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COME TROVARSI IN GUERRA DALLA SERA ALLA MATTINA

SENZA COMPRENDERNE IL MOTIVO

Qualche riflessione di un cittadino qualsiasi sull’intervento in Libia

 

 

Di Luigi Pinelli

 

Nel terzo millennio l’inizio della primavera sembra essere diventato un appuntamento con la guerra.

Il 20 marzo del 2003 scoppiava infatti l’ultima guerra del Golfo, ad opera di una coalizione di trentacinque paesi che  si concludeva con la cattura di Saddam Hussein e con la sua sostituzione con un governo apparentemente di  tipo occidentale, che però non ha ancora posto fine ad una catena di attentati costata la vita anche a troppi militari italiani in missione in quel paese.

Il 19 marzo dell’anno 2011 in corso, invece, mentre l’argomento del giorno sembrava quello della partita di calcio serale del Milan a Palermo (“giustamente” conclusasi con la vittoria dei locali), ci sorprendeva la notizia - senza preavviso -  che cinque paesi (Francia, Inghilterra, Stati Uniti, Canada e Italia) avevano deciso di dare immediata attuazione alla risoluzione n. 1973 dell’ONU, passando senza alcun indugio a vie di fatto nei riguardi della Libia con missili, sommergibili, navi da guerra e aerei.

Lo stato di guerra ha francamente preso alla sprovvista, come un fulmine a ciel sereno, una opinione pubblica del tutto impreparata ad una siffatta e così rapida  evoluzione nei riguardi di una vicenda non molto diversa da quelle presenti in tante altre zone del mondo.

Per farsi una qualsiasi idea su cosa stia avvenendo e perché, è perciò indispensabile cercare di ricostruire almeno sommariamente il percorso attraverso il quale si è giunti ad uno stato di guerra di cui nessuno – almeno a livello di non addetti ai lavori – aveva avvertito neppure i sintomi.

La scintilla che ha portato all’attuale incendio è costituita dalla rivolta scoppiata a Bengasi nella “giornata della collera” del 17 febbraio u.s. e propagatasi poi a macchia d’olio in gran parte della Libia.

In seguito alla sanguinosa repressione messa in atto dal regime, costata un numero di vittime di cui non si conosce l’esatta entità, la questione è finita all’attenzione dell’ONU, il cui Consiglio di Sicurezza, con la Risoluzione 1970/2011 del 26 febbraio 2011, disponeva nei confronti della Libia un immediato embargo riguardante armi e altri materiali militari, accompagnato dalla intimazione  di porre immediatamente fine alla violenza repressiva, di adottare misure per soddisfare le legittime esigenze della popolazione, di garantire il rispetto dei diritti internazionali, di consentire l'accesso immediato per il monitoraggio dei diritti umani, di garantire la sicurezza di tutti i cittadini stranieri e dei loro beni, di facilitare la partenza di coloro che desiderassero lasciare il paese, di permettere il passaggio sicuro degli aiuti umanitari e medici nonché, infine, di togliere immediatamente le restrizioni su tutti i mezzi di informazione.

Il 17 marzo successivo, ritenuto che il Governo libico non avesse ottemperato alle prescrizioni impartitegli, il medesimo Consiglio di Sicurezza dell’ONU  approvava, con 10 voti favorevoli ma, questa volta, con 5 astensioni particolarmente significative (Brasile, Cina, Germania, India e Russia),  la Risoluzione 1973/2011 recante nuove misure  contro Gheddafi e i suoi collaboratori (tra cui il blocco di tutti i loro beni all'estero ed il divieto di viaggio e di vendita di armi).

Per effetto di tale ulteriore Risoluzione, la Francia, gli USA, l’Inghilterra, la  Spagna, il Canada e l’Italia dal 19 marzo stanno dando attuazione all'operazione militare denominata “Odyssey Dawn”, con la collaborazione di Danimarca e Belgio, con la non meglio precisata disponibilità di Norvegia, Svezia, Lituania, Polonia e Olanda e con le adesioni (a parole) anche di Paesi arabi, quali Qatar ed Emirati arabi uniti, e finanche dell’Australia.

Che dalle parole si sia passati ai fatti è attestato dai raids aerei francesi e inglesi e dai missili Tomahawk americani scatenati sugli obiettivi sensibili del regime, che reagisce armando anche i civili, e dall’impiego di navi da guerra e sottomarini nelle acque antistanti la Libia, dai Tornado in decollo dalle basi italiane e dalla documentazione degli effetti  degli attacchi puntualmente fornita dalle reti televisive.

