gli esseri umani, come tali, sanno distinguere, istintivamente, il bene dal male. Ne troviamo conferma nella Lettera di Paolo ai Romani. “Quanto la legge esige e’ scritto nei loro cuori (dei pagani NdA) come risulta dalla testimonianza della loro coscienza e dei loro stessi ragionamenti, che ora li accusano ora li difendono”.

Il che equivale identificare le azioni (moralmente corrette o moralmente scorrette) con il comando o la disapprovazione divina.

Questa impostazione (volontarismo teologico) che, nelle sue estreme conseguenze, puo’ portare ad esiti aberranti, e’ stata criticata da Grozio. (25)

Per Grozio,  la concezione dell’etica si basava su proposizioni o principi, la cui verita’ o validita’, per quanto presente all’intelletto di Dio, non dipende dalla sua volonta’. Il pensatore olandese muoveva dall’Antico Testamento e dalle convinzioni calviniste, per un appello alla ragione. Fornendo della stessa una precisazione concettuale quale non aveva mai avuto nell’antichita’.

I frequenti richiami di Grozio alle matematiche sono significativi. Scriveva: “Dunque, come Dio non puo’ far si’ che due piu’ due non faccia quattro, cosi’ non puo’ fare che non sia male cio’ che e’ in se’ male”.

 

La morale Kantiana come imperativo categorico

 

     Kant, il fondatore dell’etica moderna, si ispirava, per superarle, alle idee illuministiche, definite come “uscita dallo stato di minorita’”. Credeva quindi, profondamente, nel progresso umano per opera della ragione e della cultura.

La sua e’ una weltanschauung, un impianto logico-culturale-filosofico fondato sulla ragione, sia pratica che teoretica. Alla quale si unisce una concezione della morale, intesa come dovere, assoluta e necessaria.

Imperativo categorico, come tale, incondizionatamente valido. Quindi non formulabile mediante massime particolari, ne’ proveniente da alcuna autorita’ esterna all’uomo.

In sostanza, non una morale che giustifica il suo comando con qualcosa di estraneo al comando stesso, promettendo soddisfazioni o premi o minacciando dolorosi castighi. In tal caso, infatti, varrebbe soltanto per gli individui disposti ad accettare questa autorita’ e perderebbe, quindi, il suo carattere universale. (26)

Ma autonoma, in grado di seguire la legge per la legge, il  bene per il bene, prescindendo da ogni immediata inclinazione dell’anima.

Cio’ detto, gli enunciati Kantiani (ragione pura) della legge morale cosi’ si sostanziano:

a)      “Agisci in modo che tu possa volere che la massima delle tue azioni divenga universale”;

b)        “Agisci in modo tale da trattare l’uomo, cosi’ in te come negli altri, sempre anche come fine non mai solo come mezzo”;

c)        “Agisci in modo che la tua volonta’ possa istituire una legislazione universale”.

Fai cioe’ in modo che la tua attivita’ sia fonte di un regno della moralita’ (kantianamente, definita come “il regno dei fini”) al di sopra di quello della natura.

Dal concetto di sommo bene, come bene piu’ alto o piu’ completo, derivano poi i postulati della ragione pratica.

Anch’essi sono tre: il postulato dell’immortalita’ dell’anima, quello della liberta’, e quello dell’esistenza di Dio.

Gli stessi, sul versante valoriale, sono ambivalenti. Infatti, considerati come affermazioni teoretiche, ci forniscono soltanto raffigurazioni simboliche della realta’. Come tali, non dimostrabili.

Considerati invece come atti di fede (“io voglio che ci sia Dio”), rivestono un grande valore pratico.

Scaturiscono, per Kant, da questa dottrina, l’idea di moralita’ come elemento della kultur. Al contempo,  il valore pedagogico dell’educazione (il filosofo la etichetta come “un’arte”). L’educazione deve tendere a formare uomini atti non solo a pensare, ma anche ad agire in termini universali; capaci di superare l’egoismo della individualita’ empirica; uomini che non considerano il prossimo in funzione strumentale, ma come fine assoluto.

Kant cercava poi di risolvere il nodo del rapporto tra individuo e societa’, nel concetto dell’io trascendentale: la sua “insocievole socievolezza” farebbe da ponte.

Formula declinata dalla filosofia politica della sinistra europea come fraternita’; come immutabilita’ dall’Ecclesiaste (“Niente di nuovo sotto il sole”); come Homo homini lupus dal filosofo della paura.

La lezione di Kant, succintamente riassunta, anche se non immune da critiche (l’io trascendentale kantiano potrebbe essere “alleggerito” con categorie meno ambiziose, quali la socievolezza) rimane quanto mai attuale.

L’etica (non condizionata, ne’ condizionabile),  il dovere,  la razionalita’, sono le pietre miliari della nostra vita. Rappresentano il promemoria e il segnaposto della reciprocita’, del “prossimo”. Servono, in definitiva, a costruire una persona umana piu’ colta, piu’ autonoma, piu’ responsabile.   

 

 

Parte II

La morale e gli altri mondi

 

     Una buona modernita’, concettualmente, dovrebbe portare ad una demarcazione dei territori dell’agire umano. L’economico, il politico, l’etica, il diritto, ecc.

L’incapacita’ di separare,  in particolare, cio’ che e’ di Cesare (la politica) e cio’ che e’ di Dio (l’etica) puo’ generare equivoci, idee sbagliate. Aggregare cosi’ le schiere dei “puri” contro gli eserciti degli “impuri”.

Abbiamo peraltro parlato di demarcazione, non di netta separazione. Le macro caselle sono distinte, ma non separate. Un filo comune le lega e le condiziona: l’universalita’ in una ideale ricomposizione.

Tanto premesso, vediamole singolarmente (species) rapportate alla matrice aggregante (genus): la morale.

Diciamo, sin d’ora, per una prima approssimazione, che:

-         l’eticita’ rappresenta il principio regolatore virtuale dell’agire (oggetto, il bene morale);

-           la politica, la scienza e l’arte dell’attivita’ di governo (oggetto, la cosa pubblica e il bene della collettivita’);

-           l’economia, il soddisfacimento dei bisogni (oggetto, l’utile);

-           il diritto,  la costruzione e il mantenimento di un determinato ordine sociale (oggetto, la regolazione della societa’).

 

A) La morale e l’economia

 

     Morale ed economia, (1) nella communis opinio, sono due sfere totalmente indipendenti.

L’economia concerne il guadagno, il denaro, l’egoismo. Categorie, queste, lontane dall’etica, che appare non misurabile, ne’ monetizzabile. Peraltro, il fornire ai consumatori cio’ che serve loro al miglior prezzo, dare loro i servizi di cui hanno bisogno, farli vivere materialmente nel migliore modo possibile, rappresentano qualcosa che (latamente) ha a che fare con la morale.  (2) Enfatizzare, quindi e esclusivamente, “l’economico”, significa non rendergli un buon servizio, togliendone il valore che gli e’ proprio.

Cio’ si verifica, ad esempio, nel marxismo, teoria questa ove “l’economico” e’ assunto a fondamento di ogni realta’ umana. Il pieno dispiegamento dell’uomo era considerato, da Marx, come lo sbocco naturale della liberazione delle forze produttive dai ceppi dei rapporti di produzione capitalistica.

E (da altra angolazione), nella teoria di Croce, ove era assorbito dall’attivita’ universale dello spirito. Gioca in queste visioni un certo “lascito” del passato, una “eccedenza” di futuro nel passato. Il peso del passato ha contrassegnato il futuro dell’Italia, quindi anche il nostro presente. Alludiamo ad una sorta di “eredita’ giacente”, lasciataci dalla Controriforma.

La Controriforma, quale risposta pro tempore in salsa italiana della Riforma protestante, “fece della Chiesa il sostituto della Patria, l’identita’ religiosa soppianto’ quella nazionale, i benefici ecclesiastici si rivelarono molto piu’ comodi dei rischi d’impresa. La ricerca scientifica e quella filosofica vennero fortemente ostacolate e per i disobbedienti era pronto il carcere, non di rado il rogo”. (3)

Il concilio di Trento – che si riuni’ in tre discontinue sessioni (dal 1545 al 1563) – aveva trascurato le questioni etiche e non aveva formulato alcun codice morale capace di fronteggiare quello protestante. Aveva quindi “impresso nella Chiesa il marchio di un’eta’ intollerante e perpetuato lo spirito di una immoralita’ austera” (N. Davies, Storia d’Europa, Mondadori, 552).

Ranke, storico protestante, da parte sua, sottolineo’ il paradosso di un concilio che si era proposto di ridurre il potere del papato e che invece, attraverso i regolamenti dettagliati e le punizioni, aveva subordinato l’intera gerarchia cattolica al Papa.

La disciplina fu ristabilita, ma tutte le funzioni di controllo si incentrarono su Roma. Diversi monarchi cattolici, incluso Filippo II di Spagna, ebbero cosi’ tanta paura dei decreti tridentini che li pubblicarono censurati.

I Gesuiti, il corpo d’èlite della Riforma cattolica (sit ut sunt, aut non sint; “possono essere come sono o smettono di esistere” Clemente XIII) e il Sant’Uffizio che assunse il controllo dell’inquisizione, costituirono poi il braccio secolare della Chiesa.

La Riforma (inizio del XVI secolo) aveva messo in campo un apparato teologico e concettuale che ribaltava l’intera tradizione medievale; si ibridava infatti con il nuovo corso economico, a cui offriva una sponda morale.

