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La globalizzazione e la necessita' di una riflessione sulle tradizionali scuole di pensiero politico-economico

di Paolo Razzuoli

con aggiunta di un saggio di Emanuele Emmanuele

Affermare che la grave crisi in cui si dibatte l'intero mondo occidentale non e' un evento contingente ma ha una natura profondamente strutturale, e' ormai affermazione nota e condivisa.
Che si tratti della conseguenza di un contesto profondamente nuovo e di qualcosa che non puo' essere affrontato con strumenti tradizionali, e' peraltro attestato dall'affanno con cui la classe politica, complessivamente intesa, cerca di affrontarla. Infatti, al di la' dei proclami, non si vedono all'orizzonte scelte di ampio respiro, capaci di far vedere qualche spiraglio di luce in fondo al tunnel.

Certo la situazione e' estremamente complessa, non trattandosi ora di qualche aggiustamento dei meccanismi economici, bensi' di un ripensamento complessivo dei modelli sin qui teorizzati e praticati, in vista di un modello di sviluppo profondamente ripensato, capace di creare condizioni di sviluppo nello scenario globalizzato, e compatibile con le nuove sfide del nostro tempo, prime fra tutte quella della compatibilita' ambientale e quella di una giusta distribuzione delle ricchezze.

Occorre prendere coscienza che e' giunto il momento per una seria e non stereotipata riflessione su molti aspetti (in alcuni casi oserei spingermi a dire molti dogmi), su cui abbiamo costruito le piu' importanti teorie dell'organizzazione sociale, dello sviluppo, in buona sostanza della politica.
Nella seconda parte del Novecento abbiamo probabilmente esagerato, non e' fuori luogo dire "estremizzato", troppi strumenti e troppe categorie di pensiero, portandoli ad un punto tale da produrre effetti completamente antitetici a quelli voluti e sperati.

Il problema ovviamente riguarda l'intero mondo occidentale;l'Italia non fa eccezione ma, anzi, qui da noi molte esasperazioni hanno trovato un fertilissimo terreno di coltura.

Solo alcuni esempi per chiarire.

Abbiamo esasperato il pensiero liberale, mediante un liberismo che ha portato a condizioni di totale subordinazione della politica alla finanza, che oggi fa il buono e cattivo tempo dell'umanita', e abbiamo creato un mercato senza regole, in un mondo nel quale le condizioni della produzione sono diversissime, quindi non comparabili. Una concorrenza sleale quindi, che sta penalizzando in modo particolare le fasce piu' deboli, sfruttate in modo disumano nelle economie emergenti, e comunque chiamate a pagare il prezzo piu' alto della crisi anche nei paesi occidentali.

Abbiamo estremizzato il "Welfare", trasformando le giuste esigenze di tutela in un assistenzialismo costoso e deresponsabilizzante.

Abbiamo estremizzato il ruolo del sindacato che, da strumento per la giusta tutela delle classi lavoratrici, si e' trasformato in strumenti ggestiti con logiche partitiche, piu' attenti alla difesa di posizioni di parte e/o di corporazioni di tesserati che non attenti alla creazione di condizioni di sviluppo atte a garantire il futuro per le nuove generazioni.

In Italia abbiamo esasperato, e soprattutto mal inteso, il ruolo dell'ampliamento della partecipazione e del controllo democratico, identificandolo in processi di entificazione che hanno creato carrozzoni costosi ed inefficienti, sostanzialmente idonei solo a garantire ruoli e stipendi a coloro che sono chiamati ad assumervi qualche ruolo.

In Italia abbiamo provocato un deragliamento del ruolo della politica, e soprattutto dei politici, trasformandoli in una casta privilegiata, sempre piu' distante dagli interessi reali del Paese, che sempre piu' sembra parlare a se stessa con un linguaggio criptico quindi incomprensibile ai piu', percepita piu' come una categoria intenta a difendere i propri privilegi che come necessario strumento per il governo della societa'.
Non c'e' pertanto da sorprendersi del distacco sempre piu' marcato fra politica e paese reale, che peraltro e' in atto ormai da vari lustri. La caduta della partecipazione al voto nelle recenti consultazioni amministrative, ed il prevalere di molti candidati piu' o meno smarcati dai partiti tradizionali e fortemente caratterizzati da un profilo civico ne sono una chiara cartina di tornasole.

