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Moneta ammalata. Democrazia debole

di Angelo Panebianco

L'evoluzione della crisi dell'euro dipende solo dalla buona o dalla cattiva volontà di questo o di quello? Naturalmente, le scelte contano. Sappiamo che nell'aggravamento della crisi hanno pesato certi grossolani errori di giudizio commessi dalla Merkel e da Sarkozy. E certo appare anche inspiegabile la lentezza con cui il governo Monti si sta oggi muovendo in questa crisi. Ma è solo colpa» di Angela Merkel, come molti dicono, se non si sono ancora fatti i passi necessari perché la Bce, acquisendo le stesse prerogative della Fed e di altre Banche centrali (statali), sia messa in grado di garantire i debiti sovrani ponendo così fine alla crisi?

La teoria della buona e della cattiva volontà testimonia una comprovata capacità degli esseri umani: sanno spesso costruire istituzioni talmente complesse da non essere poi in grado di comprenderle.
Proviamo a considerare una teoria diversa. Una spiegazione alternativa può insistere sul fatto che la crisi sia anche figlia di un vizio d'origine delle istituzioni europee: il loro rapporto schizofrenico e contraddittorio con la democrazia.
Non mi sto riferendo alla trita (e mal posta) questione del «deficit democratico" delle istituzioni europee. Mi riferisco al fatto che si pretende che i Paesi membri dell'Unione siano democrazie, ma si pretende anche che se ne dimentichino tutte le volte che sono in gioco questioni di interesse europeo. Si pensi, ad esempio, alla prostrazione che suscitò in Europa la sentenza con cui la Corte costituzionale tedesca nel 2009 pose nella Legge fondamentale, la Costituzione, e nel principio democratico che essa tutela, il limite alla ingerenza del processo di integrazione europea. Al disprezzo con cui vennero pubblicamente giudicati da diversi capi di governo i poveri elettori irlandesi, rei, nel 2008, di avere votato «no» nel (primo) referendum di ratifica del Trattato di Lisbona. Alla indignazione per il comportamento degli elettori francesi che bocciarono il «trattato costituzionale" nel 2005. All'insofferenza che hanno sempre suscitato i britannici per il fatto che la loro costituzione (consuetudinaria e, quindi, più cogente di una costituzione scritta) non riconosce altra sovranità se non quella del Parlamento britannico.

All'origine c'è una ambiguità che accompagna da sempre il processo di integrazione. Per un lunghissimo periodo il suo successo fu in larga misura dovuto alla vaghezza degli scopi, della meta finale. In un giorno lontano, in un futuro indefinito, forse, il viaggio sarebbe terminato con l'unificazione politica, ma questo era un tema da lasciare ai sognatori: nel presente, contavano solo i vantaggi economici generati dall'integrazione, che alimentavano il consenso degli elettorati, e i vantaggi politici, in termini di stabilità e prestigio, assicurati ai governi. Fino a Maastricht (1992) e oltre, il silenzio/assenso degli elettori garantì mano libera alle élites nella costruzione dell'Europa. Le classi dirigenti si erano abituate a credere che gli elettori, nelle faccende europee, non fossero poi tanto importanti. Pensavano: contano solo le decisioni dei leader, l'intendenza (elettorale) seguirà. Come era sempre avvenuto.
Fino alla moneta unica non venne presa in considerazione l'eventualità che le questioni europee potessero «politicizzarsi" entro le singole democrazie, suscitando divisioni e conflitti, e riducendo così drasticamente il margine di manovra delle europee. Quasi nessuno immaginò che la «democrazia" (l'unica che c'è, quella che sta dentro i confini nazionali) potesse prima o poi vendicarsi.

Echi di questo atteggiamento si ritrovano oggi in tanti commenti sulla crisi dell'euro. Poiché si è scoperto che una moneta unica senza una Bce dotata degli stessi poteri delle Banche centrali che hanno un (singolo) Stato alle spalle non può reggere o che bisogna eliminare del tutto l'autonomia decisionale in materia di bilancio in capo ai Parlamenti nazionali, si invocano i cambiamenti necessari. Si immagina (senza dirlo apertamente) che gli elettori europei concederanno senz'altro il loro permesso. E se il permesso poi non ci fosse, la responsabilità ricadrebbe su singole élite nazionali incapaci di spiegare agli elettori dove stia la loro vera convenienza.

Ma questo è un modo superficiale di considerare il rapporto fra la democrazia e l'integrazione europea. Le si giudichino giuste o sbagliate, razionali o irrazionali, sembrano essere due le ragioni per le quali gli elettorati europei possono accettare (e lo hanno dimostrato in sessant'anni di integrazione) uno svuotamento lento, graduale, incrementale, del potere di decisione delle loro istituzioni democratiche nazionali ma non una brusca, radicale e plateale accelerazione del processo.
La prima ragione ha a che fare con il fatto che le identità nazionali sono ancora oggi molto più forti della identità europea: ciò spiega perché la possibilità di una democrazia sovrannazionale, europea, continui ad essere fuori questione.
La seconda ha a che fare con una motivazione «razionale»: un governo nazionale è, o sembra, più vicino e quindi più controllabile da parte degli elettori. Tanto più il potere decisionale sale verso l'alto, verso le istituzioni europee, tanto meno all'elettore esso appare decifrabile e controllabile. E ciò prescinde, aggiungo, dalla qualità democratica (comunque, assai carente) di quelle istituzioni.

Deprecare questo stato di fatto serve a poco.
È indubbio che si deve fare ogni sforzo per salvare l'euro e, stando ai sondaggi, le opinioni pubbliche di Eurolandia lo comprendono. Si impone però anche un cambiamento radicale nell'atteggiamento delle élite europeiste nei confronti della democrazia (nazionale). Non può più essere trattata con sufficienza, come problema residuale. Soprattutto in tempi di crisi quando proprio la democrazia esaspera la competizione fra i governi per la ripartizione di benefici e costi.

Se lo stato di necessità, come è probabile, imporrà ulteriori restrizioni ai margini di manovra dei governi e dei Parlamenti nazionali, bisognerà stare attenti a che ciò non provochi drammatiche crisi di rigetto, forti reazioni anti-europee degli elettorati. La strada è stretta, ma non può essere percorsa se non si parte dalla constatazione che gli europei non vogliono assistere, in questa fase storica, al totale svuotamento delle istituzioni democratiche nazionali. Se si continuerà a pensare che la democrazia non vada presa sul serio, che l'Europa si possa fare senza chiedere il permesso agli elettori, e che i politici preoccupati del consenso elettorale nazionale siano solo degli irresponsabili, alla fine si sfascerà tutto. Non solo l'euro.

(da IL Corriere della Sera - ediz. del 28 novembre 2011)

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