Alludiamo a quell’etica protestante che, secondo i classici lavori di Weber (4) e di Tonnies, (5)  sarebbe all’origine del capitalismo. Addirittura coinciderebbe con esso.

Il suo credo – di matrice calvinista – poneva a fondamento dello stesso, la predestinazione. Dio ha deciso, per sue imprescrutabili ragioni, di salvare alcuni e di dannare gli altri. L’uomo allora prende come segno della benevolenza divina: il successo, la ricchezza (per altro Lutero considerava il denaro “sterco del Diavolo”); i benefici che riceve nel mondo.  

La sua morale austera gli imponeva di lavorare assiduamente, di essere sobrio, di accumulare. L’unica guida e fonte di gioia doveva essere la lettura quotidiana della Bibbia.

Il calvinismo originario, filtrato dalle esperienze puritane, metodiste, pietiste, divento’ un postulato dell’industrialismo. Per Weber,  una sorta di teologia economica.

Sommovimento ancora piu’ radicale della Riforma si ebbe con l’Illuminismo.

Esso rompeva con il mondo del dogma e della intolleranza religiosa. Come filosofia militante diffuse la “luce della dolce ragione”, in tutti i suoi aspetti. Ivi compresa la morale che “riscopre in se stessa la propria ragione di essere senza inferni e paradisi”. (6)

 Politicamente il lascito illuminista fa ancora tutt’uno con la politica riformatrice e con il pieno recupero della triade “Liberta’ eguaglianza fraternita’” tanto tradita e calpestata durante le drammatiche crisi e massacri del Novecento. Filosoficamente il lascito e’ quello di procedere con sentimento morale e razionalita’ intellettuale, traendo dal buio alcune provvisorie certezze che galleggiano sull’oceano del caos.

Cosi’ la nostra specie ha fatto e continuera’ a fare perche’ questa e’ la nostra condizione esistenziale: ricercare la verita’ quando sappiamo che non la troveremo neppure oltre le colonne d’Ercole dove la nostra audacia e la nostra necessita’ ci portano.

 …

     Il binomio tra etica religiosa e capitalismo, sembra spezzarsi, con lo Smith.

Da una lettura affrettata delle sue Opere, si potrebbe arguire che l’economista scozzese avesse inteso sollevare, da ipoteche morali, i partecipanti all’arena del mercato. A conforto di questa tesi, la nota massima smithiana:

“non e’ dalla benevolenza del macellaio, del birraio, del fornaio che ci aspetteremo la nostra cena, ma dalla considerazione del loro interesse”. (7)

Dalla interazione virtuosa degli interessi privati, la mano invisibile del mercato puo’ far nascere la ricchezza della nazione. Mercato, ma anche Stato (mano visibile), in funzione calmieratrice e correttiva dei (possibili) guasti del mercato.

Peraltro, Smith, quale insegnante anche di filosofia morale, (8) si poneva una domanda centrale in ordine al rapporto tra interessi e passioni. Come mai l’umanita’ riesce a elevare barriere morali al prorompere delle sue passioni? Smith, per rispondere al quesito, abbandonava il cielo e l’eternita’ (medioevo cristiano) per scendere sulla terra ed ancorarsi alla storia. Dio sta prima e “a monte”. Le regole morali, da ricercare nella societa’ e nella natura umana, sono costituite da un tessuto connettivo: la simpatia.

E’ la simpatia, quale reciproca approvazione, che genera, all’interno della (singola coscienza), un secondo io. Un io sociale. L’interesse economico quindi – per Smith – e’ una passione “calma e fredda”, ispiratrice virtuosa della condotta umana.

  Altri economisti hanno accentuato, anch’essi, il lato morale dell’economico.

Marshall, ad esempio, ebbe a scrivere: “Dalla metafisica passai all’etica, rendendomi conto di persona, dopo aver visitato i quartieri piu’ poveri di diverse citta’ e guardando le facce dei piu’ umili, delle condizioni sociali ed economiche del popolo”. (9)

Per completezza di analisi, soggiungiamo che, anche nell’ambito degli economisti “classici”, non mancarono voci dissonanti in ordine ai rapporti tra morale ed economia.

Per queste voci: il compito dell’economista e’ di prendere le distanze da cio’ che e’ giusto o ingiusto, dalle sofferenze e dalle privazioni presenti nel sistema. La scienza dell’economia politica non ha nulla a che spartire con questioni pratiche e morali.

Ad esempio, tra questi, Jevons che dichiaro’: “E’ evidente che l’economia, se deve essere una scienza, deve essere una scienza matematica”. (10) E da una scienza matematica i valori morali sono ovviamente esclusi.

 

     Nelle societa’ classiste, l’etica religiosa favorisce una giustificazione dell’ineguaglianza. Al tempo stesso permette di mantenere il mondo del mercato entro certi limiti morali. Quando, pero’, la produzione di massa, grazie al progresso tecnico, trova lo sbocco del consumo di massa, la base etica del capitalismo si sbriciola. (11) Il sacrificio del lavoro e l’astinenza del risparmio, non sono piu’ ingredienti necessari dell’accumulazione.

La “societa’ opulenta” e “dalle aspettative crescenti”, spinta al massimo, ha determinato (in un primo tempo) un divorzio tra istituzioni e societa’ civile, tra mercato e solidarieta’, tra spiriti animali e mani invisibili.

L’opzione quantitativa, l’arrresto della crescita come promessa di abbondanza per tutti, la finanziarizzazione dell’economia (12) hanno addotto (in un secondo tempo) profonda crisi, recessione, debiti (nazionali e individuali). Con perdite di credibilita’ e di fiducia “nelle umane sorti e progressive”. La demarcazione tra Stato e mercato, e’ diventata una vasta zona grigia. Un terreno di confronto, avvolto dalle nebbie, presidiato da manipoli che, in ordine sparso, aspettano che passi “la nottata”.

Al momento, siamo quindi senza passato e senza futuro; il primo si tinge di nostalgia; il secondo, di minaccia. Non e’ la complessita’, la causa diretta dell’ingovernabilita’ ma l’anomia, l’assenza di regole, l’anarchia, gli egoismi delle nazioni e degli individui.

Una crisi quindi di trascendenza laica (idea illuministica di progresso) e una crisi di solidarieta’. E’ lungo questi due versanti che puo’ essere recuperata una nuova dimensione etica della societa’. Solo, allora, l’etica degli affari, sara’ uno dei luoghi di rinnovamento della filosofia morale.

    

 B) La Morale e la Politica

 

     Uno dei problemi fondamentali della filosofia politica e’ il rapporto fra Politica e Morale. Diciamo in premessa che gli scopi, i mezzi usati, i criteri di giudizio della politica sono diversi da quelli degli altri campi. (13)

Vi possono essere azioni morali che sono impolitiche (o apolitiche) e azioni politiche che sono immorali (o amorali).

Machiavelli fondava la moderna scienza della politica,  come scienza autonoma dalle esigenze morali. Quindi, sul piano immanente, come “Ragione di stato”. (14) La sicurezza dello Stato e’ un’esigenza di tale importanza che i reggitori degli stati, sono costretti, per garantirla, (“necessitas non habet legem”) a violare le norme. Giuridiche, morali, politiche, economiche.

Una visione realistica e disincantata della natura umana, brutalmente pragmatica, (il potere per il potere) separa irrimediabilmente la politica dalla trascendenza (gli stati “non si governano con i pater noster”) e dalla morale.

Il principe, per il “Segretario fiorentino” deve fare in modo “di vincere e mantenere lo Stato: i mezzi saranno sempre indicati onorevoli e da ciascuno laudati”. (15)

L’autonomia della politica dalla morale, ovvero la prevalenza del principio di realta’ sul moralismo delle dure repliche della storia sul dover essere, e’ stata da allora affermata come una sua legge fondamentale.

La Ragione di Stato, come esercizio spregiudicato del potere, si e’ poi accompagnata al tema degli arcana imperi. Cosi’ Naudè (nessun principe “deve rimettere al giudizio del pubblico cio’ che a mala pena rimane segreto se confidato all’orecchio di un ministro”), cosi’ Bodin (“non bisogna risparmiare ne’ le belle parole, ne’ le promesse, …  permettendo ai magistrati e ai governanti di mentire,  cosi’ come si fa coi bambini e con i malati”), cosi’ Grozio nel De dolis et mendacio nei rapporti internazionali.

L’estraneita’ della politica dalla morale, e’ stata poi rappresentata, dal marxismo e dal funzionalismo.

Per Marx e per i marxisti ortodossi, non si ponevano problemi di fini, di scelte etiche. Andavano quindi rifiutate “verita’ definitive di ultima istanza”; il giudizio di “immoralita’” del conflitto doveva essere espresso esclusivamente sulla base di dati contingenti (Gramsci).

Per i funzionalisti, l’attivita’ sociale consisteva nello svolgimento di funzioni, non nel perseguimento di scopi (perche’, e per chi). Non ha quindi bisogno di essere legittimato e spiegato da elementi esterni alla sua propria logica: da Dio, dallo spirito egeliano, dall’uomo. (16)

Weber, da parte sua, sottolineava: … “c’e’ una differenza incolmabile tra l’agire secondo la massima dell’etica della convenzione, la quale in termini religiosi suona il cristiano spera da giusto e rimette l’esito nelle mani di Dio, e l’agire secondo la massima dell’etica della responsabilita’, secondo la quale bisogna rispondere delle conseguenze (prevedibili) delle proprie azioni”. (17)

Da una parte quindi l’uomo di fede, il pedagogo, il profeta, il saggio che guarda alla citta’ celeste. Dall’altra, l’uomo di Stato, il condottiero di uomini, il creatore della citta’ terrena.