Al di la' di ogni populismo, di destra o di sinistra che sia, l'attuale fase della nostra storia ha un fortissimo bisogno di politica, e di pensiero politico, certo intendendoli nel suo vero significato: quello cioe' di strumenti di elaborazione di un pensiero capace di sviluppare nuovi approdi teorici e di una prassi che sappia tradurle in scelte operative coerenti con le condizioni di vita sul pianeta nel XXI secolo.

Se e' vero che abbiamo assistito al fallimento del socialismo reale, abbiamo altresi' potuto sperimentare il fallimento di un mercato senza regole, delresto non in linea con una corretta e completa lettura dei "padri" del pensiero liberale quali ad esempio Smith, Ricardo, Mill e Keynes.
D'altro canto, se il socialismo reale e' sicuramente fallito, una rilettura di aspetti del pensiero marxiano possono oggi offrire utili direttrici per temperare gli aspetti piu' perversi della degenerazione liberista.

Vi e' poi la strada indicata dalla dottrina sociale della Chiesa: una sintesi a mio avviso luminosa, fra il rispetto delle liberta' economiche, fondamentali quali condizioni necessarie per lo sviluppo, ed esigenze di giustizia sociale e di valorizzazione della persona umana integralmente intesa, fine questo della politica e di un'economia ricondotta alla finalita' di occasione di crescita dell'umanita'.

Forse potra' sembrare blasfemo parlare di possibili punti di incontro fra scuole di pensiero profondamente antitetiche.
Forse "punti di incontro" potra' essere eccessivo: non mi pare pero' eccessivo pensare che da scuole di pensiero tanto diverse possano venire impulsi e stimoli capaci di aiutare ad individuare quegli strumenti nuovi, quindi a superare vecchie e dogmatiche categorie di pensiero, che oggi risultano deltutto inadeguate a fronteggiare il tempo che viviamo.

non si tratta di abbandonare i presupposti del liberalismo. Si tratta pero' di ripensarlo, di rielaborarlo alla luce della globalizzazione, alla luce del tramonto del mito del progresso senza fine, delle tematiche ambientali, della priorita' da assegnare alla questione sociale.

Concludo queste mie riflessioni, proponendo un contributo di Emanuele Emmanuele. Un testo di una decina di anni fa, ma che nulla ha perso della sua attualita'.

Il governo del futuro sarà lib-lab

di Emanuele Emmanuele

Traggo spunto da una riflessione, che riporta i contributi dei più attenti pensatori odierni, da me effettuata in uno scritto recente sulla riforma dello Stato sociale. A esso integralmente mi richiamo, ancorché, per evidenti ragioni di spazio, dovrò sintetizzarne il contenuto.

Lo Stato sociale è la fase conclusiva della lunga evoluzione dei compiti dello Stato nell'economia, che ha connotato il dibattito economico e politico degli ultimi duecento anni della storia europea. L'idea ricorrente alla fine del Settecento era, infatti, che l'operare spontaneo delle forze del mercato avrebbe consentito di realizzare un sistema economico ottimale per la collettività. Questa teoria, cara ai liberisti, prevedeva un ruolo estremamente marginale dell'intervento dello Stato, attribuendo all'individuo, con il suo operare, la realizzazione dell'interesse della collettività. Tale impostazione si scontrò, in passato, con la crescente presa di coscienza delle masse che, impegnate, da protagoniste, nella trasformazione dell'economia da agraria a industriale, hanno reclamato, oltre che la partecipazione ai processi decisionali della politica, anche la tutela da parte dello Stato di tutte quelle aree dell'esistenza che la libera evoluzione dell'economia non salvaguardava.