Per il resto, anche a distanza di qualche giorno dall’inizio dell’operazione militare formalmente disposta dall’ONU ma concretamente voluta soprattutto dalla Francia, restano sostanzialmente oscure (almeno per i comuni cittadini ma probabilmente anche per gran parte degli addetti ai lavori) le ragioni reali di una iniziativa siffatta, gli obiettivi perseguiti e le modalità di realizzarli.

Stranamente la situazione in atto presenta per certi versi molte somiglianze con un precedente risalente al 1911, esattamente a cento anni fa, allorché l’Italia improvvisamente recapitò - il 28 settembre - un ultimatum di ventiquattro ore alla Turchia nel quale lamentava in modo palesemente interessato presunti soprusi  ai civili e soprattutto ostacoli al commercio in Tripolitania e Cirenaica, allora province turche. Nonostante la risposta accomodante del Governo turco, con il pretesto che essa fosse pervenuta un paio di ore dopo la scadenza dell’ultimatum l’Italia non solo annunciò subito di "aver deciso di procedere all'occupazione militare della Tripolitania e della Cirenaica" ma diede contestualmente il via alle operazioni militari prima contro la torpediniera turca Tocat, incrociata casualmente, e poco dopo con una lunga campagna conclusasi con il trattato di pace firmato solo il 18 ottobre 1912, con l’annessione delle due province. Il mantenimento della sovranità italiana sulla Cirenaica impegnò però i vincitori in una lunga e dura repressione condotta per anni dai generali Badoglio e Graziani, terminata solo con l'esecuzione del capo dei ribelli Omar al-Mukhtar avvenuta il 15 settembre 1931.

Dalla sommaria ricostruzione di tale vicenda, di cui è difficile menare vanto pur tenendo conto del contesto assai diverso dall’attuale, si ricava, benché gli obiettivi dichiarati e non dichiarati fossero allora facilmente intuibili da tutti fin dall’inizio delle ostilità, che la durata di iniziative del genere e dei relativi effetti non sono quasi mai esattamente preventivabili.

Su tali precedenti storici, di fronte alla attuale improvvisa ed inattesa iniziativa dell’ONU la memoria dei fatti del 1911 non avrebbe dovuto suggerire all’Italia qualche prudente momento in più di riflessione prima di mettere a disposizione le sue basi militari, dalla sera alla mattina, senza conoscere neppure chi fosse a capo della missione che avrebbe dovuto servirsene? Possibile che gli umilianti imbarazzi, le difficoltà ed i costi patiti dalla fine della seconda guerra mondiale fino ai giorni nostri per il ripristino di accettabili rapporti politici ed economici con una Libia non immemore della brutale colonizzazione di un secolo fa e nel frattempo assurta da ex colonia a maggior fornitore di gas e petrolio per il nostro paese non siano tornati in mente a nessuno?

Oggi, data l’inutilità – a distanza di un paio di settimane dall’ingresso nelle ostilità - di stare a piangere sul latte versato, altri sono però i quesiti su cui sollecitare una risposta istituzionale che aiuti  i cittadini non inquadrati a decifrare con esattezza le ragioni dell’intervento, a capire in quale ginepraio ci si sia cacciati, ad ipotizzare le modalità ed i tempi per venirne a capo ed a stimarne le conseguenze per il futuro.

Scarso pregio, come direbbero i giuristi, sembrano infatti meritare le interpretazioni dei partiti, nella quasi totalità sostenute come sempre soprattutto per “partito preso” (la ripetizione non è involontaria), con una logica che ricorda quella utilizzata a suo tempo dalla inquisizione nel processo a Galileo, evidentemente non proponibile a coloro che, per farsi liberamente una opinione su quanto sta accadendo, vorrebbero piuttosto che qualcuno desse una risposta ai molti quesiti che la situazione propone.

 

Quali sono i presupposti giuridici dell’intervento?

 

Che Gheddafi sia e sia stato un dittatore pare fuori discussione. Che possa essere abbattuto dai suoi amministrati è quindi una eventualità che chiunque sia arrivato al potere con la violenza deve mettere in conto.

Che una cosa del genere avvenga ad opera di paesi terzi è invece un altro paio di maniche, per varie ragioni.