Tocqueville, respingeva l’interpretazione della politica di Machiavelli, (un mix di forza e di astuzia), sostenendone la sua eticita’. “Come esigenza di razionalita’ e di coesione e come sentimento originario e non derivabile”. (18)  

 Croce, da parte sua, quale ammiratore di Machiavelli e di Marx per la concezione realistica della politica, bollava l’”onesta’ politica”. “Un’altra manifestazione della volgare intelligenza circa le cose della politica e’ la petulante richiesta che si fa dell’onesta’ nella vita politica”. “Trattandosi di un ideale che canta nell’animo di tutti gli imbecilli, l’onesta’ politica non e’ altro che la capacita’ politica”. (19)

 Diamo, infine, uno sguardo alla divaricazione tra etica e politica come specifico aspetto del (secolare) contrasto tra Chiesa e Stato.

La prima, come istituzione volta a predicare/insegnare/raccomandare le leggi universali di condotta, imbozzola la soddisfazione del principe cristiano “nell’essere giusto, non nel fare grandi cose”. (20)

Kant, sulla stessa lunghezza concettuale, teorizza la subordinazione dei principi della prudenza politica a quelli della morale. (21)

La seconda, come istituzione terrena finalizzata ad assicurare l’ordine temporale nei rapporti tra gli uomini, considera le leggi della Chiesa tali in quanto accettate, volute e rafforzate dallo Stato. Hobbes: l’ordine sociale si basa sulla forza. Dal monopolio della forza nasce il moderno Stato sovrano. (22)

 

     Qualche ulteriore considerazione,  alla fine dell’itinerario storico-politico-ideologico.

Premesso che fra i due mondi puo’ e debba coesistere una frontiera comune, costituita dal benessere morale e civile dell’individuo e della societa’, quale dei due mondi predomina sull’altro?

Per Croce, il morale, nell’ambito della dialettica dei distinti, e’ “superiore” al politico. La vita politica prepara la vita morale o e’, essa stessa,  strumento di forma di vita morale.

Per Hegel, (23) invece, nell’ambito della teoria statocentrica dello Stato nazionale, il politico e’ il prius rispetto alla morale. Quest’ultima deve cedere allorche’ il compito dello Stato, inteso come “lo spirito nella sua razionalita’ sostanziale”, lo richiede.

E siamo al punto di partenza; la diade (morale/politica),  indipendentemente dalle opzioni prescelte, rimane aperta. Continua e continuera’ a far discutere filosofi, pensatori, politici.

Due chiose, sul punto, di attualita’:

-         E’ (maledettamente) complicato convincere un Paese dalle mille contraddizioni come l’Italia, che la Politica ha una sua cifra: l’etica della responsabilita’ e del realismo, autonoma dalla moralita’ comune (l’etica della convinzione, o del moralismo);

-           L’uso politico della “questione morale”, ha favorito due subordinate, ambedue sbagliate e semplificatorie.

Per la prima, tutto va a posto, sostituendo i politici disonesti con quelli onesti.

Citiamo, ancora una volta, in proposito, la saggezza di Bobbio:

“Anche se spesso la polemica politica non distingue i vari giudizi e li pone tutti e tre sotto l’etichetta della “questione morale”, i tre giudizi, quello di efficienza, quello di legittimita’ e quello piu’ propriamente morale (che si potrebbe anche chiamare di merito), debbono essere tenuti distinti per ragioni di chiarezza analitica e di attribuzione di responsabilita’”. (24)

 Per la seconda subordinata, ai magistrati spetta (spetterebbe) una missione salvifica, palingenetica, di rigenerazione della politica. Una sorta di “vendicatori del popolo”, alcuni dei quali, hanno considerato il diritto come uno degli strumenti politici da usare per il buon esito della causa.

Come se ne esce?

Per il primo aspetto, migliorando il rendimento delle istituzioni rappresentative, creando (finalmente) una classe dirigente degna di questo nome, istituendo una piu’ libera e severa organizzazione della scuola e del sapere.

Per il secondo, restituendo al magistrato la sua funzione originaria di mero “soggetto giuridico”, di “bocca della legge”, nell’ambito di una riaffermata divisione dei poteri. (25) Senza invasioni, ma nemmeno senza prevaricazioni.

 

C) La Morale e il Diritto

 

     Il Diritto,  per i giuristi, e’ ordinamento e forza coattiva; convergenza tra strutture giuridiche e potere politico. La struttura del Diritto deve: - ricondursi al concetto di societa’ (ubi ius ibi societas); - contenere un precetto (norma/sanzione) avente carattere oggettivo e astratto; (26) – rappresentare la condizione necessaria per i fini statali (27).

Per i filosofi, il Diritto rappresenta: la realizzazione etica del giusto. Per questi pensatori, la societa’ naturale precede lo Stato.

Ad avviso di chi scrive, ciascuno di noi e’ sempre in bilico tra la legge positiva e la legge della coscienza. Il dovere di lealta’ verso la legge positiva, puo’ eccezionalmente cedere di fronte al dovere morale. In questo caso e’ morale,  accollarsi il prezzo della risoluzione.

Per Marx, Diritto e Stato, appartengono entrambi alla “sovrastruttura giuridica e politica”.

In genere tutte le correnti sociali che, come le correnti anarchiche e quelle del socialismo utopico, hanno mosso guerra allo Stato, hanno mosso contemporaneamente guerra al Diritto.

Cosi’ premesso, il problema tra diritto e morale e’ una sorta di “Capo di Horn”, cio’ uno scoglio molto pericoloso da doppiare.

L’Italia e’ il paese del diritto (e la tomba della giustizia) non della morale. Si costringe a fare qualcosa con un deterrente: la minaccia.

L’obbligo politico si sostanzia nel dovere di obbedire alle leggi. Si chiama legge: “tutto cio’ che chi comanda una citta’, dopo aver deliberato, fa mettere per iscritto che si debba fare” (Senofonte, Memorabili).

La disobbedienza civile e’ un illecito e, come tale, variamente punito.

Scriveva peraltro Rawls: “quando le parti adottano il principio maggioritario, accettano di tollerare leggi ingiuste solo a certe condizioni. Quindi, almeno in uno Stato di quasi ingiustizia, esiste in genere un dovere (e per alcuni anche l’obbligo) di rispettare leggi ingiuste a condizione che non superano certi livelli di ingiustizia. Se tali livelli sono superati, l’adozione della disobbedienza civile e’ affidata alla buona fede dei cittadini”. (28)

Rawls richiamava il pensiero di Thoreau per il quale la “Disobbedienza civile”, (29) intesa a far cambiare dal legislatore una legge ingiusta, rappresentava l’unica forma di dissenso giustificato.

Al contrario, la morale, riposa sull’intenzione buona, sulla sincerita’, sulla spontaneita’. Non ha bisogno ne’ di comandi esterni, ne’ di sanzioni.

Quindi non tutto cio’ che e’ morale, e’ diritto. L’applicazione troppo rigorosa e letterale di quest’ultimo, puo’ trasformarsi in ingiustizia. Summum jus, summa iniuria: si legge,  nel De officiis, di Cicerone.

Peraltro, per una corrente di pensiero, la morale si intreccia con il diritto, di cui ne costituisce il substrato.

Cosi’, per Kant. Per il sommo pensatore, la giustezza e l’obbligatorieta’ dell’azione, sulla base di una condizione deontologica, dipendevano dall’essere conforme a certe regole. (30)

Cosi’ per Rousseau. Il padre della politica come “ingegneria sociale”, vedeva la legge come strumento di moralizzazione pubblica e individuale e lo Stato come “governo di salute pubblica”.

Per un altro orientamento di segno opposto, vanno invece recisi i legami tra diritto e morale.

Kelsen, capostipite del positivismo giuridico, concepiva il diritto come un sistema chiuso di norme, avente valore assoluto (Sallen), non condizionabile dalla morale e in opposizione all’essere (Sein) della realta’ naturale. Statualizzazione del diritto, giuridificazione dello Stato,  gerarchizzazione delle norme (al vertice: la Costituzione), rappresentavano, per il giurista tedesco, l’orizzonte teorico della Dottrina pura del diritto. (31)

 

     Peraltro,  la distinzione tra diritto ed etica e’ un portato dell’eta’ moderna: “quando con la crisi della Scolastica, anche la filosofia si separo’ dalla teologia, quando i segni di una teocrazia universale si mostrarono utopie non meno della monarchia universale, e nacque lo Stato moderno, e l’uomo si senti’ sempre piu’ impegnato alla sua battaglia terrena, fatto piu’ libero dai miti, autonomo nell’uso della ragione”. (32)

 Nell’antichita’, morale e diritto, fanno parte ambedue di una legge di liberta’. Oggettivizzano l’eticita’. E, in questo ambito, la persecuzione contro il Cristianesimo rappresentava una difesa del concetto etico-religioso dello Stato.

Piu’ specificatamente, nella Grecia ci si oriento’ verso l’unita’ della filosofia. Anche in Roma, che pur aveva partorito il Codex, troviamo formule definitorie del diritto in veste di precetti etici.

Non dimentichiamoci, poi, che i Trattati sulle leggi sono vere e proprie opere morali.

Dai Nomoi di Platone, al De Legibus di Cicerone e (successivamente) all’Esprit des lois di Montesquieu.

