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dov'è finita l'etica politica?

 

Caro Paolo,

guardo turbato e con occhi stupiti a ciò che accade nella vita pubblica lucchese. Lucca è una città che ha tante risorse positive e non merita ciò che gli accade. Senza alcun dubbio la classe politica di oggi risente della mancanza di partiti capaci di agire per il bene comune. A Lucca, in particolare, sta mancando quel livello di confronto e di patto che si articolava tra i partiti di un tempo; oggi la politica è divenuta un fatto personale, le segreterie dei partiti latitano e quindi ci sono risentimenti personali dilaganti che inquinano le opinioni dei protagonisti. Spesso leggo sulla stampa toni, che oserei definire inconcepibili per chi li usa. Alcuni hanno scelto la via della denuncia, altri dell’ipocrisia, altri, che forse sono protagonisti di un ruolo più grande di loro, rasentano il ridicolo, e danno a tutta la vicenda un tono incomprensibile ai cittadini.

In sostanza, caro Paolo, voglio rimarcare l’assenza dell’etica dalla politica. Nel far questo, visto che abbiamo conosciuto l’avvocato Giuseppe Bicocchi, ti invio un suo saggio attualissimo sull’etica. Spero che tu deciderai di pubblicarlo, perché se ci fosse oggi Bicocchi, lui forse sarebbe stato il pacificatore e il mediatore ideale per la città. Fu lui a farmelo leggere per la prima volta, quando andai a trovarlo nel suo studio di Via Vittorio Emanuele; si era ritirato da poco dalla politica attiva,  lo esortai a riprendere in un periodo dove Lucca era protagonista di scontri come quelli odierni. Lui era guardingo e scettico ad impegnarsi, ma si lasciò convincere. Concordammo che, in mancanza di un luogo preposto al dibattito,  avremmo ideato un’iniziativa insieme con altri amici:  nacque cosi ‘Libertà e Partecipazione’. Fu un esperienza positiva e i tanti che parteciparono alle discussioni sperarono che a Lucca si fosse aperta al dialogo fra le parti. Anche allora vi erano scontri nella politica locale,  ma con protagonisti diversi dagli attuali. Purtroppo il sistema elettorale non ci aiutò e tutti si erano omologati al sistema.

Subito dopo Bicocchi ci ha lasciato e questa è stata una mancanza per Lucca; perché lui si sarebbe impegnato per una soluzione politica in alternativa al nulla di oggi.

Grazie, Paolo per avermi ospitato. Spero almeno di aver trovato il modo di ricordare  un amico e un grande uomo delle istituzioni.

 

Fulvio Mandriota

 

ETICA PUBBLICA E SENSO DELLE ISTITUZIONI

 

On. Avv. Giuseppe Bicocchi

 

 

1. Etica delle istituzioni. - 2. Sconsacrazione e riconsacrazione delle istituzioni. - 3. Ostacoli persistenti, da ripensare. - 4. Cittadini o clienti? - 5. I Civil Servants. - 6. Il saggio sulla stupidità umana di Carlo M. Cipolla.

 

1. Etica delle istituzioni.

L’etica è oggettiva, sostanzialmente condivisa da tutti, derivante già dalla ragione umana, oltre che sancita dall’insegnamento religioso.

È da millenni scolpita nei “10 comandamenti”, che costituiscono ormai il patrimonio etico non solo della tradizione giudeo-cristiana, ma di tutta l’umanità.

Non vi è, quindi, molto da dire sul “non uccidere”, “non rubare”, “non dire falsa

testimonianza”, norme generali per ogni corretto comportamento, sancite anche penalmente: regole che devono solo essere accentuate nell’etica pubblica, perché “la moglie di Cesare - e quindi a maggior ragione Cesare! - deve essere al di sopra di ogni sospetto”.

Certo, è possibile specificarne la portata, adattandole meglio al caso concreto ed al tempo attuale, ma non credo molto all’utilità della “casistica” nella morale, né in quella privata né in quella pubblica.

Molto più importante - mi pare – e’ proporre qualche principio di carattere generale, che indichi il senso di fondo, il significato profondo, l’obiettivo cui tendere, ciò che può dare sostegno alla debolezza contro le tentazioni, in positivo, ben oltre, quindi, il codice penale.

Mi pare, pertanto, che sia necessario tratteggiare, più che specifiche norme etiche di comportamento di amministratori e dipendenti “nelle istituzioni”, o dei  cittadini “verso le istituzioni”, quello che evochiamo con il termine di “etica delle istituzioni”, cioè il loro valore morale intrinseco, il loro alto scopo, ciò che le rende degne di essere rispettate, obbedite e “servite” con impegno, abnegazione, oserei dire con “amore”.

Il fondamento di ogni regola etica, così come ogni norma giuridica che imponga un determinato comportamento, non può infatti che essere anzitutto la ragionevolezza del comando, ed ancor prima l’autorevolezza, la credibilità, la forza morale dell’autorità che la impone, così che ne consegua la diffusa convinzione che il suo rispetto è conforme a verità e giustizia. E’ solo questo consenso diffuso che permette alla regola di divenire tale nella pratica e non solo in teoria, e di trovare applicazione nella fisiologia della vita sociale. Solo successivamente, e come rafforzativo rispetto ai casi patologici di deviazione, acquista una qualche efficacia la minaccia della sanzione, da applicarsi ancora con autorevolezza ed equità, anche in caso di violazione accertata.

Questo bisogno di autorevolezza, di credibilità, di giustizia da parte delle istituzioni pubbliche è il fondamento, il presupposto necessario per l’etica pubblica, e ciò vale sia nei confronti degli amministratori e dipendenti che dei cittadini.

Per quanto riguarda gli impiegati pubblici e soprattutto i pubblici amministratori, ricordo che un tempo si parlava molto di “spirito di servizio”, forse anche troppo e troppo facilmente, ma era una prospettiva densa di significato etico.