Il mondo, infatti, è pieno di regimi accusati di violazioni dei diritti umani, che vanno - ad esempio - dalla Siria, da Cuba o dall’Iran alla Cecenia, al Tibet, alla Somalia, al Sudan ed a tanti altri paesi in cui le regole delle democrazie occidentali sono pressoché inesistenti.

Su tali presupposti, una domanda è inevitabile: perché l’ONU e soprattutto francesi ed inglesi si sono sentiti in dovere di partire lancia in resta, quando l’inchiostro della Risoluzione 1973 non si era ancora asciugato, unicamente per il caso Gheddafi e perché solo oggi  piuttosto che nei precedenti quaranta anni di regime caratterizzati dagli stessi comportamenti?

Nella specifica situazione della Libia, tra l’altro, è ragionevole chiedersi anche se e quanto sia lecito intervenire in quella che, più che una rivolta, sembra essere piuttosto una guerra civile tra fedelissimi del regime ed ex collaboratori ribellatisi al Rais ma corresponsabili delle violazioni dei diritti umani perpetrate nei quaranta anni di regime.

Il comma 7 dell'art. 2 della Carta delle Nazioni Unite, infatti, stabilisce che «nessuna disposizione del presente Statuto autorizza le Nazioni Unite ad intervenire in questioni che appartengano alla competenza interna di uno Stato». L'articolo 39 aggiunge poi che il Consiglio di Sicurezza possa consentire il ricorso alla forza militare “soltanto dopo aver accertato l'esistenza di una minaccia internazionale della pace, di una violazione della pace o di un atto di aggressione da parte di uno Stato contro un altro Stato”.

Sul punto, tra l’altro, la Cina aveva già espresso qualche perplessità anche di altra natura, sottolineando l’otto marzo scorso l’opportunità di valutare se le gli interventi ipotizzati “siano utili a riportare la stabilità nel Paese” e se possano portare a “fermare le azioni violente”, aggiungendo che ”la sovranità e l'integrità territoriale” della Libia non devono essere messe in discussione.

Verosimilmente anche l’ONU deve avere avuto qualche dubbio se ha deciso di autorizzare solo la no-fly zone, per impedire agli aerei di Gheddafi di alzarsi in volo per sparare sui ribelli. Di fatto, però, stando alle notizie dei mezzi di informazione gli aerei francesi e inglesi bombarderebbero non solo gli aerei ma anche i mezzi corazzati e altre installazioni terrestri del Rais, non solo andando oltre la no-fly zone ma colpendo involontariamente anche i civili.

Su tali presupposti, si può essere del tutto tranquilli sul fatto che la rapidità con cui Francia ed Inghilterra hanno aperto le ostilità non sia dovuto a ragioni che poco o nulla hanno a che vedere con le finalità umanitarie e democratiche? Per l'Italia non sarebbe stato meglio pretendere di poterci vedere meglio, prima di mettere le proprie basi, con conseguenze quasi certamente pregiudizievoli dei propri interessi economici e non solo, a disposizione di attività militari non chiaramente finalizzate ad obiettivi di esclusiva natura umanitaria?

Ovviamente, non può escludersi che l’Italia si sia già data le risposte proposte dai vari quesiti di cui sopra e da quelli che seguono. Ma, anche laddove così fosse, un ulteriore domanda sorgerebbe spontanea: perché nessuno si è sentito in dovere di estenderle anche agli italiani?

 

Chi sono i ribelli e quali sono i loro obiettivi? E chi li ha armati?

 

Una seconda domanda chiaramente conseguente alla prima, riguarda invece i ribelli: chi sono realmente costoro? Qualcuno ne conosce nomi e cognomi? Sono dei veri democratici o solo degli aspiranti dittatori alternativi al dittatore in carica? E quali sono i loro obiettivi? E chi li ha armati, dato che in piazza capita che si scenda anche da noi, magari non solo per manifestare pacificamente ma anche per fracassare allegramente incolpevoli vetrine, dare fuoco ad autovetture, meglio se della polizia, o bruciare bandiere, ma non è normale e non è mai accaduto che vi si acceda dalla sera alla mattina già equipaggiati con bombe, lanciarazzi e cannoni, pronti - vale a dire - a misurarsi con l’esercito regolare senza che qualcuno abbia provveduto a mettere a disposizione per tempo gli armamenti, ad addestrarne all’uso gli aspiranti rivoltosi  ed a nascondere tutto fino al momento della battaglia?

