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Nel commento ai recenti provvedimenti del Governo Monti, che ho diffuso qualche giorno fa, una particolare sottolineatura ho riservato a quanto previsto per le province: una scelta che - a mio avviso - va nella direzione giusta, sia dal punto di vista dell'architettura istituzionale, sia per i risparmi strutturali ad essa conseguenti.
Giacche' ho una certa conoscenza del mondo della politica, non mi e' sfuggita la dirompente esplosivita' della indicazione e, sapendo che sarebbe partita una bipartisan sassaiola turgida della consueta demagogia e ipocrisia ho scritto testualmente: "E' una questione su cui penso che qualcuno cerchera' di erigere le barricate per sbarrare la strada alla scelta del Governo."

Sin troppo facile profezia. La sassaiola e' ovviamente partita immediatamente, ancor prima che il decreto venisse alla luce.
Infatti, nel testo definitivo, un comma rinvia l'attuazione del nuovo ordinamento, affidandone i tempi ad una legge che dovra' essere votata dal Parlamento.
Insomma, ancora una volta, i partiti potranno bloccare una riforma che tutti dicono di volere e che tutti ostacolano: un esempio della doppiezza e dell'ipocrisia della politica italiana.

Sono proprio gli aspetti degenerativi della politica, uno dei piu' formidabili ostacoli per il superamento della crisi in cui si dibatte la societa' italiana: crisi non solo economica, ma di smarrimento complessivo. Aspetti degenerativi che vanno ben individuati e capiti, proprio per poterli espungere dalla politica sana che rimane invece una delle forme piu' alte in cui si esprime il senso civico dell'uomo.
E' partendo da tale consapevolezza che le forze sane del Paese, che fortunatamente ancora esistono, potranno organizzare il loro impegno attorno a cui cercare di inaugurare una stagione di rinascita della nazione.
Solo in tale prospettiva potranno essere sopportati i pesanti sacrifici ora richiesti agli italiani: sacrifici che se non legati ad un generale impegno per la rimozione degli elementi strutturali della crisi potranno forse solo ritardarne gli effetti dirompenti.

Paolo Razzuoli

Un comma rinvia i tagli alle Province

di Sergio Rizzo

I tempi saranno definiti con una legge. L'incognita del via libera dei partiti

Mario Monti ha imparato a proprie spese che cosa significhi toccare le Province. Tutti, a destra come a sinistra, sentenziano che sono inutili. Tutti, a sinistra come a destra, dicono che bisogna abolirle. Guai, però, soltanto a sfiorarle. Subito parte la sassaiola. Che mai è stata così violenta: questa volta avevano capito che si stava facendo sul serio, anche per l'urgenza di mandare un segnale chiaro e inequivocabile a Francoforte. Ricordate la famosa lettera della Banca centrale europea firmata congiuntamente dal presidente uscente Jean-Claude Trichet e dal suo successore Mario Draghi, pubblicata lo scorso 29 settembre dal Corriere ? Meno esplicito, il suggerimento che conteneva non poteva essere: «C'è l'esigenza di un forte impegno ad abolire o a fondere alcuni strati amministrativi intermedi (come le Province)». E Monti l'ha preso talmente sul serio da aver trovato un grimaldello micidiale per assestare un colpo mortale a quegli enti, senza dover ricorrere a una faticosa modifica costituzionale. Ha semplicemente svuotato le Province dei loro scarsi poteri, disponendo per decreto la conseguente abolizione delle giunte e la drastica riduzione dei consigli provinciali.