Questa consonanza, continuava con Ulpiano, autore di una enciclopedia giuridica in 81 libri che, sul finire dell’eta’ dell’oro della giurisprudenza romana, tratteggio’ il Diritto non solo come scienza. Ma anche, come arte, attuazione cioe’ di cio’ che e’ buono ed equo. La giustizia, poi, come costante e perpetua volonta’ di attribuire ad ognuno cio’ che gli spetta.

Da allora, i fondamentali precetti giuridici riposavano e riposano: sul’honeste vivere, sull’alterum non laedere e nel suum cuique tribuere.

 

     L’ipertrofia del diritto (nelle sue varie articolazioni) e il ratichismo dell’etica penalizzano rispettivamente il cittadino e la societa’.

Sul primo piano, la struttura pubblica in Italia prescinde dalle necessita’ concrete del cittadino. Conseguentemente, il servizio pubblico e’ ancora concepito come elargizione, nell’ambito di un ordinamento amministrativo stratificato, scoordinato, con blocchi di legislazioni successive, ispirate a concezioni diverse.

La burocrazia (solitamente) non “monetizza” il tempo occorrente per la definizione della pratica;  duplica i “passaggi”; usa il “timbro”, non l’elasticita’; ragiona per competenza non per programmi. Utilizza un linguaggio semiesoterico.

In buona sostanza, una “gabbia d’acciaio”, che tiene avvinto il cittadino-utente a tutto vantaggio di “sacerdoti” occhiuti e di “tecnici del sapere” che vivono e (talvolta) si arricchiscono sulle ambiguita’ delle norme.

Cio’ nonostante, come ricordava Einaudi: “migliaia, milioni di individui lavorano, producono e risparmiano nonostante tutto quello che noi possiamo inventare per molestarli, incepparli, scoraggiarli. E’ la vocazione naturale che li spinge, non soltanto la sete di guadagno”.

   Sul secondo piano, quello dell’etica, le carte non i valori, il conformismo non la solitudine del giudizio, il “carpe diem”, non il futuro, ne hanno fiaccato la vitalita’, sia individuale che civile.

La doppia morale, (33) il distinguo, il perdono: un trittico che ha abbattuto, in un colpo solo, il sistema liberale dei diritti e dei doveri. Figlio, rispettivamente, della “dissimulazione onesta”,  (34) filtrata dal Seicento e arrivata intatta ai giorni nostri. E del “particulare”, dell’eccezione, della tolleranza per il pentito di turno, elevata a categoria dello spirito.

Siamo, quindi, una societa’ in cui vivono insieme una legalita’ senza etica e un’etica senza istituzioni. Istituzioni e uomini non vengono piu’ rispettati perche’ non appaiono rispettabili.

E piu’ questo fenomeno si allarga, piu’ diventa impossibile il consenso, che viene sostituito con la connivenza e la complicita’.

 

 

Parte III 

Il malessere della societa’ post-industriale 

 

L’etica applicata

 

    Spostiamo, ora, l’asse dell’attenzione, su di un piano pratico, operativo. Per verificare come “l’etica applicata” (1) si interessi dei “nuovi” problemi del nostro tempo. Piu’ in generale, per controllare come e se lo “statuto morale” si vada ad impattare con i vari tasselli della societa’ secolarizzata. Una messa a fuoco, in definitiva, su alcune questioni centrali, per uno scontro/ricomposizione con la filosofia morale.

Affermiamo, da subito, che oggi, per colmare al meglio, il gap tra il piano ideale dei valori (dei Principi) e quello coriaceo della pratica quotidiana(dei Risultati) e’ “sufficiente” essere morali. Non moralisti.  (2)

Quindi utilizzazione del possibile, ricerca continua di rapporti intersoggettivi, costante educazione alla responsabilita’.

Non radicalizzazioni, assolute intransigenze, severi “distinguo”. Come diceva Roberspierre: “La caccia agli ipocriti e’ senza limiti”. Quindi un “ordinamento di preferenze”, un catalogo di valori personali, una scala di raffigurazioni alte, quali la sacralita’ della vita, la storia, le responsabilita’ verso le generazioni future.

Utilizzando la ragione, non le passioni schierate. Peraltro: “La nostra ragione non e’ un lume: e’ un lumicino. Ma non abbiamo altro per procedere nelle tenebre da cui siamo venuti alle tenebre verso le quali andiamo”. (3)

Tutto questo, non deve farci dimenticare l’idea, lo sforzo, la tensione, perche’ i nostri Valori coincidano,  tendenzialmente, con quelli degli altri. Quindi verso un’etica comune, plurale, frutto e sintesi di tante etiche individuali.

Ne deriva il dovere non solo di contrastare la neutralita’ come alternativa alla moralita’, ma anche il relativismo inteso come diritto/potere di svuotare progressivamente il reale dalla sua consistenza qualitativa.

Non sottaciamo, peraltro,che trattandosi di questioni “classiche”, le risposte alle stesse non sono univoche, ne’ consolatorie. Ma intrinsecamente aperte; ed e’ bene che sia cosi’.

Quindi, Altri, e autorevolmente, considerano il relativismo:

“Ingrediente fondamentale della nostra esistenza. Siamo relativisti perche’ soltanto il relativismo ci permette di vivere senza spargimenti di sangue, con persone che hanno convinzioni radicalmente diverse dalle nostre. Siamo relativisti perche’ la vita in societa’ richiede la politica, vale a dire un’arte in cui non possono esistere verita’ definitive”. (4)

 

Etica religiosa ed etica laica: un Tevere piu’ largo

 

     Abbiamo gia’ avuto occasione di trattare dell’eredita’ negativa, in punto di morale pubblica, lasciataci dalla Riforma.

Non abbiamo avuto ne’ Lutero, ne’ Locke a guidare la nostra nascita. E il piu’ diffuso sistema nazionale di valori, quello cattolico, ha vissuto con ostilita’ la costruzione dell’unita’ del Paese. L’asse fondativo di un certo “idem sentire” si rifa’ ai principi della civilta’ giudaico-cristiana. Innervatosi attraverso Dante, Manzoni, Rosmini, Gioberti, Croce.

Cio’ premesso, va detto che la comunita’ cristiana ha patteggiato con il fascismo. Si e’ riparata, per tutto il dopoguerra, dietro lo schermo della Democrazia Cristiana. Terminata la Democrazia Cristiana, i vertici della Chiesa si sono sempre piu’ occupati di problemi mondani e di appoggio al premier politico di turno (in specie: Berlusconi, dal quale, solo tardivamente, hanno preso le distanze).

In conclusione, i valori della Chiesa o sono stati delegati a una politica che li ha traditi, o sono stati vissuti in forma autoreferenziale. In interiore homine o intra ecclesiam. Cosi’, nonostante la tradizione che li voleva dominanti, essi non sono mai riusciti a diventare la vera coscienza della nazione.

Ovviamente non sono mancati orientamenti,  tentativi nobili e generosi, Personalita’, nell’ambito della Chiesa, che hanno propagato il Verbo, testimoniato il Vangelo, educate con “azioni ed opere” le coscienze, seminato utopie.

I primi nomi che mi vengono in mente: Giuseppe Dossetti, Don Primo Mazzolari, Don Riboldi, Don Milani. Figure notevoli rispettivamente sotto il profilo del riformismo, delle battaglie sociali, dell’aiuto ai poveri e agli immigrati,  della disobbedienza civile e della dedizione straordinaria ai ragazzi di Barbiana. (5)

Scriveva Sturzo: “In tutte le nostre azioni, solo il sentimento del dovere ci deve guidare; senza preoccuparci ne’ dei vantaggi politici, ne’ delle soddisfazioni personali, ne’ delle probabilita’ di riuscita”. (6)

Percio’ poi che riguarda l’etica laica, “laicita’” significa tolleranza, dubbio rivolto anche alle proprie certezze, capacita’ di credere fortemente in alcuni valori sapendo che ne esistono altri, pur essi rispettabili.

La laicita’ razionalizza, storicizza, favorisce lo sviluppo della scienza e delle tecniche. Appronta i suoi antidoti al razionalismo prescrittivo, all’immanentismo totalizzante, alla destabilizzazione del lassismo e del permissivismo.

Peraltro le due morali – quella religiosa e quella laica – debbono dialogare fra di loro. Al di fuori di ogni steccato, integralismo, fondamentalismo. Per riconoscere reciprocamente i loro ruoli e le loro dignita’. Per comprendere che la coscienza dell’incompiutezza, della finitezza, della debolezza, pur diversamente ispirate, accomunano le rispettive antropologie.

Per operare una sintesi (7) tra pluralismi e invariabilita’, tra mutamenti e realta’ garantite, tra azioni eticamente motivate e verita’ sistematizzate.

C’e’ quindi un enorme spazio etico nel quale credenti e non credenti,  possono viaggiare insieme. Viandanti del ragionevole, non autisti della ragione. Questo spazio comune e’ reso pssibile dall’accettazione della vita come mistero, dall’amore, dall’alito della creazione.

In definitiva: l’etica religiosa puo’ aprire i suoi valori ontologici al confronto storico, “come se Dio non ci fosse” (Salvemini); al contempo, l’etica laica puo’ tutelare l’individuale, verificando l’apporto dei singoli alla ricerca dell’universale, “come se Dio ci fosse” (Scoppola).

Un’etica della responsabilita’ personale nella citta’ terrena.

“Il cielo stellato sopra di me; la legge morale dentro di me” (Kant).

 

Societa’ ed etiche residuali

 

     L’etica pratica, per affermarsi, deve inserirsi nelle pieghe della societa’, confrontarsi con essa, riannodare i vincoli tra i cittadini e lo Stato, spezzare quelli tra corruzione e politica.