 Non è sufficiente una semplice riflessione del genere per alimentare almeno il dubbio che quella in atto nella Libia sia, più che una protesta di piazza, una vera e propria guerra civile tribale come tante altre, e per indurre a qualche migliore riflessione sulla legittimità dell’intervento esterno?

Che nessuno abbia avvertito l’esigenza di acquisire e fornire preliminarmente risposte a quesiti del genere è, oltre che sorprendente, indicativo di una improvvisazione affatto rassicurante.

Proprio oggi, per la verità, il ministro degli esteri italiano ha fatto sapere che “abbiamo deciso di riconoscere il Consiglio Nazionale di Transizione come unico interlocutore legittimo della Libia per le relazioni bilaterali”, sottolineando anche che la risoluzione dell’ONU “non impedisce” di fornire armi ai ribelli.

Evidentemente, a certi livelli si sanno cose che al comune cittadino non è dato di conoscere, che indurrebbero a supporre che non solo si sappia chi siano i ribelli ma addirittura che le finalità dell’intervento non siano solo quelle  della semplice difesa della incolumità dei cittadini ma comportino anche la partecipazione alla partita in gioco tra i cittadini della Libia.

Cosa dire in proposito? Che senza informazioni ulteriori lo sconcerto è inevitabile, almeno in punto di diritto, e che resta solo da sperare egoisticamente che la scelta risulti almeno suffragata da adeguate ragioni di fatto.

Che senso avrebbe, se non altro, essere andati temerariamente in guerra per scoprire poi che, per qualche cinico calcolo geopolitico o di convenienze, l’obiettivo di qualcuno era semplicemente quello di sostituire un Gheddafi con un personaggio della stessa stoffa o, peggio ancora, con un regime islamico di tipo iraniano qualora la situazione dovesse sfuggire di mano alla improvvisata coalizione impegnatavi?

 

Quali sono gli obiettivi dell’intervento deciso dall’ONU e chi ne è alla guida?

 

            Benché i mezzi di informazione si siano immediatamente mobilitati e nelle televisioni i dibattiti si susseguano continuamente, qualcuno può ragionevolmente affermare che gli obiettivi ed i margini della missione “umanitaria” siano sufficientemente chiari?

A parte il fatto che “proteggere i civili e sostenere i ribelli” sono due obiettivi non coincidenti e difficilmente conciliabili, soprattutto la fulminea partenza lancia in resta della Francia non accredita in qualche misura i dubbi avanzati da taluni sui reali obiettivi di un paese fino ad oggi poco inserito in una provincia ricca di petrolio come la Cirenaica?

E non significa niente, in proposito, che una operazione militare abbia potuto aver inizio prima ancora  della designazione del comandante, dato che anche chi abbia fatto solo il servizio di leva sa che la guerra - anche se comunque deprecabile - per sua natura e per i pericoli che comporta resta  purtroppo una delle cose più serie con cui si possa avere a che fare e come tale esige la massima chiarezza in termini di attribuzioni delle responsabilità e di rapidità delle decisioni?

 

Cosa avverrebbe in caso di mancata sostituzione di Gheddafi?

 

Sul destino programmato per il dittatore libico, nessuno ha fornito indicazioni definitive.

La risoluzione 1973, laddove afferma che l’obiettivo è proteggere i civili e far cessare le violenze, vorrebbe, implicitamente, che l’obiettivo non sia quello di liberarsi di Gheddafi.

A livello di USA, infatti, i vertici militari hanno esplicitamente affermato che “gli obiettivi di questa missione sono limitati e non prevedono la sua uscita di scena e che la missione può essere completata anche con la permanenza al potere di Gheddafi”.

Anche se oggi il Presidente Obama sembrerebbe non averne scartata la cattura, parrebbe da non escludersi che Gheddafi, in caso di inaffidabilità degli aspiranti sostituti, possa restare al suo posto anche dopo la conclusione della vicenda, seppure con perdite territoriali o con altre limitazioni al momento non intuibili.

Riguardo a tale eventualità, qualcuno da noi si è almeno chiesto quali potranno essere, alla conclusione della attuale vicenda, i rapporti tra l’Italia e il Rais riguardo alle intese economiche faticosamente raggiunte con la Libia, da Enrico Mattei fino ai giorni nostri?

Un dittatore resta comunque un dittatore ma un dittatore che con qualche ragione (dal suo punto di vista) si senta tradito è pensabile che mantenga per il nostro paese almeno la stessa affidabilità riservatagli finora, tenendo conto che di essi Andreotti osservava realisticamente che “in definitiva i vicini uno non se li può scegliere”?