Difficile dire se avesse messo nel conto la pioggia di pietre che gli sono arrivate addosso da tutte le parti. Destra e sinistra ancora una volta davvero in sintonia. «Noi ce ne andiamo dall'Unione delle Province italiane», ha ringhiato il presidente della Provincia di Latina, Armando Cusani, pidiellino. «Tagliamo tutto quello che dobbiamo tagliare, ma non a casaccio», ha messo le mani avanti il leader della sinistra Nichi Vendola. Mentre dal segretario di Rifondazione comunista, Paolo Ferrero, arrivava ai rivoltosi un messaggio di tangibile solidarietà: «Avete tutto il nostro sostegno. Vi appoggiamo perché la vostra è una battaglia di democrazia». Intanto il presidente della Conferenza delle Regioni, il democratico Vasco Errani, ammoniva: «Attenti. Ci possono essere costi più alti. Il personale, per esempio, dove va a finire?». E il deputato del Pd Enrico Gasbarra, ex presidente della Provincia di Roma, tagliava corto: «Cancellare gli eletti dal popolo senza che abbiano terminato il loro mandato la trovo una scelta demagogica e grave». Ma a Monti nemmeno il suo successore Nicola Zingaretti le mandava a dire: «Siamo quelli che di più si sono impegnati per ridurre o eliminare la spesa pubblica. Chi oggi guida le Province lo fa perché è stato votato da milioni di italiani». Senza contare poi altri aspetti non marginali del problema, come dimostra il caso della Provincia di Bologna, attualmente impegnata in un investimento di oltre 30 milioni per costruire una nuova sede. A quel punto assolutamente inutile.

Nel Pd, insomma, il malumore cresceva fino a prendere la forma di una protesta semiufficiale contro la decadenza automatica e per decreto delle giunte e dei consiglieri. Idem capitava nel Pdl, dove volavano anche parole grosse all'indirizzo della decisione di Monti. «Gettano fumo negli occhi e fanno demagogia», ha commentato il presidente della Provincia di Milano Guido Podestà, berlusconiano di ferro. Né ha usato particolari diplomazie il presidente dell'Unione Province, Giuseppe Castiglione, pidiellino e presidente della Provincia di Catania: il quale ha minacciato il ricorso alla Corte costituzionale, anche dopo la notizia che il governo ci aveva ripensato.

All'articolo 23 della versione definitiva del decreto «salva Italia» è infatti spuntato a sorpresa un comma con il quale si stabilisce che sarà una «legge dello Stato» a dire entro quale termine gli organi delle Province decadranno. Se sia stato il Quirinale a imporre questa modifica, preoccupato per le possibili proteste alla Consulta, oppure se sia il risultato delle pressioni inaudite che si sono scatenate, lo sapremo presto. Vero è che difficilmente, se fosse scoppiato un contenzioso davanti alla Corte costituzionale, la Corte suprema avrebbe potuto dare man forte al governo bocciando i ricorsi di consiglieri eletti per cinque anni e dimissionati per decreto. La conseguenza è che nel frattempo in 4.520 hanno tirato un bel respiro di sollievo. Tanti sono consiglieri e assessori che potenzialmente avrebbero rischiato di perdere la poltrona, come diceva la versione di partenza della norma, il 30 novembre 2012. E che adesso, invece, potranno sperare di arrivare almeno fino alla fine del loro mandato. Il che non è un dettaglio. La maggior parte delle giunte provinciali in carica ha ancora tre anni e mezzo di vita.

Per allora potrà succedere di tutto. Questo è il vero rischio: il governo di Mario Monti non durerà oltre la primavera del 2013. E possiamo già scommettere che assisteremo a una estenuante melina per non far vedere la luce a quella legge prima di allora. L'importante è che questo imprevisto, che però non era nemmeno troppo complicato prevedere, non diventi la pietra tombale dell'operazione compromettendo la vera sostanza del provvedimento, cioè il trasferimento delle competenze provinciali a Comuni e Regioni entro il prossimo 30 aprile. Saranno quelli, e non i tagli delle poltrone (che la relazione tecnica alla manovra cifra in 65 milioni di euro), a dare i risparmi in prospettiva più consistenti. Meno passaggi intermedi, meno burocrazia, meno veti da dover rimuovere ogni volta che c'è da prendere una decisione. Vi pare poco?

(dal Corriere della Sera - 8 dicembre 2011)

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