Termini non molto diversi sono il “senso dello Stato”, il “rispetto delle istituzioni”, il sentirsi – amministratori e dipendenti – come “servitori dello Stato”, tutti bei modi di esprimere la stessa realtà, con termini oggi ormai quasi scomparsi dal lessico e dalla riflessione; come è scomparsa la convinzione che il fine di ogni istituzione pubblica, e di ogni agire privato rispetto ad ora, debba essere la promozione del “bene comune”.

Sul piano del diritto pubblico, vi corrisponde il criterio generale di legittimità di ogni atto amministrativo, che deve avere sempre come diretta finalità l’interesse pubblico da perseguire.

L’interesse “privato” di terzi può, certo, coesistere con l’interesse pubblico, ma non deve essere la finalità prevalente: può essere solo un “interesse legittimo”, “occasionalmente protetto”, come mera conseguenza indiretta dell’atto amministrativo, assunto nel pubblico interesse.

E l’interesse privato di chi compie l’atto vizia sempre l’atto stesso, tanto che se chi lo compie è in “conflitto di interessi”, deve astenersi dal farlo.

Il “bene comune” ed il “pubblico interesse” costituiscono, quindi, il criterio fondamentale dell’etica pubblica.

Ciò vale, anzitutto, per i pubblici dipendenti, che devono essere, nei confronti dei cittadini, oggettivi ed imparziali oltre che efficienti, al fine di assicurare così il corretto funzionamento della pubblica amministrazione verso ciascuno e verso tutti, ma vale altrettanto per gli amministratori pubblici, che sono “funzionari elettivi”, con la conseguenza che devono anch’essi, una volta eletti, amministrare non nell’interesse solo di un partito e neppure dalla sola “parte” che li ha eletti, ma dell’intera comunità.

Questo criterio generale dell’interesse pubblico, come interesse prevalente rispetto agli interessi privati che possono coincidere o confliggere con esso, vale anche – sia pure in misura minore – nei rapporti tra enti e privati, siano essi cittadini o imprese.

Il singolo legittimamente rappresenta e chiede la tutela di specifici interessi, personali, di gruppo; ma non deve farlo senza tener conto dell’interesse generale, non essendo lecito per nessuno considerare la pubblica istituzione come una “greppia” sulla quale gettarsi senza ritegno.

Del resto, è evidente che solo il rispetto dell’interesse pubblico può far accettare decisioni negative per gli interessi individuali, senza ledere il senso di giustizia e quindi il rispetto dell’Autorità che ha deciso a proprio sfavore.

So bene che non basta indicare tale criterio, perché quello che conta è che esso sia attuato in concreto. Tuttavia, è importante di nuovo proclamarlo ed insegnarlo, perché questo non viene più fatto da tempo; ed anche la scomparsa del “diritto amministrativo pubblico” a favore del “diritto privato comune” muove in senso opposto.

Il vero problema è riproporre in positivo il senso di questa “etica pubblica”, facendo vedere la giustezza - e la bellezza! - di operare per qualcosa di più alto, nobile ed importante rispetto al pur legittimo interesse privato, proprio o altrui.

Forse è difficile, ed anche non opportuno, riproporre la classica gloria del “pro Patria mori”, ma non mi sembra impossibile invitare seriamente a “pro Patria vivere” o quantomeno a lavorare, avendo presente la consapevolezza di svolgere una funzione pubblica di servizio per la comunità, oserei dire una “missione”.

Sono da sempre un sostenitore del volontariato, ma non capisco perché i valori di solidarietà e di servizio, siano possibili solo nel “privato sociale” del volontariato, e non siano proponibili anche a live lo dell’impegno nelle istituzioni, sia come amministratori che come operatori.

Si pensi all’importanza del ruolo di coloro che operano nei servizi sociali degli enti pubblici ed alla delicatezza della “relazione di aiuto” che essi stabiliscono con i cittadini. Siano dipendenti pubblici o volontari, tutti devono essere ‘professionali’, ma tutti devono anche essere eticamente motivati al servizio di chi ha bisogno.

Ed allora il consenso sociale che oggi riscuote il volontariato potrà e dovrà estendersi anche agli operatori pubblici. Ciò può e deve verificarsi non solo nel campo, forse più facile, dell’erogazione di servizi pubblici, ma anche con riferimento alle decisioni autoritative. Sono personalmente convinto che se non si ritrovano le motivazioni di fondo che ripropongano concretamente per i funzionari pubblici una vera etica di servizio nei confronti delle istituzioni pubbliche e dei cittadini, se non si riscopre l’importanza civica e la nobiltà dello Stato nel suo complesso e nelle sue articolazioni, se non si ricostruisce un ethos delle istituzioni pubbliche, così che esse prevalgano sulle esigenze private non per forza o per abuso, ma per valore intrinseco e per giustizia: ogni discorso sull’etica pubblica rischia di ridursi a ben poca cosa.

 

2. Sconsacrazione e riconsacrazione delle istituzioni.

Perché il proporre questo, oggi, sembra una “mission impossible”?

Perché abbiamo vissuto - e ne stiamo ancora subendo le conseguenze - un’epoca di “rivoluzione” nei rapporti tra cittadini ed istituzioni pubbliche che ha portato ad una loro radicale delegittimazione, fino ad una sostanziale “sconsacrazione”.

Dalla contestazione sessantottesca contro ogni potere, illegittimo e da combattere solo perché tale, si è passati alla negazione di un’intera classe politica, attraverso i referendum elettorali e soprattutto l’operazione “Mani pulite”, con una delegittimazione generalizzata di ogni pubblico potere, a tutti i livelli. Ciò ha determinato una crisi di credibilità della politica e delle stesse istituzioni pubbliche, che sta davvero ormai portando al qualunquismo più deteriore ed al conseguente quasi totale disimpegno dei cittadini verso la politica. Se tutto è solo lotta di potere per interessi privati, o si partecipa direttamente alla spartizione o ci si astiene schifati da tutto.

Non intendo dire che la contestazione sia stata solo negativa, di fronte ad una

degenerazione istituzionale partitocratica ormai intollerabile, che meritava una “rivoluzione morale” da parte dei cittadini; ma una “rivoluzione permanente” non ha dato frutto neppure nella Cina maoista, che ha cominciato a correre nello sviluppo solo quando la rivoluzione continua è cessata.