 

Quale potrà essere la durata dell’intervento?

 

Si parla, in proposito, di novanta giorni.

Ma qualcuno è in grado di prevedere realmente quale sarà l’evoluzione delle cose col passare dei giorni, dovendosi paventare anche un progressivo e già avviatosi sgretolamento delle posizioni degli interventisti, minate dai troppi nascenti “distinguo” sia tra “i volonterosi” che all’interno del nostro litigioso paese?

Cosa potrebbe accadere, ad esempio, nel momento in cui qualche bomba con il timbro dell’Onu dovesse finire su un obiettivo sbagliato (è già accaduto), non solo a causa della approssimazione con cui la missione pare muoversi, al momento, ma semplicemente perché una eventualità del genere rientra nell’ordine delle cose?

Kossovo, Afghanistan o Iraq non hanno insegnato niente?

 

Il nostro Paese potrebbe essere colpito da missili?

 

In passato l’Italia è già stata il bersaglio di un missile lanciato dal regime di Gheddafi, che non raggiunse i nostri territori in quanto privo della gittata occorrente.

Si può essere sicuri, oggi, che l’arsenale libico non si sia dotato nel frattempo di armi in grado di raggiungere i nostri territori o che il nostro paese disponga di sistemi di difesa idonei a neutralizzarne gli attacchi prima che raggiungano gli obiettivi?

O qualcuno si è semplicemente dimenticato, lanciandosi in una vicenda senza adeguate valutazioni preventive, che la distanza tra Libia e Italia non supera i duecento chilometri?

 

Come affrontare il fenomeno dei “migranti”? E’ ipotizzabile pagare i “clandestini” per allontanarli?

 

Maria Giovanna Maglie ha osservato, in un recente dibattito televisivo, che nei riguardi della immigrazione occorre innanzitutto una impostazione culturale diversa da quella che utilizza il termine “migranti”, poeticamente attraente ma inadeguato, per comprendervi tutti coloro che arrivino in Italia al di fuori dei normali flussi turistici o della immigrazione regolare.

Siccome non possiamo non sapere che non è possibile spalancare le porte indiscriminatamente a tutti, se non a prezzo di far naufragare anche le migliori intenzioni, è essenziale fare subito, all’interno dei cosiddetti “migranti”, una netta distinzione tra i “profughi”, in fuga dal paese di origine per sottrarsi alla guerra,  e i “clandestini”, vale a dire coloro che accedono ad un paese diverso dal loro al di fuori delle disposizioni che regolano l’immigrazione legale.

 

Cosa fare per i “profughi da zone di guerra”?

 

Per i profughi, effettivamente profughi da zone di guerra, non è in discussione il diritto all’asilo ed all’assistenza in base alle norme di diritto internazionale.

Da Bruxelles si sostiene che, a tal fine, l’Italia avrebbe già avuto 139 milioni di euro dalla UE.

Per l’eventuale rimpatrio, la stessa UE  fa sapere attraverso il suo portavoce che «la politica di rimpatrio si fa con le autorità dei Paesi d'origine».

Senza patti bilaterali, dunque, la soluzione del rimpatrio non sarebbe percorribile.

L’alternativa, evidentemente, sarebbe rappresentata unicamente dalla “protezione temporanea”, prevista dalla direttiva 55 del luglio 2001, varata dopo il Kosovo ma mai usata.

Quello che l’UE non risulta aver assicurato, oltre alla erogazione dei fondi UE, è la disponibilità a ripartire i profughi tra i paesi dell’Unione, non in quote uguali ma in proporzione al numero degli abitanti dei singoli Stati.

La questione non è cosa da poco, posto che l’ipotesi di lasciare al solo Stato - nel caso di specie all’Italia - che disgraziatamente si trovi più vicino al paese di partenza dei flussi, di farsi carico della accoglienza della totalità dei profughi, qualunque ne sia il numero, avrebbe ben poco a che fare con il concetto di solidarietà, di cui tanti si riempiono la bocca, e molto invece con quello di egoismo da parte degli altri membri della UE..

Sostenere che ogni Stato debba difendere da solo confini che non sono solo propri ma coincidono con una parte dei confini della UE equivarrebbe ad affermare che l’Umbria, in quanto priva di  sbocchi sul mare, non dovrebbe concorrere alla difesa dei litorali da invasioni di estranei.