Bisogna, a onor del vero, ricordare che nell'applicazione politica dell'idea liberale vi fu, in Germania e Inghilterra, e pure in Italia per opera di Giolitti, Sonnino e Dorso, anche attenzione alla questione sociale, così come nel pensiero teorico della scuola liberale, si ritenne che la teoria del mercato andasse completata con l'uguaglianza delle opportunità, di fatto assegnando allo Stato compiti più ampi di quelli previsti dalla tradizione classica. Barone, Kaldor, Hicks introdussero, infatti, il principio di indennizzo, in cui il provvedimento che avvantaggiava un singolo doveva prevedere un pagamento in favore della collettività. Vennero introdotti, con Pigou, i criteri della giustizia distributiva e si ipotizzò che tutti gli interventi di politica economica dovessero tendere alla massimizzazione del benessere sociale. E, infine, con uno tra i più grandi pensatori liberali, Keynes, si raggiunse la massima espressione dell'intervento statale per arrivare alla piena occupazione attraverso la spinta degli investimenti pubblici.

Tuttavia, nella maggior parte dei casi l'ideologia liberista in economia e quella liberale in politica, in una parola il liberalismo non è stato, nella sua attuazione concreta, sostenitore dello Stato sociale e delle dottrine sociali e, nell'immaginario collettivo, l'idea liberale nel passato si è identificata con il pareggio del bilancio e con la negazione dell'intervento statale in economia.
Il liberalismo nasce infatti, come illustri pensatori ricordano, da un duplice filone ideologico: l'illuminismo (esaltatore della ragione umana e della sua autonomia) e il positivismo (riduttore della conoscenza a ciò che è sperimentabile). Il fulcro del liberalismo è la rivendicazione della libertà di pensiero, di coscienza, di parola, di stampa, di attività economica e politica. Predicava la riduzione dell'ambito di intervento dello Stato, a tutto vantaggio della libertà e dell'iniziativa individuali. In rapporto alla religione, il liberalismo rappresentava l'indifferentismo verso le cosiddette verità astratte, considerate tutte alla medesima stregua. La religione (come l'etica) doveva restare nell'ambito privato: un fatto di coscienza personale, non proponibile all'esterno.

Al di là delle varie tendenze, anche profondamente diverse, che hanno contraddistinto la storia del liberalismo e i suoi sviluppi nei singoli Paesi e nei molteplici settori della vita (economia, politica, religione), vi è un comune fondamento antropologico: l'individualismo, la massima esaltazione dell'individuo e della sua ragione; l'individuo considerato sorgente unica di conoscenza e regola d'azione (razionalismo), della sua bontà naturale (naturalismo) e, quindi, della sua libertà.
Agnostico in campo religioso, il liberalismo ha creato una sorta di religione del laicismo, spesso altrettanto intollerante delle religioni tradizionali.
All'inizio del Diciannovesimo secolo, avvenuta la scissione, attraverso momenti e movimenti diversi (protestantesimo, soggettivismo, positivismo), tra la morale e l'attività economica, cardine di quest'ultima diventa il profitto, cioè il guadagno monetario tratto dalla maggiore altezza dei prezzi nei confronti dei costi.
Nelle società moderne che hanno messo in pratica l'ideologia liberale, non sono certo mancati elementi positivi: la valorizzazione dell'uomo e della sua capacità d'intrapresa; la lotta al privilegio di nascita e di posizione sociale. Ma è prevalso comunque e sempre l'individualismo, per il quale il debole resta tale di fronte al più forte, e anche se teoricamente si affermano la libertà e uguaglianza, vengono mantenute le sperequazioni e le differenze. La specificità poi del liberalismo, risiede nel costante tentativo di risolvere il problema politico attraverso la soluzione del problema economico. Si afferma, infatti, che non può esservi libertà politica senza libertà economica. In questo contesto, la concezione dello Stato assume una particolare fisionomia. Il potere e lo Stato vengono considerati un «male necessario» per assicurare un qualche ordine a contraltare della libertà individuale.

Con queste connotazioni, il liberalismo è entrato in crisi ogni volta che ha raggiunto il potere poiché non è riuscito a realizzare pienamente il progetto liberale, risultando altresì incapace di coniugare l'ideale della libertà individuale con le nuove aspettative dei ceti popolari. Di fronte alla sfida, poi, dei movimenti fascista e comunista, che avrebbero dato vita alle due diverse forme del totalitarismo, il liberalismo si collocò, con le dovute eccezioni (Gobetti), a lungo sul versante conservatore: politicamente associato, in posizioni subalterne, alle ideologie nazionalistiche e reazionarie che sovente delegarono la gestione burocratica dell'amministrazione proprio a esponenti «liberali».