Ogni rivoluzione, per natura e per necessità, esige “lacrime e sangue” ed opera delle radicali sconsacrazioni, come la storia dimostra. La violenza dissacrante deve, però, sfociare, il prima possibile, nella “consacrazione” del nuovo ordine istituzionale.

Non parlo, ovviamente, di una “divinizzazione” di chi esercita il potere, radicalmente “sconsacrato” dal cristianesimo, fin dalle origini e definitivamente. Mi riferisco, piuttosto, a quanto fa la Chiesa quando consacra le “realtà terrestri”, dal matrimonio, al lavoro, alle istituzioni.

Lo fa la Chiesa, ma lo fanno anche le comunità politiche, talvolta perfino scimmiottando la Chiesa. Di una qualche “sacralità” delle istituzioni hanno, infatti, necessità non solo i regimi autoritari, ma anche - e forse di più - le democrazie, che non possono restare tali senza un ethos di fondo, che accomuni i cittadini e crei rispetto ed amore per le istituzioni democratiche, che meritino, quindi, di essere difese, servite, obbedite.

Basterebbe non fare errori clamorosi, come è avvenuto per l’obiezione al servizio militare obbligatorio. L’evoluzione dell’obiezione di coscienza verso il servizio civile avrebbe consentito di passare ad un “servizio obbligatorio” per tutti, uomini e donne, opzionalmente sia militare che civile. Si sarebbero così risparmiate le spese ed i rischi di un esercito professionale e si sarebbe mantenuto il servizio civile gratuito, a favore di associazioni ed enti. Si sarebbe, inoltre, conservata un’istituzione antica e fondamentale, che prevedeva, con consenso unanime, la prestazione di un’attività lavorativa di ogni giovane cittadino, maschio o femmina, verso la Repubblica. Lavorare personalmente, per un anno, gratis, per lo Stato implica, invero, riconoscerne la funzione di realizzazione del pubblico interesse, la “sacralità”. Promuovere e difendere la “sacralità” di alcune istituzioni fondamentali è, infatti, essenziale per ogni Stato. Basti pensare alla insindacabilità del Presidente della Repubblica come rappresentante di tutti, alla funzione di garanzia del principio costituzionale dell’indipendenza della Magistratura, al senso della bandiera, al significato delle divise e dei simboli solenni di riconoscimento (la toga nella giustizia, la fascia dei Sindaci e dei Presidenti di Provincia etc).

E’ necessario – senza retorica e forzature, ma con serietà e determinazione – porre fine all’attuale delegittimazione di ogni “potere” e delle istituzioni in genere, ed in particolare di quelle pubbliche; e tornare a riaffermare la loro importanza e grandezza civica, per la funzione essenziale che esse svolgono, nel pubblico  interesse.

Ed occorre anche riscoprire il rispetto ed il sostegno da parte di tutti verso i “governanti” come tali, proprio per la funzione che svolgono: perché il rispetto ed il sostegno ai governanti, come espressione personalizzata delle istituzioni, sono dovuti a prescindere dal consenso politico personalmente espresso da ciascuno nei loro confronti, in quanto le istituzioni sono al di sopra delle parti, e così devono viverle sia gli amministratori sia i dipendenti sia i cittadini.

 

 

3. Ostacoli persistenti, da ripensare.

Come ridare autorevolezza generale alle istituzioni affinché siano sentite - e lo siano davvero - non strumenti per interessi di parte, ma espressione dell’interesse generale, al servizio del bene comune?

Le risposte possono essere molteplici e relative ai più svariati campi, da quello religioso a quello educativo, da quello sociale a quello politico.

Mi limito ad evidenziare alcune importantissime modifiche che hanno inciso positivamente su aspetti di fondo dell’attuale situazione italiana e che, ancora assolutamente attuali, esercitano anche un influsso in negativo rispetto all’obiettivo sopra indicato.

Esse sono, quindi, oggi i veri nodi strutturali per una risposta al nostro problema, punti da ripensare ed anche ostacoli da superare, in un ripensamento che non deve essere frainteso come un mero ritorno al passato, negativo e giustamente superato, ma come un’ulteriore spinta in avanti, che eviti gli aspetti critici di eventi e di politiche in gran parte positive.

 

3. a) - Le riforme istituzionali maggioritarie

Le radicali riforme istituzionali introdotte in Italia, con il superamento dell’ormai paralizzante palude partitocratica del proporzionale e l’introduzione della “democrazia del maggioritario”, hanno determinato una vera e propria “rivoluzione” nelle istituzioni pubbliche. Personalmente, ho collaborato direttamente con Mario Segni in tutta la battaglia referendaria e credo ancora di aver fatto bene, poiché questa “rivoluzione” era necessaria e matura nella gente, cogliendo di sorpresa la dirigenza politica, il cui “spiazzamento” fu segno di chiusura autoreferenziale. Tuttavia, è venuto ormai il momento di una valutazione autocritica, per vedere anche i difetti e le conseguenze negative di quella esperienza e per correggerne i limiti.

Non c’è dubbio che il maggioritario abbia agito coercitivamente, come un forcipe, sul sistema politico ed istituzionale del Paese, che ne è rimasto sconvolto e non ha ancora trovato un assetto durevole. Ne consegue che se, da una parte, ha corretto alcune distorsioni consociativistiche, dall’altra, ha accentuato altri vizi, pur presenti nella nostra tradizione, come la partigianeria settaria e l’utilizzo delle istituzioni a scopo di parte.

Lasciando giustamente al Popolo la scelta della parte vincitrice dello scontro elettorale, ed assicurando ad essa una maggioranza stabile nelle istituzioni elettive, si è raggiunto un positivo risultato di stabilità istituzionale; ma si è anche consentito, attraverso l’investitura popolare diretta, l’identificazione della persona o della “parte” vincitrice con l’intera comunità, per cui si è potuto presentare come lecito, presentandolo come voluto dal Popolo, che la “parte vincitrice” utilizzi e si appropri dell’istituzione come “legittimo bottino di guerra”. Ma questa forzatura può e deve essere respinta.