Se così fosse, a quale scopo restare nella UE? Solo per farsi imporre il calibro dei mandarini o la formula  della pizza napoletana?

 

Cosa fare per i “clandestini”?

 

 Per i clandestini l’unico provvedimento adottabile in base alle leggi in materia non può essere che quello del rimpatrio, con le buone o con le cattive, per intuibili esigenze di sicurezza interna, dato che tra questi ultimi, accanto a quelli realmente in cerca di un lavoro seppure attraverso un percorso sbagliato, possono annidarsi non solo delinquenti comuni di qualsiasi specie ma anche terroristi prezzolati al soldo di altri Stati o di altre organizzazioni internazionali del terrore.

Naturalmente, anche il ricorso al rimpatrio coatto presume il preventivo raggiungimento di idonei “accordi bilaterali” con i paesi di provenienza senza i quali la forzatura dei loro confini per scaricarvi i rimpatriandi equivarrebbe ad un vero atto di guerra.

Su tali presupposti si comprendono ora meglio, fino a giustificarle in gran parte, anche le intese commerciali stabilite in un recente passato con la Libia, spesso anche in rimessa dal punto di vista economico, in cambio del contenimento dei flussi migratori ad opera dello stesso paese di origine e della disponibilità a permettere anche il rimpatrio coatto dei clandestini..

Che venire a patti con regimi dittatoriali possa anche non piacere a tutti è comprensibile ma chi volesse discriminare le controparti sotto tale profilo dovrebbe avere anche il coraggio di interrompere ogni relazione  probabilmente con più della metà degli Stati del pianeta.

Ovviamente, l’UE dovrebbe porre in qualche misura a carico di tutti i membri dell’UE anche i costi del rimpatrio dei nostri “clandestini”, così come pone giustamente a carico anche dell’Italia la salvaguardia degli allevamenti delle cozze in Bretagna, che - in termini di sola convenienza – l’Italia avrebbe probabilmente interesse a boicottare a vantaggio degli allevatori di mitili del nostro meridione.

 

E’ ipotizzabile pagare “i clandestini” perché se ne vadano spontaneamente”

 

Da noi, purtroppo, mentre da un lato si ha addirittura ritegno - contrastati non solo da una certa ideologia ma anche da istituzioni religiose - a parlare del “rimpatrio coatto” previsto dalla legislazione vigente,  dall’altro non si hanno imbarazzi ad ipotizzare di dare 1.500, 2.000 o 2.500 euro ai singoli “migranti” semplicemente affinché accettino di andarsene spontaneamente.

Ma davvero qualcuno può sostenere in buona fede che una cosa del genere risolverebbe il problema, facendo cessare i flussi in entrata o, piuttosto, che non ne incentiverebbe la portata? Non sarebbe come pagare il pizzo alla mafia aspettandosi con ciò di mettere fine alle successive estorsioni?

“Dum Romae consulitur”, purtroppo, molti clandestini continuano invece a disperdersi a piacimento nel paese, facendo passare il messaggio che "se vieni in Italia puoi tranquillamente scappare e andare dove vuoi".

Ma prevenire non si è sempre detto che è meglio che reprimere?

 

Da dove vengono i clandestini?

 

Al momento, in base alle notizie fornite dai mezzi di informazione, i flussi sulla povera Lampedusa sono costituiti quasi esclusivamente da tunisini, da cittadini - cioè - nel cui paese non c’è stata guerra ma un più o meno semplice rimpasto di governo.

Le persone sbarcate in Italia dalla Tunisia e momentaneamente accolte in base al diritto della navigazione, pertanto,  non possono essere classificate come “profughi” ma esclusivamente come “clandestini”, indipendentemente dalle buone ragioni che possano muovere taluni di loro.

La Tunisia, pur formalmente retta dal Bey, è stata soggetta al protettorato francese dal 1881 al 1956.

Nonostante ciò, ai clandestini di nazionalità tunisina che dal nostro paese in qualche modo riescano ad arrivare al confine francese di Bordighera, anche la Francia, ancorché entrata nell’attuale conflitto sotto il mantello dei “motivi umanitari”, riserva infatti ora semplicemente il divieto di accesso nel suo territorio, del tutto immemore degli oltre settanta anni di convivenza.