Questa è stata, secondo la mia valutazione, in estrema sintesi, la vicenda storica dell'ideologia liberale dalle origini ai giorni odierni.
Oggi, infine, dopo non aver mostrato sensibilità al divenire del sociale nella prima fase della rivoluzione industriale né durante il lungo cammino della rivoluzione sociale del Novecento, l'idea liberale, in parte rilevante e ancora una volta, con le dovute lodevoli eccezioni, si mostra non attenta ai problemi della socialità e non avverte gli aspetti negativi presenti in questa seconda grande rivoluzione che è rappresentata dalla telematica e dalla globalizzazione. Il mercato - unico dio del moderno liberalismo - viene visto come un esempio di ordine le cui leggi si formano autonomamente rispetto alle istituzioni politiche, con cui possono anche entrare in contrasto. La supremazia del mercato sullo Stato (ma anche sulla società e sull'etica) comporta la convinzione che il dio-mercato non possa essere messo in discussione e che su di esso non si possa né si debba intervenire. Tutto il pensiero liberale è di nuovo in fermento, così come lo fu all'origine della prima grande rivoluzione industriale, di fronte alle nuove sfide della società globalizzata.

Se i liberali classici difendono le funzioni importanti dello Stato (Von Mises, Von Hayek e in Italia Ricossa, Antiseri, Infantino), i «Chicago Boys» (Friedman) si dichiarano atlantisti filo-americani, e infine i pensatori liberal (Mill, Hobhouse, Rawls) tentano di coniugare mercato e Stato, dalla galassia liberale si muovono movimenti e idee di impronta assolutamente iper-individualista: sono i sostenitori dello «Stato minimo» (Robert Nozick, James Buchanan, Ayn Rand); i «semi anarchici» (Pascal Salin e Raimondo Cubeddu); i fautori della «common law» anglosassone (Leoni e Bruce Benson) e infine, i teorici del rifiuto dello Stato (Rothbard, Randy Barnett, Roy Childs), dove non si esita a prefigurare un mondo senza confini dove ognuno possa rivolgersi a tribunali o polizie private, con l'idea che sarà il mercato a stabilire quali saranno le istituzioni migliori e le più efficienti e da ultimo i neo-Rothbardiani (Hans Herman Hoffe, Walter Bloch, Ralf Raico) che predicano la fine dello Stato. In estrema sintesi, al di là di queste classificazioni, dal tronco del liberalismo si sono sviluppati tre filoni di pensiero: neoliberale, libertario, liberal.

Il movimento neoliberale ripropone la concezione classica delle origini, che assegna allo Stato precisi limitati compiti in sintonia con la tradizione liberale e che esalta la libertà individuale pur nel rispetto formale dello Stato. Nel movimento libertario (libertarianism, che in italiano si traduce con liberismo radicale) si indicano quegli orientamenti che contestano in maniera rigorosa e intransigente la coercizione statale e il carattere autoritario degli ordinamenti politici moderni, perché basati - sostengono - sulla tassazione e sulla regolamentazione del vivere civile, dal che consegue la difesa a oltranza del mercato;
il rigetto di ogni forma di interventismo statale;
il «no» a ogni proibizionismo che limiti la libertà di usare alcool o droga;
di pratiche sessuali o abortiste;
di ricorrere all'eutanasia, ecc...

A differenza di altre dottrine liberali, il liberismo radicale non attribuisce alcun peso al problema delle conseguenze (morali, sociali o giuridiche) di queste teorie né alle conseguenze (involontarie) della attività di scambio tra individui per il soddisfacimento dei loro bisogni e per la piena espansione delle rispettive libertà. Il mercato, in sostanza, deve essere assolutamente privo di controlli, limitazioni o coercizioni diversi dalla sua stessa autoregolamentazione. Siamo evidentemente di fronte a una teorizzazione dell'individualismo integrale. Lo Stato, in tale prospettiva, è esclusivamente uno strumento di compulsione, utilizzato da chi detiene il potere per imporre arbitrariamente la propria volontà.