Ma qual e’ oggi l’ethos degli italiani, ossia l’insieme delle norme incorporate nelle convinzioni e nei comportamenti? Quale lo zeitglist (lo spirito dei tempi)? Quali le caratteristiche della societa’? Ed ancora: la crisi delle ideologie, ha portato anche alla liquidazione degli ideali?

Proviamo (per sommi capi) a connotare e scomporre, in alcune caselle, la societa’.

-         E’ una societa’ liquida: una societa’ contrassegnata dal declino dell’uomo pubblico, dalla fluidita’ dei legami sociali, da uno stress identitario, messo a dura prova dalla frammentarieta’ della vita (Bauman, 2006).

Si naviga “a vista”, sottotraccia, in preda alla risacca del pensiero debole. Il filosofo Vattimo nega, di conseguenza, l’obiettivo di salvare il potere di sintesi e l’autorita’ forte, solare della ragione.

“La razionalita’ deve al proprio interno, depotenziarsi, cedere terreno, non avere timore di indietreggiare verso la supposta zona d’ombra, non restare paralizzata dalla perdita del riferimento luminoso, unico e stabile, cartesiano”. (8)

-         E’ una societa’, dove un vitalismo, fine a se stesso, fa tramontare le idee, rattrappire la cultura. Non ci sono fatti, solo interpretazioni.

-           E’ una societa’ dell’”io”, individualizzata, non solidaristica (Bauman, 2008).

-           E’ una societa’, come gia’ reiteratamente evidenziato, priva di etica pubblica e di etica individuale. Con scarsa soggezione alla legge, scarso rispetto per gli altri, come fonti indipendenti, idonee a conferire autorita’ oggettiva e tassello soggettivo alle azioni e alle scelte morali.

-           E’ una societa’, infine, del rischio, preda dei fondamentalismi di vario tipo (Beck, 2003), che potrebbero implicare un diverso futuro geopolitico del pianeta. Un vero e proprio “Scontro di civilta’”. (9)

  Tutti questi tasselli (ed altri non indicati), portano all’attuale sistema democratico: stressato, scolorito, minato nei suoi fondamenti.

Uno snebbiamento orwelliano delle coscienze, un disprezzo per le regole, un diffuso sentimento egoistico.

Cartesianamente,  la res extensa (il proprio tornaconto), predomina sulla res cogitans (la morale, nell’ambito della ragione).

 

Furbi e onesti nell’ambito di una teoria dei valori

 

     Chi sono gli italiani? “Un popolo di camerieri e di zingari” (Goebbels), un’”espressione geografica” (Metternich), “un popolo che e’ inutile governare” (Mussolini), oppure quelli che hanno fatto dell’Italia la culla della civilta’, la madre delle arti e delle scienze, la maestra del diritto”? I sacerdoti del “particolare”, i servi piu’ che i cittadini, i deboli piu’ che i forti, i cultori dello stellone piu’ che i tenaci, o quelli degli imperativi etici (i Bobbio, i Gobetti, i De Gasperi), quelli che scrivevano le lettere dei condannati a morte, quelli che si sono battuti disperatamente e tragicamente in molte piu’ guerre che non i loro vicini?

  Sono domande senza risposte univoche. L’enigma che affascino’ Machiavelli continua a tormentarci: perche’ la nostra esistenza nazionale e’ stata cosi’ difficile? Perche’ non riusciamo a difenderci dalle disgrazie? Perche’ non ci assoggettammo a una sola legge che molto tardi, nominalmente, e con riluttanza?

 L’identita’ italiana non e’ risorgimentale (a parte la lingua, credo che l’unica cosa che ci unisce sia aver fatto 150 anni insieme), cosi’ come non e’ stata fascista, liberale o democristiana. L’identita’ italiana e’ in progress, e’ quella di una societa’ che cammina per conto proprio, di un sistema sociale che si e’ andato evolvendo fuori dai partiti e dai paradigmi.

Abbandoniamo allora gli interrogativi “epocali” (che rimangono tali), per constatare che, in Italia, mancando (da sempre) lo spirito civico, il senso di appartenenza, l’”idem sentire”, abbiamo avuto una serie di dualismi.  Geografici: nord-sud; economici: ricchi e poveri; etici, sociologici, antropologici: onesti e disonesti. Versione aggiornata,  quest’ultima, dell’apologo prezzoliniano: dei furbi e dei fessi.

“Essere fatto fesso e’ l’ignominia ultima, scriveva Barzini, in un amaro e scintillante ritratto degli italiani. Il fesso, incidentalmente, e’ anche colui che obbedisce alla legge, paga le tasse; crede a cio’ che legge nei giornali, mantiene le promesse e in genere compie il proprio dovere. Per fortuna vi sono ancora abbastanza fessi in Italia, soprattutto nel nord, che mantengono in vita il paese; senza di loro, probabilmente, tutto si fermerebbe; e cio’ nonostante ben pochi li ammirano e li lodano. Il loro numero va pertanto diminuendo. Nessuno sa che cosa accadra’ quando scompariranno del tutto”. (10)

  Anche gli onesti, oggi, come i fessi di Barzini, vanno assottigliandosi. Quel che solo ieri era considerato scandaloso, vergognoso, disonorante, e’ diventata la normalita’. E chi e’ cresciuto in altri tempi, con altre idee dello scandalo e del peccato, con altri esempi, si sente superato. Estraneo al modo di vivere in societa’.

A queste discrasie,  aggiungiamo la vistosa scissione e ingiustizia del sistema impositivo. Tra chi paga le imposte e chi le evade sistematicamente. Crolla, cosi’, il patto della res publica: tassazione e rappresentanza pubblica sono, infatti, indisgiungibili.

 Tutto questo ha a che fare con i valori, alla valenza che noi diamo degli stessi.

   Dopo averne parlato in precedenza, poniamoci ora un interrogativo di fondo: Qual e’ il valore dei valori? Gli stessi rivestono una cifra assoluta o relativa?

Per la De Monticelli i valori hanno una portata assoluta, immodificabile, oggettiva. (11)

Per Zagrebelscky, invece, soggettiva, relativa, non (pre)data. Originano dalla nostra liberta’ e responsabilita’. La metafisica dei valori apre al dogmatismo, quando la loro gestione finisca, come e’ possibile, nelle mani di autorita’ etiche: Stato, partito-chiesa, Chiesa. (12) Aggiunge Zagrebelsky:  “Cio’ che disturba qualcuno non e’ una mancanza, ma il fatto che le prospettive etiche sono plurime e non ce ne’ piu’ solo una predominante. Non di crisi si tratta, ma di molteplicita’”. (13)

 Premesso che il problema si presenta arduo da dirimere, ambedue le tesi, per noi, prestano il fianco a critiche.

La prima (“oggettivita’”) appare viziata da un’eccessiva dose di radicalismo, di fondamentalismo, di dogmatismo. La seconda (“soggettivita’”), da una sorta di tradimento della nostra sensibilita’ morale. Con una pericolosa deriva al relativismo culturale, al pensiero debole, al galleggiamento delle coscienze. In definitiva, allo scetticismo etico. La tolleranza si degrada ad indifferenza.

Una volta “isolate” le ali estreme dei due orientamenti (i dogmatici e i nichilisti), le due tesi possono coesistere. Con un nucleo forte dei valori (codici morali non negoziabili), nell’ambito di principi morali, cangianti, propri delle singole societa’ e delle stagioni.

Sotto questo secondo profilo, scriveva Blaise Pascal: “Nulla in base alla pura ragione e’ di per se’ giusto, tutto muta col tempo: non troveremo ne’ la verita’ ne’ il bene”.

 

Luoghi non piu’ frequentati dall’etica

 

    Per modernizzazione intendiamo “L’insieme dei processi di cambiamento su larga scala, mediante i quali una determinata societa’ tende ad acquisire le caratteristiche economiche, politiche, sociali e culturali considerate proprie della modernita’”. (14) Fenomeno quindi complesso, di ampio respiro e multidimensionale, che si verifica con tempi diversi in tutti i settori del sistema sociale.

La modernizzazione, nel suo incessante ma disordinato fluire, ha proceduto su piani verticali per analisi e disarticolazioni. Con due temi fondamentali: il tentativo dell’uomo di controllare la natura e di assoggettarla ai suoi bisogni; lo sforzo perenne di ampliare l’ambito delle scelte sociali e politiche.

Fa da sfondo, una societa’ aperta, in cui “il conflitto e il cambiamento sono la nostra liberta’; senza di essi, non puo’ esistere liberta’”. (15)

Conseguentemente, nel corso dei decenni, sono stati cancellati o depotenziati alcuni soggetti collettivi accomunati, per categorie stratificate, da interessi e stili di vita, da etiche pubbliche (in certo qual modo) omogenee. In una struttura, storicamente datata.

Alludiamo, tra gli altri, alla classe sociale, alla borghesia, alla famiglia.

 

Classe sociale

 

    La classe sociale e’ stata definita sinteticamente “una comunita’ di destino” o, da Weber, una “possibilita’ di vita”.

Il concetto di classe – schematicamente – si fonda su tre elementi:

-         entita’ collettive che, storicamente,, si presentano come gli artefici del divenire della societa’;

-           identita’ di interessi;

-           coscienza di classe laddove, da questa identita’, nasca una comunita’, un’associazione o un’organizzazione politica.

 Cio’ premesso, si puo’ parlare di classi sociali dopo le rivoluzioni democratico-borghesi dell’Ottocento e con l’avvento della societa’ capitalistica.