Molto pertinenti sono, in proposito, le riflessioni del Documento preliminare della Settimana sociale dei cattolici italiani del 2004, laddove invita a riflette sul diverso approccio culturale fra la “democrazia maggioritaria” e la “democrazia inclusiva”, intendendo per “democrazia inclusiva” la necessità di tener conto, da parte di chi governa, degli interessi e della volontà di tutti, anche delle minoranze, anche dell’opposizione.

Mi pare chiaro che sia da privilegiare la “democrazia inclusiva”, che non è necessariamente collegata con il metodo elettorale proporzionale, ma può invece applicarsi a qualunque metodo elettorale, anche maggioritario: essendo nelle sua sostanza una “modalità di governo”, e non un metodo di elezione. È però indubbio che il sistema maggioritario si presti di più, senza profonde correzioni, a questa “lettura di parte”, possibile sempre, ma certo apparentemente più legittimata dalla pretesa “volontà popolare”, in caso di mandato diretto dell’elettorato. Tale lettura risulta poi accentuata negli aspetti personalistici delle elezioni di tipo “presidenzialistico”, così per gli enti locali, come per le Regioni ed, infine, per l’elezione o l’indicazione diretta del Capo del Governo.

I vantaggi per la governabilità sono molti, e sotto gli occhi di tutti, per cui sarebbe davvero grave ritornare indietro ma è anche vero che la “personalizzazione” è uno dei fattori di crisi della partecipazione politica stabile attraverso i partiti politici e dà la sensazione di una “guerra” per la conquista del potere, che diviene potere personale, quasi assoluto, del vincitore: con la tendenza ad una visione per così dire “patrimoniale” dell’ente “conquistato”, come se fosse, appunto, “bottino di guerra” nella disponibilità del vincitore. Questa visione rischia poi di degenerare in una “guerra fra le istituzioni”, che può accentuarsi e divenire, nella prospettiva del federalismo, una “guerra di tutti contro tutti”. Tutto ciò va a scapito delle istituzioni stesse, che dovrebbero invece collaborare positivamente fra di loro, a prescindere dalla coloritura politica della dirigenza.

Il “senso delle istituzioni” sta scomparendo, per lasciare spazio ad una conflittualità istituzionale generalizzata, della quale il vertiginoso aumento dei conflitti di competenza proposti di fronte alla Corte Costituzionale è appena un epifenomeno.

In questo quadro, già molto difficile, vi è poi un conflitto ormai più che decennale tra la Magistratura e gli altri poteri dello Stato, che è davvero deflagrante, perché rischia di porre anche la Magistratura tra le istituzioni di parte, da conquistare e gestire con criteri politici, o comunque “partigiani”.

La collaborazione fra le istituzioni, nel riconoscimento delle rispettive autonomie e competenze, ma tutte operanti indistintamente nel rispetto della legge ed al solo scopo del “bene comune”, è necessità vitale di ogni Stato, specie democratico: se “ogni regno in sé diviso va in rovina” - come nota il Vangelo - ciò vale a fortiori per ogni democrazia. Ed i cittadini amano, sì, la dialettica delle idee e degli interessi e lo scontro politico, ma non amano affatto lo scontro fra le istituzioni. Per essi lo Stato, pur doverosamente articolato, è nella sostanza unico, espressione dell’unico interesse pubblico ed al servizio dell’unica comunità.

 

3. b) - Crisi della partecipazione democratica

La gestione personalistica e di parte delle istituzioni, come la loro endemica conflittualità, disorienta i cittadini e finisce per distaccarli sempre di più dalla vita politica ed istituzionale, con una conseguente grave crisi della stessa partecipazione democratica.

Certo, le cause di questa crisi e di questo “disincanto” sono molteplici: legate soprattutto all’attenuarsi della grandezza e solidità delle motivazioni di fondo che spingono verso la partecipazione ed alla riduzione reale della differenza fra le varie soluzioni proposte. Tuttavia, non mi pare dubbio che anche le modifiche istituzionali, per gli aspetti negativi sopra indicati, vi abbiano contribuito e vi contribuiscano.

In pochi decenni, si è passati dalla “politica è tutto” della contestazione giovanile – dove “politica” era però significativamente considerata come attività da praticarsi fuori e contro le istituzioni - alla “nessuna politica”, oggi largamente prevalente. Per “far politica” oggi si intende, nel senso comune, solo l’essere presenti direttamente in qualche istituzione pubblica come amministratori eletti, o meglio ancora direttamente nominati, senza alcuna verifica elettorale, bastando l’investitura e fiduciaria da parte del Capo.

Ciò che poi è particolarmente in crisi, fino alla quasi estinzione, è la politica nei partiti. La carica antipartitica della rivoluziona referendaria e giustizialista ha quasi distrutto i partiti, o meglio, li ha distrutti come realtà popolari, come associazioni democratiche dei cittadini. Essi sono, tuttavia, rimasti, e si sono anzi rafforzati, nella loro nuova dimensione lideristica, per cui sono ormai solo il megafono del leader, che tiene il contatto diretto con gli elettori attraverso i mass media e legittima tutti gli altri poteri da lui derivanti, a livello nazionale e locale. Questi partiti non hanno affatto bisogno della partecipazione attiva dei cittadini, ma solo del loro voto, ottenuto soprattutto attraverso i mezzi di comunicazione.

Essi sono, infatti, di solito retti da una piccola oligarchia, che non solo non cerca nuove adesioni, ma tende a restringersi sempre di più, in una chiusura autoreferenziale quasi assoluta e che non tollera, ovviamente, nessun vero dibattito né tanto meno dissenso interno. Partecipare, oggi, significa solo essere cooptati in una di queste oligarchie, al servizio di questo o quel piccolo o grande leader, del quale proclamare i meriti ed il valore indiscutibili.