Infine il movimento liberal rappresenta una concezione corretta del rapporto tra Stato e mercato, ma sicuramente non è maggioritario nella complessa galassia del pensiero liberale odierno. Se negli Stati Uniti liberalism è diventato sinonimo di democratic, cioè riferimento teorico alla tradizione democratica, in Europa è passato a indicare posizioni di tipo socialdemocratico. Che si tratti o meno di un colossale equivoco, è indubbio che le scelte compiute negli Usa per superare la crisi del 1929 (New Deal) sono state più di tipo democratico-interventista che di sicura ortodossia liberale. Ecco perché il termine liberal significa ormai qualcosa che discende direttamente da questa tradizione democratica (comprensiva delle ragioni dello statalismo, con molti punti di contatto col socialismo democratico europeo) e che, con il liberalismo classico, conserva soltanto tenui legami di parentela. Gli esponenti di spicco del filone liberal (Mill, Hobhouse, Rawls) ritengono che i problemi delle persistenti diseguaglianze, che resistono e spesso si aggravano con il dominio dell'economia di mercato, possano essere affrontati vittoriosamente con un intervento dello Stato nella fase di distribuzione della ricchezza. Per i liberals, insomma, il mercato è il migliore strumento per la produzione dei beni, ma è un pessimo distributore di redditi. Di qui, la necessità di interventi pubblici per rimuovere le diseguaglianze sociali in modo diretto (leva fiscale) o indiretto (leggi di tipo sociale). Il filone liberal trova un autorevole riferimento teorico nell'opera di Hobhouse Liberalism (1911), da cui prende vita il cosiddetto liberalismo sociale e si consolida il tentativo di portare a sintesi liberalismo, democrazia e socialismo.
Si tratta di una ricerca mossa da un nobile scopo: rimuovere dall'esterno l'ineliminabile «immoralità» del mercato. Ecco il perché del tentativo di fondere il liberalismo con la teoria della giustizia sociale di impronta socialista e con la concezione hegeliana dello Stato, realizzando il liberalsocialismo (o socialismo liberale). Quanto possano nella prassi politica queste idee prevalere su quelle degli altri filoni del pensiero liberale è tutto da vedere. Potrebbe ripetersi la storia antica dove, nonostante il contributo di Stuart Mill, Kaldor, Hicks, Pigou e di altri, nella prassi politica prevalse il conservatorismo liberale e non il liberalismo sociale. Tuttavia questo pensiero, che oggi si presenta all'insegna del nuovismo, ha origini sicuramente più antiche e che ci appartengono. Sono le idee del movimento riformista (Turati, Rosselli, Saragat) e del liberismo sociale (Villabruna, Calamandrei), che cercarono di conciliare libertà politica e solidarietà e che attribuirono allo Stato sempre maggiori compiti per finalità sociali e assistenziali, nel rispetto del mercato in antitesi alla visione marxista della eliminazione dello Stato.

È a questa concezione liberale e sociale che deve guardare con capacità di sintesi innovativa il moderno pensiero liberale e riformista. In un'era segnata da eventi straordinari e da straordinari progressi, si affaccia minacciosa, anche se ricca di opportunità, la sfida di un futuro rispetto al quale gli stessi istituti di democrazia non sembrano sufficientemente attrezzati per assicurare insieme crescita equilibrata e giustizia sociale. È questa forse la principale questione sociale del nostro tempo. È una diseguaglianza che sta inesorabilmente aumentando di giorno in giorno e marca la differenza tra cittadino e cittadino, tra Stato e Stato.

Nel nostro Paese, poi, la questione sociale assume il travagliato profilo storico della Questione Meridionale, il Sud d'Italia come il Sud del mondo; in effetti un Terzo Mondo domestico che per decenni ha assorbito risorse pubbliche straordinarie senza raggiungere una via autonoma allo sviluppo. Ed è, quindi, da questa concezione che si riescono a comprendere le ragioni del mercato, che è poi in sostanza l'essenza di quella concezione lib-lab che potrebbe dare una risposta agli interrogativi dei limiti o della fine di entrambe le due grandi correnti di pensiero ottocentesche, liberismo e socialdemocrazia. Questa concezione mostra una grande sensibilità sociale per i deboli, i poveri e le vittime del progresso e prende atto che l'economia capitalistica, se opportunamente guidata, può generare più ricchezza e, quindi, più benessere, per la grande maggioranza dei cittadini.