Come è possibile che qualcuno di noi pensi di doverli addirittura pagare, dimenticando che l’obbligo dell’Italia sarebbe prima di tutto quello di tutelare la sicurezza degli italiani?

Che anche i “clandestini”, che evidentemente non si divertono ad avventurarsi in traversate rischiose e senza prospettive sicure, debbano essere trattati con tutta la possibile “umanità” è fuori discussione per qualsiasi nazione civile.

Che però “l’umanità” debba essere coniugata con il rispetto della legislazione vigente deve essere un punto fermo, altrettanto irrinunciabile, non potendo andare a scapito della sicurezza di tutti.

 

Da dove potranno venire i “profughi”? Come assicurare loro l’assistenza?
E  l’Europa può lavarsene le mani?

 

Oggi dalla Libia non arriva quasi nessuno, evidentemente per l’impossibilità di allontanarsene. Ma nel prosieguo, secondo il ministro Maroni, vi è “il rischio, come avvenuto in altri scenari di guerra, di una fuga in massa di profughi che scappano dalle violenze e dalle bombe.

Fatalmente questi profughi arriveranno in Europa e probabilmente in Italia.

I numeri non sono quantificabili ma il rischio di decine e decine di migliaia di profughi c’è e lo valutiamo con grande preoccupazione ed attenzione”.

La questione va ed andrà affrontata, evidentemente, solo in base alle disposizioni che regolano la materia, che demandano al Prefetto il riconoscimento (con apposito decreto) ed il rilascio dell’attestato della qualifica di “profugo”, occorrenti perché gli interessati possano usufruire dei benefici giuridici ed economici previsti dalla legislazione vigente.

Cercare scappatoie di altra natura vorrebbe dire, anche in questo caso, comprometterne la possibilità di un inserimento nelle comunità di destinazione senza reazioni di rigetto. 

Ovviamente è indispensabile, però, che l’Italia, dopo essere entrata in ballo senza il tempo di riflettere adeguatamente sul da farsi, si batta fin da ora da un lato per la immediata ripartizione dei profughi e delle spese del conflitto tra tutti i ventisette Stati dell’Unione, secondo la loro consistenza, e dall’altra per la tempestiva individuazione di siti e strutture  con cui fronteggiare una ondata ben più consistente di quella attuale, tenendo conto della improvvisazione (Bertolaso, dove sei?) e delle difficoltà incontrate per la individuazione di centri di raccolta a livello di regioni e comuni. che stanno caratterizzando la risposta al flusso dalla Tunisia non ancora esauritosi.

A parole, occorre prenderne atto, tutti si dichiarano disponibili all’accoglienza, al punto che anche il più sprovveduto estraneo alla politica ha imparato da tempo che prima di esprimere una qualsiasi opinione in materia è prudente premettere che “io non sono razzista” per evitare di vedersi automaticamente tacciato di razzismo, anche se, nella società civile che non ha niente a che fare con i partiti e come tale è in buona fede, si sa benissimo che da noi è più facile che si avversi aprioristicamente qualcuno per motivi di tifo calcistico piuttosto che per ragioni di razza, come alcuni vorrebbero far credere non disinteressatamente. 

In realtà, i motivi per cui la disponibilità della gente all’accoglienza è meno frequente nei fatti che a parole sono semplicemente la conseguenza delle difficoltà di inserimento di persone con abitudini tanto diverse in un tessuto caratterizzato da regole di convivenza di tutt’altra natura, in grado di assorbire senza traumi e anzi con curiosità la convivenza con culture diverse ma comprensibilmente restie a dover invece adeguare il proprio modo di vivere a culture estranee in conseguenza di invasioni senza regole in grado di capovolgere i termini del problema.

  “Se qualcuno la pensa diversamente, ospiti i clandestini a casa sua”, ha affermato in proposito l’on. Caldiroli, che come  ministro della semplificazione non poteva semplificare meglio di così la sostanza della questione.

 

Ma i pacifisti italiani dove sono finiti? E, oggi, sono pacifisti quelli di sinistra o quelli di destra?

 

Fra le molte cose che hanno destato stupore nella vicenda di cui trattasi, ve ne è una di cui quasi non si parla, come se fosse sfuggita a tutti.

Possibile che nessuno si sia accorto come dall’inizio dell’intervento militare fino ad oggi non si siano visti sfilare per le strade i consueti colorati cortei con le bandiere della pace (in altre circostanze esposte anche sui campanili di qualche chiesa), con la partecipazione dei centri sociali e con la prudente adesione (a titolo personale, naturalmente, dato che non si sa mai) dei soliti politici di medio calibro in cerca di visibilità, ricordando come rituali del genere non siano mancati neanche in occasioni in cui il rumore delle armi proveniva dall’altra faccia del pianeta?

