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«Il bene è la prima parola dell’etica"

Intervista al Prof. Antonio Da Re di Andrea Lavazza

La filosofia morale indaga i grandi temi dell’uomo, che riguardano tutti da vicino. Ma la specializzazione tecnica ha spesso tenuto lontana la riflessione contemporanea dall’ambito della cultura diffusa. Gettare un ponte è allora un servizio tanto più utile quanto più l’opera è salda e agevole da "percorrere". Entrambe qualità del recente volume di Antonio Da Re "Le parole dell’etica", Bruno Mondadori, pp. 216, euro 18), docente all’Università di Padova, membro del Comitato nazionale per la bioetica, filosofo stimato e autore di numerosi saggi.

D. - Professore, parlare oggi di etica al di fuori dell’accademia sembra rimandare subito agli episodi più eclatanti di immoralità pubblica, dimenticando che c’è un discorso sull’etica il quale – da Platone a oggi – interpella ciascuno nei propri costumi e nelle proprie abitudini di vita. Quali sono allora le parole dell’etica che dobbiamo cominciare a rivalutare?

R. - «Ne scelgo due tra le molte che meriterebbero di essere menzionate e che vengono approfondite nel volume: bene e virtù. Ai miei studenti sono solito dire, quasi a mo’ di slogan, che la prima parola dell’etica non è il dovere, la norma o l’obbligazione. La prima parola è il bene: è a partire dalla prioritaria e fondante esperienza del bene, a partire dalla nostra aspirazione alla vita buona che può trovare un’adeguata comprensione il momento espressamente normativo e obbligante, il quale pure rientra nell’esperienza etica. Il lessico delle virtù, prepotentemente riproposto dalla riflessione contemporanea, allude poi a quei tratti del carattere che attraverso l’esercizio e la ripetizione di atti dello stesso tipo danno vita ad habitus, ovvero a disposizioni stabili; tali disposizioni sono chiamate virtù, se gli atti sono buoni; oppure vizi, se gli atti sono cattivi. Attraverso il tema delle virtù si richiama l’attenzione sull’importanza della cura di sé e della formazione del proprio essere. Per me addirittura questo costituisce uno dei compiti fondamentali dell’etica».

D. - A tale proposito, il primo capitolo del suo libro s’intitola «Il duplice compito dell’etica». Che cosa intende sostenere?

R. - «Nella mia prospettiva l’etica assolve fondamentalmente a due compiti: il primo consiste nell’analisi critica e riflessiva dell’ethos, inteso come insieme di comportamenti, di modi di agire, di costumi, di consuetudini; il secondo compito ha a che vedere con la cura di sé e con la formazione dell’ethos, inteso questa volta come carattere del soggetto. Riguardo al primo compito, quello più propriamente critico, va detto che l’etica non può identificarsi con l’ethos esistente; il fatto che determinati comportamenti siano assai diffusi socialmente non comporta che essi siano anche eticamente fondati. Qui si apre una riflessione a mio parere centrale: nella società post-moderna assistiamo a un moltiplicarsi delle forme dell’ethos e a un conseguente disorientamento della coscienza morale del soggetto; e l’etica, in un simile contesto, è ancor più chiamata a un’opera di interpretazione critica».

D. - Nel libro lei porta un esempio molto "concreto", si direbbe quasi "politico", ovvero l’approvazione nel 2009 del cosiddetto "Pacchetto sicurezza" da parte del Parlamento italiano...

R. - «In quell’occasione si sono confrontati e scontrati due tipi di ethos, quello che in nome della tutela della sicurezza pubblica imponeva ai medici, secondo la prima formulazione della legge, di denunciare i clandestini che si fossero rivolti alle strutture sanitarie per le cure; e quello, più tradizionale, risalente alla stessa etica ippocratica, che affida al medico una missione universalistica, chiedendogli di curare chiunque. Come è noto la versione finale della legge ha recepito le ragioni dei medici, esentandoli dall’obbligo della denuncia del clandestino, anche se lo stesso non si può dire per altre professioni (per esempio gli assistenti sociali). Si è trattato di un confronto-scontro a tratti molto duro tra diversi tipi di ethos; a mio parere l’etica aveva qui il compito di mostrare la maggior pertinenza dell’ethos ippocratico rispetto a quello che vorrebbe trasformare il medico in un poliziotto, sia pure per esigenze comprensibili di difesa della sicurezza».

D. - Ma questo compito riflessivo dell’etica non rischia di essere troppo debole e inefficace, anche alla luce del clima deteriorato che si respira nella vita pubblica italiana?

R. - «In effetti, la riflessività dell’etica da sola non basta. Per questo nel libro parlo di una doppia riflessività, quella dell’etica e quello del soggetto. Per rimanere all’esempio: l’ethos ippocratico non può continuare a sussistere solo confidando in un riconoscimento giuridico, che pure è rilevante; esso necessita di essere continuamente sostenuto e alimentato da significati e motivazioni personali. Per questo è fondamentale il ruolo dei soggetti singoli, della loro riflessività, della loro capacità valutativa e quindi anche della corrispondente cura di sé. Riguardo all’attualità, è desolante quanto sta emergendo in queste settimane a proposito di abitudini e stili di vita di persone investite di responsabilità pubbliche al più alto livello. Preoccupano però anche una certa qual indifferenza, un senso di assuefazione e di disincanto, che emergono nell’opinione pubblica. È l’attestazione di un vero disorientamento morale e della necessità di ricostruire un nuovo ethos, per evitare il rischio di un collasso morale».

D. - Sembra che il dibattito accademico sia progressivamente dominato dall’approccio analitico di marca anglosassone. Come cerca di rinnovare la propria proposta un’etica cristianamente ispirata?

R. - «Nel libro cerco di confrontarmi con la tradizione filosofico-morale dell’Europa continentale, nella quale mi sono formato, senza però dimenticare la rilevanza dell’approccio analitico. Di quest’ultimo ho cercato di valorizzare gli studi di pensatrici come Elizabeth Anscombe e Iris Murdoch, entrambe allieve di Wittgenstein, che tra l’altro sono anche credenti. Di Murdoch per esempio sottolineo la centralità dell’"attenzione", quasi a voler dire che la vita etica richiede preliminarmente di affinare un atteggiamento di disponibilità, di ascolto e di attesa verso il reale e verso gli altri. Al contrario, l’egoismo per Murdoch spinge a rinchiudersi in se stessi, perché è "dis-attento". L’agire dipende quindi da come si guarda al reale. In queste prospettive teoriche si riconosce l’autonomia dell’etica, anche se opportunamente tale autonomia non è considerata come assoluta; e si riconosce l’importanza della stessa esperienza di fede, che risulta feconda sul piano dell’ispirazione e delle motivazioni personali. Una fede invece "moralizzatrice", che in qualche misura si appiattisse sulle preoccupazioni normative dell’etica, finirebbe con il non rispettarne l’autonomia e, quel che è ancor più grave, per compromettere la valenza profetica e la dimensione di ulteriorità che le sono proprie».

(da Avvenire - 27 gennaio 2011)

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