Dopo quarant’anni di vita politica, misuro anche personalmente questa difficoltà reale nel far qualcosa di libero ed autonomo oggi, ed avverto la necessità assoluta di rompere questo cerchio negativo, specie a livello locale, a costo di ricominciare da capo.

Tutto ciò era in parte inevitabile, per le caratteristiche della comunicazione attuale e futura, ma è anche fortemente riduttivo di quella che è una vera partecipazione democratica: che non si può limitare solo al momento del voto, per di più spesso esercitato da una parte ridotta della popolazione e perfino, talora, da una minoranza di essa.

La vitalità democratica delle istituzioni ha bisogno della partecipazione - organizzata, diretta, continua, articolata ai vari livelli - dei cittadini, organizzati nella “forma partito”, così come configurata dalla Costituzione.

La realtà democratica del partito deve operare nei due sensi: da una parte, rendere attivamente partecipi i cittadini alle scelte delle istituzioni, anche dopo il momento elettorale; dall’altra, far sentire agli amministratori il sostegno, ma anche il controllo e la pressione dei cittadini, nello svolgimento del mandato loro affidato. La partecipazione politica fonda l’etica pubblica di amministratori, dipendenti e cittadini ed assicura anche forme di controllo sostanziale, molto più incisive di quelle esterne, formali, giudiziali e perfino penali. La crisi della partecipazione politica ha trovato una compensazione parziale nell’aumento della partecipazione nel volontariato e nell’impegno sociale: ma vi è stata comunque una perdita importante.

Occorre dal volontariato e dal sociale tornare al politico e all’istituzionale, o meglio, occorre riportare le motivazioni etiche di fondo dell’impegno sociale e del volontariato anche nelle istituzioni, ed impegnarsi nel loro servizio e non nella loro contestazione, magari come premessa per una loro successiva occupazione.

 

3. c) - Il dogma della “privatizzazione”

Anche qui, in pochi decenni vi è stato un vero e proprio rovesciamento: dallo slogan che solo il “pubblico è bello” ed il privato immorale, proclamato contemporaneamente dalla contestazione giovanile sessantottina e dallo statalismo allora dominante (che vedeva uniti sinistra, destra e lo stesso mondo cattolico), al dogma della “privatizzazione” dovunque e ad ogni costo:

dogma che ha imperato in questi ultimi anni, almeno sul piano dello slogan politico culturale, devastando le coscienze, senza incidere più di tanto sul piano economico ed istituzionale reale.

Una politica di privatizzazioni è giustificata dall’elefantiaca pesantezza dello Stato italiano, che deve oggettivamente “dimagrire” a favore del “mercato” e del “privato sociale”; ma l’ideologismo del “privato è bello” è fuorviante almeno quanto quello del “pubblico è bello”, se non si operano le dovute distinzioni. Invero, se rendere tutto pubblico è contrario alla libertà e all’autonomia delle persone e dei gruppi sociali ed al principio cardine istituzionale della “sussidiarietà”, anche l’esaltazione acritica del “privato”, rispetto al pubblico ed al “bene comune”, è altrettanto rischiosa e pericolosa.

Il principio di sussidiarietà deve operare nei due sensi e non essere letto soltanto nel senso - che certo è prevalente - della difesa del basso verso l’alto, e della società rispetto alle pubbliche istituzioni. Esso implica anche che deve essere lasciato nella responsabilità dell’autorità più alta quello che non è utilmente gestibile a livello inferiore (come sussidiarietà verticale); e, così pure, che devono essere gestiti dalle istituzioni pubbliche tutti quegli interventi che sono appunto di loro diretta, necessaria ed esclusiva competenza e che non possono, pertanto, essere indebitamente “privatizzati” (come sussidiarietà orizzontale).

Soprattutto, non è lecito confondere le due logiche interne ai due sistemi, pubblicistico e privatistico, neppure in nome dell’”efficienza”; poiché il criterio dell’”interesse privato”è lecito e positivo nella sfera appunto privata e del “mercato”, mentre l’”interesse pubblico” deve essere il solo criterio proprio della sfera pubblica (ed anche del c.d. “terzo settore”, del privato sociale no

profit- al servizio del “bene comune” e della comunità tutta).

Così ha avuto senso - e l’avrebbe ancora di più oggi, poiché quasi tutto resta ancora da fare - la privatizzazione degli interventi pubblici nel settore economico, da riportare correttamente nella sfera del “mercato”: nel senso che è possibile anche conservarne la proprietà pubblica, purché l’impresa stia comunque senza privilegi sul mercato.

Infatti, è eticamente giusto che le imprese economiche, anche di proprietà pubblica, facciano profitti e realizzino il loro interesse, purché operino in condizioni di competitività; mentre non è etico privatizzare solo formalmente, cedendo cioè le azioni, ma mantenendo il monopolio del servizio ed i privilegi, privatizzando cioè solo nella forma, senza favorire la concorrenza, ma consolidando i privilegi.

Ed ha ancor più senso il superamento dell’opposto dogma del “tutto pubblico” nella gestione dei servizi sociali, superamento che si è attuato soprattutto sotto la spinta del volontariato. In questo campo, l’ormai acquisito pluralismo attuale tra pubblico, privato e privato sociale/volontariato, può e deve evolversi ulteriormente e con coraggio, in concreta applicazione del principio di sussidiarietà inteso nella sua dimensione orizzontale. E’ possibile ed opportuno oggi assumere il “rivoluzionario” obbiettivo di affidare – progressivamente si intende, e nel lungo termine alla diretta responsabilità delle forze sociali la gestione dell’intero settore dei servizi sociali, che sarebbe proprio e peculiare della società civile nelle sue articolazioni: lasciando alle istituzioni pubbliche un compito progressivamente solo integrativo in caso di incapacità operative delle articolazioni della società, insieme a quello essenziale ed irrinunciabile di regolazione generale e di garanzia degli interventi per chi non ha reddito sufficiente.

Il settore dei servizi sociali – pur riconoscendo spazi legittimi anche al privato speculativo di mercato – è tipicamente legato ad un “interesse pubblico”:, che non è però esclusivo delle pubbliche amministrazioni, essendo tipico anche del c.d. terzo settore no profit, che è definito appunto “privato sociale” proprio per la caratteristica della presenza evidente dell’interesse pubblico in soggetti non pubblici in senso giuridico.