Oggi vi è invece il pericolo che una concezione ultraliberale, sostenuta dalle teorie precedentemente indicate, stanca dei vincoli e delle pastoie di uno Stato sempre più invadente, spinga anche i ceti medi e popolari ad accorrere verso soluzioni antistataliste che possano anche, al limite, privarli delle loro garanzie sociali. Ed è ciò che sta accadendo in America e in molti Paesi europei e che connota le idee di alcune forze dello schieramento moderato nel nostro Paese. A questo pericolo bisogna saper contrapporre la forza etica del pensiero riformista, che coniugava il principio della giustizia sociale, corollario indispensabile della libertà. Ma giustizia e libertà non volevano dire socialismo, cioè superamento del liberalismo, bensì un liberalismo più allargato, radicato nella coscienza comune, democratico e solidarista. È indispensabile che ci si ritrovi su questa strada poiché è ormai evidente che né il socialismo statalista può realizzare la ricchezza, né il liberismo classico può diffonderla. Non è detto, invero, che un socialismo liberale possa garantirla, come dimostrano le critiche al modello tedesco di economia sociale di mercato o alla non realizzata terza via di Blair, che non riesce ad assicurare un accesso di massa al mercato. Ma, a onta di queste critiche che vengono fatte a tale possibilità, non vedo una concreta alternativa.
Si tratta di temperare le asprezze del mercato e concepire l'intervento dello Stato non finalizzato a ridurre la socialità, ma a trasformare l'assistenzialismo in possibilità concrete di investimenti migliorativi attraverso la scuola e la formazione di potenzialità per la crescita sociale. Bisogna modificare tutta la rete di protezione ora esistente nello Stato sociale costituendo una nuova linea di difesa nei confronti delle disuguaglianze che faccia crescere contestualmente la qualità partecipativa dei cittadini al fenomeno di sviluppo del mercato. Bisogna rinforzare le concezioni della solidarietà, non con ricette assistenzialistiche, ma con quelle partecipative al grande processo di evoluzione della ricchezza e con i nuovi strumenti che sono rappresentati dalla sussidiarietà e dalla innovazione, dalla socialità dal basso, dal mondo del volontariato, del no-profit e dell'impresa sociale. Questo è il vero nuovo obiettivo da raggiungere, questo è il vero nuovo tentativo di ricreare quel modello lib-lab che quando ha potuto ha dato buona prova di sé.

Noi abbiamo una stagione difficilissima da affrontare in economia e nella riforma delle istituzioni, abbiamo una stagione difficilissima nell'azione da svolgere in Europa. Per farlo bisogna accettare in partenza alcuni punti chiave, e cioè la capacità di abbandonare le diverse concezioni individuali delle forze che vanno a costituire questa area di rinnovamento, ricominciando a pensare come se le ideologie da cui proveniamo siano da valutare come fatto storico ma non più contingente. Ma dobbiamo avere forte e preciso un convincimento, che è il senso dell'appartenenza, l'individuazione del fronte su cui siamo schierati. Io personalmente starò sempre in tutta la mia vita, come lo sono stato fino a ora, dalla parte di chi ha bisogno, dalla parte di chi non ha lavoro, dalla parte di chi contribuisce con il suo lavoro alla crescita del Paese, nell'assoluto rispetto di coloro che intraprendono e che creano seriamente posti di lavoro e fonti di ricchezza, e non certo dei capitalisti senza capitali o peggio di coloro che sono imprenditori a parole, ma nella sostanza sono aggrappati alla greppia dello Stato o protagonisti anche di incomprensibili, data la loro posizione, accadimenti di corruzione, speculatori piuttosto che imprenditori. È una scelta fatta in tempi giovanili e non intendo modificarla negli anni che verranno. Mi auguro che così facendo la stagione che verranno a vivere i miei figli sia migliore di quella che ho vissuto io.

Lucca, 27 maggio 2012

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