Cosa dire in proposito? Niente, dato che in certi casi il silenzio dice più di tante parole.

Altrettanto singolari, e forse anche di più, sono le posizioni espresse in un dibattito televisivo da alcuni esponenti di primo piano dei partiti presenti attualmente in parlamento.

La senatrice Finocchiaro, ad esempio, non ha avuto difficoltà ad affermare che “è dolorosissimo ma è legale intervenire in Libia”.

L’on. Concia, invece, ha spiegato che essere pacifisti non vuol dire tollerare che si uccidano popolazioni ed ha fatto sapere che Cohen Bendit ha detto ai francesi di ricordare che a suo tempo essi abbandonarono gli spagnoli e che (anche per questo) Franco poté imporre la dittatura.

Secondo la stessa onorevole, la Lega, non entusiasta dell’intervento militare, “non è pacifista, non vuole fare solo questa guerra qui”.

Soltanto l’ex  onorevole Oliviero Diliberto, attualmente segretario della Federazione della Sinistra (FdS), è apparso coerente con  il pacifismo sostenuto da sempre e ribadito anche nelle attuali circostanze rispetto a tanti entusiasti interventisti dell’ultima ora.

Qualcuno, memore di tanti precedenti riguardanti il “pacifismo”, ne ha tratto la conclusione che la sinistra tradizionale è diventata di destra mentre la destra, stanti le riserve espresse dalla Lega e lo scarso entusiasmo della coalizione governativa nei riguardi dell’attuale intervento armato, parrebbe diventata di sinistra.

Ma siccome “niente è più difficile da vedere con i propri occhi di quello che si ha sotto il naso”, come affermava  Goethe, nessuno si illuda che certe inversioni di rotta possano influire sulle scelte degli elettori nel momento in cui saranno chiamati ad esprimersi con il voto, anche perché, in realtà, una certa sinistra - per bocca di esponenti tuttora investiti di funzioni pubbliche - si era già dimostrata interventista nel lontano 1956, in occasione dell’ingresso dei carri armati dell’URSS in Ungheria, ove era in corso grande rivolta di piazza soffocata poi nel sangue.

Per la cronaca, volendo scendere nei dettagli, va però ricordato che in quella circostanza l’appoggio ideologico fu riservato al governo dittatoriale e non ai rivoltosi, con insignificanti riflessi sull’esito delle consultazioni elettorali successive.

La coerenza, evidentemente, è una virtù poco apprezzata dalla politica.

 

L’Italia sta incamminandosi verso la Repubblica presidenziale?

 

         Un cenno, a margine della attuale vicenda, merita anche quanto occorso a livello di massime istituzioni dello Stato.

         A nessuno può essere sfuggito come all’ONU per l’Italia  abbia parlato il nostro Capo dello Stato, che vi è intervenuto con un pregevole discorso in lingua inglese.

         I mezzi di informazione hanno poi riferito anche di varie telefonate intercorse tra il nostro Presidente e quello degli Stati Uniti in relazione alla mobilitazione militare in atto.

         Per quanto riguarda questioni interne al Paese, invece, è di questi giorni la convocazione diretta ad opera del Presidente della Repubblica dei capigruppo del Senato e della Camera, in seguito alle tensioni che ne hanno caratterizzato ultimamente i lavori.

         Ovviamente, le iniziative del Presidente non si prestano a rilievi.

         Quello che sorprende, semmai, è il fatto che per la prima volta l’immagine del Presidente della Repubblica sia apparsa, in parte anche operativamente, in primo piano rispetto a quella del Presidente del Consiglio, evidentemente assorbito da altri impegni e insolitamente più contenuto. 

         La domanda è: siamo forse di fronte a prove di Repubblica presidenziale?

         E potrà esservi un seguito, vista la buona impressione ricavatane, anche se con politici eletti senza vincolo di mandato l’ipotesi di un cambiamento del genere, anche ove inserito in un programma elettorale, resterebbe in balia degli umori dei troppi personaggi che della democrazia e della lealtà nei riguardi degli impegni presi con chi li ha eletti hanno un concetto del tutto personale?

 

5 aprile 2011                                     Luigi PINELLI

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