 

3. d) - Lo spoil-system

Il nostro ordinamento era basato sul principio costituzionale delle assunzioni e delle promozioni dei pubblici dipendenti solo per concorso, nonché della loro inamovibilità; con una forte garanzia formale della loro imparzialità e libertà, che si traduceva però anche in una staticità immobile, nel complesso sclerotizzata e poco funzionale. Tale impostazione era largamente temperata dalla presenza di un esercito sterminato, e sempre crescente, di amministratori elettivi, cioè di una dirigenza politica che andava a sovrapporsi alla burocrazia pubblica a tutti i livelli, nazionali e locali, ponendosi apertamente al vertice delle amministrazioni ed occupando progressivamente gli spazi di quasi tutte le decisioni operative.

Si tratta del fenomeno dell’occupazione partitica delle istituzioni, che, in nome

dell’ampliamento della partecipazione democratica, ha caratterizzato il nostro Paese nel passato estendendosi dallo Stato e dal sistema degli enti locali, anche ai servizi sociali (sanità, scuola etc).  Questa veramente intollerabile occupazione partitocratica delle istituzioni è stata oggi, in parte, ridimensionata con varie riforme, ma in particolare con una che è passata, quasi per miracolo, senza neppure una battaglia per ottenerla e quasi senza che l’opinione pubblica e le stesse forze politiche se ne siano accorte. Mi riferisco all’introduzione del principio di separazione tra responsabilità politica ed amministrativa, con la perdita di quasi tutti i poteri sulle singole decisioni operative da parte degli organi politici elettivi, a favore dell’autodeterminazione dei funzionari/dirigenti, restando all’autorità politico-amministrativa soltanto i compiti di indirizzo e controllo, oltre agli atti di portata generale (bilancio, piano regolatore, regolamenti, atti di programmazione più in generale).

E’ stata una svolta di grande importanza e civiltà, non rivendicata dai dirigenti - che forse stavano più tranquilli prima, senza responsabilità - ma determinata dalle recrudescenze dell’operazione “Mani pulite” che hanno spinto a distribuire le responsabilità operative ai vari livelli dell’Ente. Tuttavia, la mancanza di un consapevole disegno riformatore, ha fatto sì che, rapidamente, la politica abbia trovato il modo per recuperare il terreno perduto, e forse per allargarne l’entità, con minor controllo. Si potrebbe dire “fatta la legge trovato l’inganno”. Mi riferisco all’istituzione dello spoil-system, che sta consentendo alla dirigenza politica elettiva di sostituire tutti i dirigenti

con poteri decisionali autonomi, e di farlo non solo al momento della propria elezione, ma spesso anche nel corso del mandato.

Questo istituto è in aperto contrasto con la nostra tradizione storica del ruolo del pubblico funzionario, e ne mina alla base la stessa funzione, perché, se i dirigenti politici hanno il potere assoluto di nomina e di revoca, è assurdo parlare di responsabilità autonome. Tutto diventa così una mera fictio, una intollerabile apparenza formale, che mistifica e nasconde la realtà sostanziale! Si dice che esso sia di importazione U.S.A., ma l’ampiezza di applicazione del nostro spoilsystem è ben maggiore di quello statunitense, che tocca un numero assai limitato di dirigenti, rispetto alla grandezza del Paese. E’, quindi, necessario ed urgente prendere coscienza della grande importanza etica del principio della separazione tra politica ed amministrazione, ma anche della contraddittorietà con esso dell’istituzione dello spoil-system, che deve sostanzialmente essere abolito, ripristinando il principio della stabilità dei dirigenti nel variare delle maggioranze politiche, come garanzia appunto dell’oggettività ed imparzialità delle pubbliche amministrazioni.

 

3. e) - Controlli ed autocontrolli

Nessuno ama essere “controllato” da altri, e sappiamo, per dura esperienza personale, come sia difficile l’autocontrollo, senza incentivi o penalizzazioni.

Oggi, il corpo enorme, frantumato e disperso, delle pubbliche amministrazioni, è quasi senza alcun controllo, se non quello penale e quello puramente contabile della Corte dei Conti. Anche qui, è vero che i vecchi controlli erano solo formalistici, procedurali, cartacei, ed avevano l’effetto, in quanto sospensivi, di ritardare l’iter del procedimento, con evidenti danni per l’efficienza e la tempestività delle decisioni pubbliche. È, altresì, positivo che in nome del federalismo, e più semplicemente della difesa delle autonomie locali, si siano progressivamente eliminati i controlli statali su regioni ed enti locali. Ma l’eliminazione dei “controlli esterni” doveva – anche nelle intenzioni declamate – essere accompagnata dalla creazione di un autonomo, ma credibile, sistema di “controlli interni”; e non solo di controlli sull’efficienza, ma anche di legalità, che è la garanzia di ogni credibile azione pubblica. Ad oggi, essi sono però – tranne lodevoli eccezioni – quasi inesistenti.  La cosa più grave è che il tutto è avvenuto senza dibattito, con l’opinione pubblica che neppure è informata del fatto che la macchina amministrativa è oggi praticamente senza alcun controllo di legalità, né interno né esterno. Se è vero che è alla fisiologia che occorre guardare, e non alla patologia, è oggettivamente fisiologico che ogni istituzione si doti di un sistema di prevenzione interna, in grado di monitorare gli atti amministrativi della dirigenza: per favorire l’autocontrollo, ma anche per esercitare un controllo vero e proprio , sia pure “interno” all’ente, sulla legittimità dei procedimenti. Un sistema di controllo è segno dell’eticità delle istituzioni e dei suoi amministratori e dirigenti, ed aiuta il comportamento etico di chi fosse in tentazione. Esso è necessario, come è necessario sottoporci periodicamente ad esami e controlli diagnostici della nostra salute, soprattutto quando se si è esposti a pericoli e contagi. La cosa ancor più grave è, con riferimento agli enti locali, il radicale svilimento della figura chiave del Segretario Generale, come garante della legittimità degli atti e dei  procedimenti. Dal Segretario onnifacente di nomina governativa, che poteva anche ingiustamente mettere sotto tutela gli amministratori, si è passati a Segretari senza più alcun vero compito o funzione - laddove affiancati dal City Manager o Direttore generale - per di più discrezionalmente scelti dal Sindaco e revocabili dallo stesso. Essi, da garanti della legittimità, sono oggi solo dei consulenti personali del Capo dell’Amministrazione. Questa situazione esige una rapida correzione, restituendo al Segretario – con la garanzia della inamovibilità – il ruolo di “notaio” dell’Ente, nel senso forte appunto di “garante della legittimità” degli atti amministrativi e dei procedimenti interni. E’ urgente provocare una vera discussione sulla carenza di controlli negli enti pubblici, per cercare di realizzare qualche vera e seria forma di “controllo interno”, prima che, con la riforma federalista, accrescendo ruolo ed autonomia delle regioni e degli enti locali, il sistema vada del tutto fuori controllo.