 Dal depauperamento dei proprietari fondiari e soprattutto dall’avvento della prima rivoluzione industriale, si e’ formata la classe operaia.

La fabbrica, gradualmente, e’ diventata allora una sorta di totem ideologico, un luogo centrale dello scontro di classe e il punto di partenza irrinunciabile per qualsiasi analisi complessiva della societa’ capitalistica.

“Se il capitale e’ la potenza economica della societa’ borghese che domina tutta – scriveva Tronti -, la classe operaia e’ l’unica potenza politica che puo’ dominare il capitale”. (16)

Questa visione appare oggi in buona parte superata, come appaiono superate le elaborazioni teoriche (sociologiche e politiche) fornite sul fenomento della “classe”.

Da parte di Marx e Engels, (17) con le sue molte varianti, che intravedevano una determinata struttura di classi antagonistiche. E da parte di Weber, (18) inglobante nella classe tutti coloro che sono posti nella medesima condizione di mercato.

Politicamente “il conflitto” ha perduto quindi gran parte della sua intensita’, anche se la liberta’ nella societa’, significa soprattutto il riconoscimento dell’apporto positivo della diversita’. Economicamente poi, i mercati sono quasi tutti saturi di beni. Sociologicamente, infine, al lavoro materiale si sostituisce quello immateriale; al posto fisso, le collaborazioni; alla professionalita’, la disponibilita’; alla catena di montaggio, una fabbrica robotizzata.

Una umanita’ piu’ agile, piu’ disponibile. Ma anche piu’ frustrata, piu’ cinica, senza lavoro. Quindi, con spiragli e non orizzonti di futuro. (19)

Un magma non codificabile, non decifrabile, non catalogabile. Una “classe non classe”, gia’ segnalata, in termini di cambiamento sociale, dagli studi pionieristici di Giddens, (20) di Sylos Labini, (21) di Massimo Paci (22) e Ralf Dahrendorf. (23)

Ai vecchi agenti dell’universale subentrano, definitivamente, cittadini che saranno giudicati, nella scala della vita, sempre piu’ per l’utilita’ e l’eticita’ della loro funzione civile e sociale, sempre meno per il loro status gerarchico.

 

Il tramonto della borghesia

 

     Anche la borghesia, intesa come classe globalmente detentrice dei mezzi di produzione, venuto pressoche’ ad esaurirsi lo status di riferimento, ha perduto la caratteristica distintiva. Cioe’, quella dimensione unitaria, aggregata da stili di vita, modelli di consumo, canoni etici, frutto dell’ambiente familiare e dell’istruzione ricevuta.

Classe egemone nei confronti del proletariato, inteso marxianamente come funzionale alla produzione capitalistica e “come esercito industriale di riserva”.

La sua eclissi e’ dovuta allo scadimento dei partiti, al capitalismo senza regole, allo smarrimento di taluni elementi equilibratori.

La borghesia veniva da lontano: dal tardo medioevo (mercatores), si era affermata, nel corso del secolo XVIII, quale “categoria spirituale”, connotata da due requisiti fondamentali: - il tenere fede ai contratti; - la parsimonia accostata al buon senso. (24)

Nel secolo XIX, riceveva un nuovo impulso. In Francia, con il periodo napoleonico e in Italia, intorno al 1861. allorche’ la nuova classe media formata da piccoli proprietari terrieri, si allea con l’elemento professionale e mercantile. E ascende verso la prosperita’ e il potere in virtu’ di una ideologia piena di fascino: patriottismo e liberalismo.

Uno degli storici contemporanei piu’ autorevoli, Hobswam, in un suo saggio, (25) nell’esaminare il sub periodo 1848-1875, parla di “trionfo della borghesia”, a seguito dell’affermarsi dell’economia capitalistica e dell’ideologia liberista.

Uno storico francese dell’Ottocento, Edgar Quinet, da parte sua, cosi’ scriveva: “La borghesia senza il popolo, e’ la testa senza il braccio. Il popolo senza la borghesia e’ la forza senza la luce”.

Poi il trend, gradualmente ma inesorabilmente, cambia direzione, pur in presenza dopo la Grande Depressione (anni ’30 XX secolo), di ingredienti positivi. Quali il progresso tecnico e scientifico, l’espansione economica, le riforme, la pace.

In Italia, i prodromi furono offerti da uno dei tanti voltafaccia di Mussolini.

A mano a mano che la sua alleanza tattica con la classe agiata diveniva meno indispensabile, il Capo del fascismo (utilizzando Achille Starace), orchestro’ una campagna sempre piu’ violenta contro la borghesia italiana. La quale, a suo dire, metteva avanti i propri interessi particolari rispetto alla vittoria nazionale.

La borghesia, che aveva raccolto incondizionati elogi e qualche critica, (26) appare, come detto in premessa, al tramonto. Se ne decreta la “fine” tout court, (27) o in termini problematici. (28)

 

La famiglia al crocevia tra valori e chiusure

 

     Anche la famiglia,  come istituzione sociale, metagiuridica (societa’ naturale: art.29 Cost.), centro relazionale, organizzazione economica, motore di valori diffusi, e’ da tempo in crisi.

Essa appare aver perso il suo centro di gravita’ (la figura del padre si e’ evaporata), stratificata, disordinata.

Le difficolta’ economiche, la diffusa e persistente disoccupazione giovanile, l’esosita’ degli alloggi, peraltro, motivano i giovani a restare piu’ a lungo a vivere con i genitori (il 45% tra i 25 e i 34 anni, Istat, 2012). Cambiano quindi i “sistemi valoriali” dei giovani, ossia le condizioni di vita, i principi e gli atteggiamenti che li orientano.

Al contempo, si e’ rotto il patto generazionale: ascensore sociale bloccato; mobilita’ discendente per i figli della classe media impiegatizia e della borghesia.

Cambia la struttura della famiglia che da compatta falange macedone, si sfrangia in una stupefacente varieta’ di forme. Famiglie in crisi, instabili; gruppi familiari coesi, lunghi, allargati; famiglie “ricostituite” che si sforzano di assemblare vecchie tessere in un nuovo mosaico.

La famiglia, indipendentemente dalle tipologie descritte, evidenzia comuni plurime opzioni: isolamento, autoreferenzialita’, ricorso alla protezione di parenti influenti e dell’aiuto della propria consorteria. Sguardo acuto nel distinguere al volo le possibilita’ favorevoli.

Caratteristiche che ricalcano, in buona sostanza, lo stereotipo della famiglia descritta da Leon Battista Alberti (29) e, successivamente, dall’antropologo americano Banfield. (30)

Quest’ultimo, individuava l’arrretratezza di una piccola comunita’ della Basilicata (Chiaromonte), in una sopravalutazione dei legami familiari a scapito degli interessi associativi. Banfield – che si ispira a Tocqueville nel prendere l’associazionismo a base di una societa’ moderna – conio’ il termine “familismo amorale” per bollare l’ethos della vita rurale del Mezzogiorno.

Questa etichetta ha avuto “fortuna”. Si e’ allargata nello spazio e nel tempo e connota, oggi, lo scarso senso civico degli italiani, in ispecie meridionali.

Concezione attualizzata, infine, in un saggio dello storico inglese Gisborg, carico di passione, su politica e potere nella quotidianita’. (31)

L’antitodo al familismo amorale va ricercato, per noi, nel dare fondamento sociale all’azione politica e alle istituzioni rappresentative oggi debole, l’una, e non funzionanti le altre.

Peraltro la famiglia ha anche una funzione positiva, in certo qual modo etica e solidaristica. L’”ubi consistam” del ruolo della famiglia riposa su articolazioni,  venature, fratture positive. Nella sua complessita’, l’ethos e’ sempre in movimento, fermentante e vivo anche quando sembra che i costumi si corrompano.

E cosi’ la famiglia e’ l’ammortizzatore delle insufficienze e contraddizioni della societa’.

Si fa ancora troppo poco per l’equita’ sociale e generazionale. A fronte di un’incidenza della spesa sociale complessiva sul pil in linea con quella europea, quello a sostegno dei disoccupati e delle famiglie, in particolare di quelle a rischio di poverta’, si colloca su livelli pari a meno della meta’ rispetto a quelli europei.

E cosi’, l’italiano risparmia perche’ non puo’ contare, negli istituti di previdenza, in caso di necessita’ momentanee (ospedali) o durature (pensioni); cerca varchi stante la farragginosita’ delle disposizioni; cerca aiuto economico, perche’ non c’e’ lavoro; cerca le nonne, per le giovani madri occupate, stante la carenza e l’esosita’ degli asili nido.

In sostanza, l’italiano cerca di mettere la famiglia al riparo da evenienze abitative, economiche e disagi di ogni genere. Cosi’ come si raddoppiano le ancore e gli ormeggi di una nave in porto quando precipita il barometro.

Ovviamente, cio’ non basta. Carenze legislative e mancanza di una svolta sociale condizionano il futuro e la tenuta della famiglia stessa.

Perche’ se la famiglia e’ il rifugio, accadimento, attenzione, calore umano, generatrice di esempi positivi e di energie per affrontare la vita, nella realta’ e’ condizionata da troppe fragilita’, incomprensioni, violenze.

E soprattutto da un deficit: quello del sostegno largamente incompiuto alla figura femminile che la rappresenta, in un tempo in cui esser donna (e mamma) e’ una missione.