Sarebbe, davvero, auspicabile che nascessero esperienze spontanee serie in questo campo e si andasse verso un “codice etico” di comportamento negli enti più “virtuosi”, per rendere reali, effettivi ed utili i controlli interni, saldando in un organico sistema autocontrolli dei dirigenti, trasparenza nei documenti, e ruolo del Segretario Generale, dei revisori dei conti, degli organi di governo dell’ente (Sindaco/Presidente, Giunta e Consiglio).

L’Etica pubblica lo esige con serietà ed urgenza.

 

4. Cittadini o clienti?

Tempo fa, un mio amico, alto funzionario pubblico seriamente impegnato per

l’innovazione nella pubblica amministrazione, mi confidava – lasciato il lavoro – come fosse traumatizzante trovarsi “dall’altra parte della barricata”, come semplice cittadino inerme nelle mani della burocrazia, senza volerla bypassare con qualche conoscenza ed amicizia. E’ un’esperienza dolorosa e spesso causa di piccoli o grandi immoralità, fatte o subite. Ed i rimedi non sono certo facili. Nei confronti delle evidenti e marcate inefficienze della burocrazia e dei servizi pubblici, è venuta avanti la proposta di non considerare più il cittadino come semplice beneficiario di qualche attenzione paternalistica e discrezionale, o peggio come suddito passivo soggetto a qualunque decisione anche ingiusta, ma come “il cliente che ha sempre ragione”: appunto perché è cliente, quindi portatore in sé di diritti e di un qualche potere, da tenersi buono anche nel proprio interesse. Ma questa costruzione, se non vuole essere astratta, moralistica o declamatoria, può funzionare solo se si attribuisce al cittadino un vero potere di “spendere”, quindi di contare, conferendogli una reale libertà di scelta fra soluzioni diverse, tutte sul “mercato”. Il rafforzamento del ruolo del cittadino come “cliente” può, allora, avere una qualche efficacia nel campo dei servizi pubblici, solo a condizione che si realizzi un concreto pluralismo nell’offerta degli stessi, facendo venir meno il monopolio pubblico, e che il cittadino possa davvero scegliere liberamente tra essi, senza rimetterci o quantomeno senza rimetterci troppo. Tutti vediamo come siamo ancora lontani da ciò, dal mettere cioè i servizi pubblici sullo stesso piano di libera concorrenza nel mercato, in modo che vengano utilizzati non perché unici, o perché i soli gratuiti, ma per la loro efficienza e validità. Solo questo determinerebbe una “moralizzazione” vera all’interno dei servizi pubblici e nei loro rapporti con i cittadini. Altrimenti il termine stesso cittadino/cliente rischia di evocare, nella consapevolezza comune, non tanto “la regalità” del cliente nel mercato, quanto il ricordo antico e moderno delle “clientele”, dai clientes della Roma antica al “clientelismo” di tanta politica moderna, di stampo appunto partitocratico e clienterale. La prospettiva del cittadino-cliente è, poi, del tutto improponibile, anche solo in astratto, nei confronti degli atti autoritativi delle pubbliche amministrazioni. Tuttavia, anche in questo caso, il cittadino non può essere solo “suddito”, neppure nei casi limite degli interventi di polizia o giudiziari.

Qualche tempo fa si cominciò a parlare di “servizio della giustizia”, e mi pare

positivamente, anche se certo la giustizia è più che un servizio, è una funzione pubblicistica e tipica dell’autorità di imperio e di coazione. Ma è proprio l’Autorità come tale (con la maiuscola!) che deve sempre più identificarsi con un alto servizio: il servizio principale, più delicato, che è quello appunto dell’Autorità, anche coercitiva. Il potere, infatti, di imporre restrizioni alla libertà e vere e proprie sofferenze ai cittadini deve essere svolto solo a fin di bene, e per stretta necessità; deve essere esercitato - oserei dire - con sofferenza e compartecipazione; e ciò vale per il medico, come per l’educatore, per un padre come per un amministratore, per un giudice come per un agente penitenziario. Rispettare, sentire, vivere l’esercizio dell’Autorità come il più alto, delicato, responsabile, “amoroso” servizio ai cittadini, non è utopia: è la verità di un potere umano, etico, democratico, buono. “Chi vuole essere il primo, sia l’ultimo ed il servo di tutti”, ci insegna il Vangelo. Ad un di più di potere e di autorità, corrisponde l’esigenza di un di più di servizio, anzi di “amore”, di servizio con amore. Se è utopia, lo è nel senso forte del termine, per indicare quali dovrebbero essere i rapporti fra autorità e cittadini, tra istituzioni e cittadini. Sarebbe bello che la parola “cittadino” recuperasse il valore e l’orgoglio civico con cui essa  era pronunciata nella Rivoluzione francese ed in genere nelle prime rivoluzioni democratiche liberali, perché un alto senso delle istituzioni è possibile solo se esse stesse hanno un alto senso della dignità dei cittadini e delle loro funzioni. Solo di fronte ad autorità pubbliche rispettose dei diritti dei cittadini e caratterizzate da un alto senso di giustizia e di servizio al bene comune, il cittadino potrà trovare le motivazioni e le ragioni di rispetto, obbedienza, servizio, amore per la Patria e per chi la rappresenta.

 

 

5. I Civil Servants

Quando si parla di “etica pubblica”, si pensa di solito ai pubblici amministratori, alla dirigenza politica delle istituzioni. Ma ciò è molto limitativo. Il corpo vero, la realtà massiccia delle istituzioni è costituita dai dipendenti pubblici, operino essi nei servizi pubblici o nelle strutture autoritative delle pubbliche amministrazioni. Un tempo, vi era un forte senso di identità in molte di queste figure; e vi era anche una seria coscienza professionale, che non si esaurisce nella preparazione tecnica, ma implica il senso della propria funzione e la caratterizza come “servizio” nei rapporti con i cittadini ed in un’autonomia dignitosa verso gli amministratori. Molti operatori pubblici descrivevano la loro funzione come una “missione”, e spesso la vivevano così, anche concretamente: basti pensare all’eroica figura del “maestro elementare”. La dimensione di massa dei pubblici dipendenti ha oggettivamente indebolito questa visione, ma non l’ha negata radicalmente, perché essa si è mantenuta a lungo, sia pure a “macchia di leopardo”.

E’ possibile e doveroso riproporre il senso morale, etico della funzione o del servizio svolto, anche nella pubblica amministrazione di oggi. Se non si ha il coraggio di parlare di “missione”, se è troppo retorico e centralistico parlare

di nuovo di “servitori dello Stato”, si diventi “moderni” usando l’inglese e si parli di Civil Servants; ma si riproponga il senso forte del “pubblico servitore”, di chi è, certamente, pagato nel suo lavoro, ma non per un lavoro da svolgere nell’interesse proprio o di parte e quindi “privato”, ma nell’interesse pubblico, per il bene comune. Come fondare altrimenti la doverosa “imparzialità” delle pubbliche amministrazioni o la legittimità degli atti amministrativi da compiersi solo nel pubblico interesse? Occorre riproporre l’etica del funzionario pubblico, come servitore dell’istituzione alla quale appartiene, e non del Sindaco o del Ministro pro-tempore; dovendo tutti tener presente che l’istituzione stessa è, poi, soltanto a servizio della comunità e dei cittadini che la costituiscono. Qualcosa si muove in questo senso, e sarebbe davvero un bel segnale la nascita di un’Associazione dei Civil Servants, anche in Italia, per difendere questa essenziale “eticità” della loro funzione.

 

6. Il saggio sulla stupidità umana di Carlo M.Cipolla

Spero di non essere stato astratto, retorico o vagamente utopico.

Il mio intento è, invece, di essere realistico e concreto. Certo, sono partiti dagli ideali e dal dover essere, ma per indicare poi obiettivi concreti, storicamente e politicamente possibili, nella concreta realtà politica, culturale e morale italiana di oggi.

Per questo concludo richiamando quel simpatico e brillante - ma anche molto serio! - divertissement costituito dall’aureo piccolo scritto del Prof. Carlo M. Cipolla “Saggio sulla stupidità umana”.

Riassumo le sue quattro categorie di persone:

1) “i banditi”, che fanno del bene a sé e del male agli altri;

2) “i santi” (ed anche gli sprovveduti, assimilati ai santi solo nel senso dei risultati “economici”, senza offesa per i santi) che fanno del male a sé e del bene agli altri;

3) “gli stupidi”, che fanno del male a sé ed agli altri;

4) “gli intelligenti”, che fanno del bene a se stessi ed agli altri.

Non è certo pensabile che tutti, e neppure la maggioranza, siano “santi”, sacrificando il proprio interesse e bene personale per il bene altrui. Essi saranno sempre una “eroica” minoranza: importante, significativa, essenziale, ma sempre una minoranza. Sarebbe sufficiente, per l’equilibrio del sistema, che essi, se sommati “economicamente” con gli “sprovveduti, riequilibrassero la bilancia rispetto  i “banditi”, a quelli cioè che cercano solo il proprio interesse, contro l’interesse altrui.

Né è possibile appellarsi agli “stupidi” che sono fortemente presenti in tutti i ceti, secondo il Prof. Cipolla, nella stessa alta ma non misurabile percentuale, identica sempre perfino fra i professori universitari, i politici e gli stessi “Premio Nobel”, quindi anche fra gli amministratori ed i dipendenti pubblici: i quali, “stupidi” per definizione, sono incontrollabili, e costituiscono una variabile negativa indipendente.

E’ possibile però, e persino doveroso, appellarsi alle persone “intelligenti”, affinché operino sempre di più in modo, appunto, “intelligente”, e cioè sia a vantaggio proprio che di tutti gli altri, della comunità.

Essi faranno così coincidere positivamente l’interesse personale, proprio, privato, con l’interesse pubblico, collettivo, con il bene comune. Questa coincidenza è la regola aurea - anzitutto economica, ma anche etica - per far marciare non solo la Pubblica amministrazione, ma anche la famiglia, l’economia, la sanità, la storia. Perché il più grande dono di Dio all’uomo è l’intelligenza e la coscienza, che sola ci può guidare “eticamente” nei nostri comportamenti, indicando un comportamento possibile a tutti: “eroico” nella sua semplicità operando insieme il nostro bene personale e quello degli altri. “Ama il prossimo tuo come te stesso”, insegna la Bibbia, con sapiente equilibrio. L’etica, che è la misura normale del comportamento umano, ci chiede “solo” questo: amare gli altri - il bene pubblico! - come se stessi (ed il nostro interesse particolare). Si può far di più, e allora si è “santi” od eroi. Ma anche far “solo” questo, ed essere, così, “intelligenti”, è possibile per la grande maggioranza, ed è insieme, conclusivamente, umano e cristiano. Tale comportamento è quindi doveroso, da parte di tutte le persone “intelligenti”.

 

 

 

 

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