 

L’etica senza l’etica

 

     Come l’acqua che, violata da un sasso, disegna una teoria di cerchi in un rimbalzo di tempo e di spazio, cosi’ l’Italia, offesa dalla crisi, e’ assediata da malattie concentriche. L’impotenza della politica rimanda alla poverta’ della cultura nazionale, la quale rimanda ai difetti dell’ideologia italiana, i quali rimandano all’oscillante carattere del popolo.

E, in questi cerchi malati, come si situa l’etica?

L’etica, oggi,  privata dei principali sostegni tradizionali (valori, autorita’, norme, responsabilita’), e’ declinata in termini minimalisti.

E’ un’etica senza. Senza certezze, senza ontologia, senza doveri, senza meta.

E’ a cielo aperto. Non e’ piu’ chiaro quali  possano essere per i cittadini i punti di riferimento della propria esistenza.

Eppure, mai come oggi, nei brecthiani “tempi bui”, abbiamo bisogno di un piu’ profondo senso della vita, di una coscienza morale, di un’etica condivisa.

-         Un’etica (“filosofia prima”), svincolata dal libero arbitrio, (dalla scelta e dalla decisione), cosi’ come dalla fondazione razionale o utilitaristica del valore.

Sotto quest’ultimo punto, negli anni ’30, nei suoi discorsi al caminetto, Roosewelt affermava:

“La gente di questo Paese e’ stata erroneamente incoraggiata a credere che si potesse aumentare indefinitivamente la produzione e che un mago avrebbe trovato un modo per trasformare la produzione in consumi e in profitti per i produttori. La felicita’ non viene unicamente dal possesso dei soldi ma dal piacere che viene dal raggiungimento di uno scopo”. (32)

-         Un’etica che esca dalla sua dimora, dal suo foro interno, per “sporgersi” sulla molteplicita’ degli atti della vita. Che abbia quindi “coraggio” (33) in un investimento di energie creative che rimescolino i confini di emozioni e ragione, corpo e mente, senza confonderli.

-           Un’etica, quindi, che parta dall’”io” e dia la mano al “noi”. In un giudizio morale che faccia da ponte tra l’altezza dei principi morali e la situazione concreta, intesa come strada da percorrere.

-           Un’etica, infine, che si emancipi (secondo l’insegnamento kantiano) dalla religione e “diventi una faccenda umana”. Un’etica laica, illuminista, solidaristica.

I passi ulteriori sono rappresentati da alcune precondizioni, da riscoprire o aggiornare e rivalutare.

L’empatia come relazione con l’altro, in termini di considerazione, di rispetto, di tolleranza, di perdono; (34) l’intransigenza ad ogni forma di illegalita’; il religioso rispetto della verita’ di fatto; l’egemonia della logica; il senso delle istituzioni; la riscoperta del merito in ogni segmento della societa’.

Questi valori,  prima di vivere nelle leggi, devono insediarsi permanentemente nei nostri cuori e nelle nostre menti. Per passare dalla “democrazia delle aspettative” alla “democrazia della responsabilità’”.

 


 

Note

 

Parte I

 

     1) A. Talia, La democrazia precaria, Tipografia Massarosa, 2011.

 

     2) J. Deigh, Etica, Apogeo, 2012, 8.

 

     3) R. De Monticelli, La questione morale, Cortina Ed., 2012, 151.

 

     4) Morale deriva da mos che significa costume; idem per etica che deriva da ethos. Cambiano solo le origini della lingua.

 

     5) G. Del Vecchio, Lezioni di filosofia del diritto, Milano, 1950, 206-207.

 

     6) L. Gallino, Dizionario di sociologia, Ad vocem, 70 ss.

 

     7) B. Croce, Etica e politica, Laterza, 1956, 234.

 

     8) F. Alberoni, Salvatore Veca, L’altruismo e la morale, Garzanti, 1988, 97 ss.

 

     9) La secolarizzazione dell’etica cristiana e’ il giusnaturalismo. Esso considera l’uomo, non la societa’, centrale per l’edificazione di una dottrina della morale e del diritto.

 

     10) N. Abbagnano, Il relativismo culturale in Quaderni di sociologia, XI, 1962.

 

     11) E. Durkheim,  Lezioni di sociologia, Milano, 1973.

 

     12) Gurritch, nel suo Trattato di sociologia, Milano, 1967, teorizza, alla luce di una individuata nozione di civilta’, otto tipologie di morali sottostanti ad altrettanti valori.

 

     13) R. De Monticelli, La questione morale, op. cit., 136.

 

     14) M. Walzer, Sulla tolleranza, Laterza, 1998, ricorda, citando il poeta inglese G. Donne che “nessun uomo e’ un’isola, che basta a se stessa”.

 

     15) R. Dworkin, I diritti presi sul serio, Bologna 1982, 14-15. G. Rawls, Giustizia come equita’, Milano, 2002, 47-49 (il termine “giustizia” risulta interrelato con i principi di giustificazione di istituzioni, pratiche sociali, scelte pubbliche); da diversa angolazione, C. M. Martini, Sulla giustizia, Mondadori, 1999.

 

     16) G. J. Deigh, Etica, op. cit., 63.

 

     17) J. Bentham, Frammenti all’introduzione dei principi della morale e della legislazione, Oxford, 1948. Per Bentham, il criterio di valutazione delle azioni e delle istituzioni – quello della piu’ grande felicita’ per il piu’ gran numero di persone – serviva a cambiare la societa’ inglese della sua epoca (inizio XIX secolo) in direzione della felicita’ degli uomini e della giustizia della societa’.

 

     18) J. S. Stuar Mill, Utilitarismo, Ed. it., Bologna, 1922.

 

     19 J. S. Mill, Saggio sulla liberta’, Milano, 1993.

 

     20) J. Rawls, Una teoria della giustizia, Feltrinelli, Milano,  1982.

 

     21) R. Nozick, Anarchia Stato e Utopia. I Fondamenti filosofici dello Stato minimo, Le Monnier, Firenze, 1981.

 

     22) R. Nozick, Anarchia, op. cit. 35.

 

     23) J. Habermas, Il pensiero post-metafisico, Laterza, 1991.

 

     24) J. Deigh, Etica, op. cit. 139 ss.

 

     25) U. Grozio, De iure belli et pacis, Firenze, 2002. Il saggio e’ dedicato a Luigi XIII che aveva coinvolto la Francia nella guerra dei Trent’anni.

 

     26) I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, Milano, 1994. Per un commento del pensiero kantiano, L. Geymonat, Storia del pensiero filosofico e scientifico, vol.III, 1971, 565 ss.

 

 

Parte II

 

     1) Per L. Robbins, l’economia e’ la “scienza che studia il comportamento umano quale relazione tra fini e mezzi scarsi suscettibili di usi alternativi”.

 

     2) Leon Battista Alberti, nei Libri della famiglia (1432-1434), primo importante manuale dell’etica economica dell’imprenditore, loda la “masserizia”, ma affida la cultura del buon imprenditore a tre elementi: animo, corpo e tempo.

 

     3) C. Augias, Il disagio della liberta’, Rizzoli, 212, 71; v., per un giudizio altrettanto negativo sulla Controriforma e sull’Inquisizione, G. Fragnito, Cinquecento italiano, Religione, cultura e potere dal Rinascimento alla Controriforma, Il Mulino, 2012. Per un commento del saggio: M Firpo, sul Domenicale del Sole 24 ore del 15 aprile 2012.

 

     4) M. Weber, l’Etica protestante e lo spirito del capitalismo, Sansoni, Firenze, 1965.

 

     5) F. Tonnies, Comunita’ e societa’, 1887.

 

     6) F. Venturi, Le origini dell’enciclopedia, Einaudi, 1946, 20.

 

     7) A. Smith, Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle Nazioni, Isedi, Milano, 1973. Il saggio costituisce un grande affresco della societa’ in quattro parti. Due portate a termine (etica ed economia); le altre due (teologia e diritto), incompiute.

 

     8) A. Smith, La teoria dei sentimenti morali, Isedi, Milano, 1973.

 

 

     9) A. Marschall, Principi di economia, 1875. Frase espunta da G. Ruffolo, Cuori e denari, 1999, 66.

 

     10) W. S. Jevons, Teoria dell’economia politica ed altri scritti economici, UTET, Torino, 1952, 36. Brano espunto da J. K. Galbraith, Storia della economia, Rizzoli, 1988, 143.

 

     11) A. Sen, Etica ed economia, Laterza, 1988, 98: “il distacco dell’economica dall’etica ha indebolito l’economia del benessere e il fondamento di gran parte dell’economia descrittiva e predittiva”.

 

     12) G. Tremonti, Uscita di sicurezza, Rizzoli, 2012 ha bollato la finanziarizzazione come “una sorta di bisca” e come “un nuovo fascismo”. Il giudizio,  largamente ex post, con soluzioni (improbabili) di ricette neo-roosweltiane, ci sembra rafforzare l’aforisma:  “l’economista e’ quella persona che ti dice due anni dopo quello che era meglio fare due anni prima”.

 

     13) “La morale e’ un detto, la politica e’ un fatto”: G. Leopardi, Zibaldone di pensieri, 311.

 

     14) Categoria concettualizzata nella cultura tedesca dell’Ottocento e della prima meta’ del Novecento (Hegel, Ranke, Ritter).

 

     15) N. Machiavelli, Il Principe, cap.XVI.

 

     16) G. Ruffolo, La qualita’ sociale, Laterza, 1985, 130.

 

     17) M. Weber, La politica come professione, in Lavoro intellettuale come professione, Torino, 1948, 142.

 

     18) Il pensiero di A. de Tocqueville, da La democrazia in America (1835) a l’Antico regime e la rivoluzione (1856), si fonda su tre coordinate: evitare la centralizzazione del potere; garantire la societa’ dalla tirannia della maggioranza; promuovere la  partecipazione politica.

 

     19) B. Croce, Etica e politica, op. cit., 165.

 

     20) E. da Rotterdam, L’educazione del principe cristiano (1515). “Le decisioni piu’ rappresentative sono spesso il frutto di una lungimirante follia”.

 

     21) I. Kant, Per la pace perpetua, Ed. Riun.,  1985.

 

     22) T. Hobbes, Leviatano, Milano, 2011.

 

     23) G. F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, paragr.337. L’idea hegeliana dello Stato come realizzazione del “razionale in se’ e per se’” e’ fatta propria dai grandi filosofi politici dell’eta’ moderna: da Hobbes a Rousseau, a Kant.

 

     24) N. Bobbio, Elogio della mitezza ed altri scritti morali, Milano, 1994, 67-108.

 

     25) F. Bacon: “I giudici devono essere leoni, ma leoni sotto il trono”.

 

     26) Lopez de Onate: “La certezza rappresenta la specifica eticita’ del diritto”.

 

     27) Santi-Romano, L’ordinamento giuridico, Sansoni, 1962, 48.

 

     28) J. Rawls, Una teoria della giustizia, op. cit., 76.

 

     29) H. D. Thoreau, La disobbedienza civile, Ed. Riun., 2012. Thoreau rifiuto’ di pagare le tasse per protesta contro la schiavitu’, e fu giustamente imprigionato. Piu’ tardi, la disobbedienza civile e’ stata l’arma privilegiata dalle battaglie condotte da leader come Gandhi e Martin Luther King. Oggi questa forma di rivolta e’ figlia dell’angoscia, della frustrazione, del rancore verso lo Stato, un Leviatano che soggioga, ma non riesce a infondere sicurezza. Da questa situazione: comportamenti “irrazionali” (Equitalia, totem incolpevole del disagio); talvolta estremi.

 

     30) I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, op. cit., 71; idem, Dottrina del Diritto, Torino, 1932, 20.

 

     31) H. Kelsen, La dottrina pura del diritto, Einaudi, 1952; idem, Lineamenti di una teoria generale dello Stato, Roma, 1933. Le teorie di Kelsen, per la loro radicalita’, sono state da una parte ampiamente criticate (v., F. Riccobono, Novecento filosofico scientifico, Marzorati, 1991, vol. IV, 99-111). Dall’altra, utilizzate da Carl Schmitt per porre la scienza giuridica tedesca al servizio del Fuhrer.

 

     32) L. Maino, Diritto ed etica, Riv. int. filos. dir., 1958, 151 ss.

 

     33) N. Machiavelli, De Principatibus, Roma, 1994, 264-265: “… bisogna dunque essere volpe a conoscere e lacci, e lione a sbigottire e lupi: coloro che stanno semplicemente in sul lione, non se ne intendono”.

 

     34) T. Accetto, Della dissimulazione onesta, 1641. Abbiamo anche la doppia onorabilita’. Quella degli imprenditori che si suicidano perche’ non in grado di onorare debiti e impegni; quella dei politici che, pur in presenza di conclamate rivelazioni di malaffare, non lasciano la poltrona.

 

 

 Parte III

 

     1) M. Marzano, Etica oggi, Erickson, 2011. Sono affrontati, nel saggio, i temi eticamente sensibili (fecondazione eterologa; “guerra giusta”; nuova morale sessuale; eutanasia). L’Italia, nella risoluzione degli stessi, appare per la Marzano, la piu’ restia a fare i conti con la modernita’.

 

     2) S. Rodota’, Elogio del moralismo, Laterza, 2011.

 

     3) N. Bobbio, Elogio della mitezza, op. cit., 199.

 

     4) S. Romano, B. Romano, La Chiesa allo sbando, Longanesi, 2012, 69; D. Antiseri, Relativismo,  nichilismo, individualismo, Rubbattino, 2005, individua nel relativismo, un pluralismo dei valori.

 

     5) In una lettera-testamento indirizzata ai suoi allievi, Don Milani scriveva: “Ho voluto piu’ bene a voi che a Dio, ma ho speranza che lui non stia attento a queste sottigliezze e abbia scritto tutto al suo conto”.

 

     6) L. Sturzo, Appello ai liberi e forti, Ried. a cura Corriere della Sera, 2011, 64.

 

     7) Cavour: “Libera Chiesa in libero Stato”; Locke: “Lo Stato non puo’ concedere alcun nuovo diritto alla Chiesa, ne’ viceversa la Chiesa allo Stato”; A. de Tocqueville: “Quando non esiste piu’ autorita’ in materia di religione, gli uomini si spaventano di fronte a questa indipendenza”. Croce,  infine, sosteneva che la religione di Gesu’ sia stata la piu’ grande rivoluzione dell’umanita’.

 

     8) G. Vattimo, Dialettica, differenze, pensiero debole in aa. vv., Il pensiero debole, Garzanti, 2001, 17.

 

     9) S. P. Huntington, Lo scontro delle civilta’, Garzanti, 2000.

 

     10) L. Barzini, Gli italiani, Mondadori, 1965, 223.

 

     11) R. De Monticelli, La questione morale, op. cit., 137.

 

     12) G. Zagrebelsky, La Repubblica, 20 novembre 2011.

 

     13) G. Zagrebelsky, La virtu’ del dubbio, Laterza, 2007, 101. Sulla stessa linea, tra gli altri, Spinoza nel suo Trattato sull’etica; B. Russel, in Un’etica per la politica, Laterza, 1994; G. Vattimo, Il pensiero debole, op. cit., 65: “Oggi io credo che la vera discriminante per stabilire quello che si puo’ fare non deve essere la verita’, ma la carita’. Tutto il resto, anche i vecchi dibattiti sulla verita’ rivelata e razionale, sono incrostazioni metafisiche, esistenzialistiche e autoritarie di cui la Chiesa farebbe bene a liberarsi alla svelta”.

 

     14) A. Martinelli, La modernizzazione, Laterza, 1998, 3.

 

     15) K. Popper, La societa’ aperta e i suoi nemici, Armando Ed., 1974, 278.

 

     16) M. Tronti, Operai e capitale, Torino, 1966, 36.

 

     17) K. Marx, Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850, Roma, 1962. Secondo Marx, come noto, la societa’ capitalista e’ una societa’ classista, con due categorie di persone: chi possiede la proprieta’ privata (capitale o borghesia) e chi (proletariato) ne e’ priva.

 

     18) M. Weber, Economia e societa’, Ed., Comunita’, Milano, 198.

 

     19) Per altrettanti spaccati, E. Nesi, Storia della mia gente, Bompiani, 2011, S. Avallone, Acciaio, Rizzoli, 2010; O. L. Stella, La spiaggiata, Fazi, 2011.

 

     20) A. Giddens, La struttura di classe nelle societa’ avanzate, Il Mulino, Bologna, 1976.

 

     21) S. Labini, Saggio sulle classi sociali, Laterza, 1974; idem, Le classi sociali negli anni ’80, Laterza, 1986.

 

     22) M. Paci, La struttura sociale italiana, Il Mulino, Bologna, 1982.

 

     23) R. Dahrendorf, Classi e conflitto di classe nella societa’ industriale, Laterza, 1970.

 

     24) W. Sombart, Il borghese e il capitalismo moderno, Longanesi, 1978.

 

      25) E. J. Hobsbawm, Il tempo della borghesia, Laterza, 1998.

 

     26) Mi limito a ricordare Croce (connota la borghesia come “mediocre”); Marx ed Engels (la borghesia “ha trasformato il medico, il giurista, il prete, il poeta, lo scienziato in suoi operai salariati”), Gramsci (la borghesia non ha “slancio sufficiente”).

 

     27) M. Gaggi, E. Narduzzi, La fine del ceto medio e la nascita della societa’ low cost, Einaudi, 2006.

 

     28) A. Bonomi, M. Cacciari, G. De Rita, Che fine ha fatto la borghesia, Einaudi, 2011.

 

     29) L. B. Alberti, I libri di famiglia, cit.

 

     30) E. C. Banfield, Le basi morali di una societa’ arretrata, Il Mulino, 1976.

 

     31) P. Ginsborg, Il tempo di cambiare, Einaudi, 2004.

 

     32) Citato da J. K. Galbraith, La cultura dell’appagamento, Rizzoli, 1993, 228.

Siamo peraltro contrari a quanti (S. Latouche, Breve trattato sulla decrescita serena, Torino, 2008) ritengono che il feticcio della crescita indefinita possa esorcizzarsi con la decrescita. Il rimedio sarebbe probabilmente peggiore del male. Il mondo dei desideri e delle possibilita’ concrete di miglioramento della vita e’ tutt’ora abbastanza ampio. L’importante e’ organizzare questi lavori e questi consumi con modalita’ che ne prescrivano la sostenibilita’.

Caveat, peraltro, gia’ segnalato, profeticamente, nel Rapporto sui limiti alla crescita, dal Club di Roma, nei primi anni 1970.

 

     33) L. Boella, Il coraggio dell’etica, Cortina Ed., 2012.

 

     34) Harendt, Le origini del totalitarismo, Comunita’, 1973, 168: “L’esperienza di fare e perdonare e’ unica, ossia sapere che chiunque agisce deve essere pronto a perdonare a che chiunque perdona in effetti agisce”.

   

 

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