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Se pur fra molti dubbi e perplessita', sono tra coloro che hanno riposto speranze nella costituzione del PdL.

Speranze poiche' ho valutato che potesse costituire un approdo alla infinita transizione politica in cui si dibatte il nostro Paese; una casa per tutti coloro che, legati alla tradizione del liberalismo democratico e riformista, potesse accoglierli, valorizzarli, consentirgli di mettere al servizio della societa' energie, esperienze, slanci, competenze.

Perplessita' per il modo con cui si e' arrivati alla costituzione del partito e, inevitabilmente, per la storia di chi ne e' stato il motore e ne e' il leader: figura che personalmente non ho mai demonizzato, a cui ho anzi riconosciuto e riconosco alcuni meriti a mio modo di vedere innegabili, ma di cui non si poteva sottovalutare l'inettitudine a saper nemmeno immaginare qualcosa che prescindesse dal proprio "ego", qualcosa che potesse strutturarsi in modo autonomo secondo principi di democrazia interna, qualcosa che, per farla breve, potesse vivere e crescere con gambe proprie assumendo le vesti di un partito vero e non di un'azienda guidata da un "amministratore delegato".

Un atteggiamento che purtroppo si e' espanso dal centro alle periferie, ove il partito e' in mano a "Berluschini" che, in quanto copie, sono peggiori dell'originale.

La situazione e' sotto gli occhi di tutti. MI pare che abbia assunto una piega peggiore delle piu' nere previsioni.
L'attuale fase di crepuscolo di una stagione credo sia egregiamente fotografata nell'articolo che propongo ai lettori di Fucinaidee: un testo che, nella sua drammatica chiarezza, mi pare non necessiti di alcun ulteriore commento.

Certo alla consapevolezza della crisi deve seguire la volonta' del riscatto.
Un impegno ed un dovere a cui la cultura liberal-democratica italiana non puo' e non deve sottrarsi.

Paolo Razzuoli
Lucca, 14 novembre 2010

Solitudine di un leader - FASE CONCLUSIVA DI UNA STAGIONE POLITICA

di Ernesto Galli della Loggia

In questo piovoso autunno italiano non sta finendo solo una maggioranza o un governo: si sta concludendo l’avventura di un uomo solo. È la solitudine di Berlusconi il dato che oggi più colpisce. E se l’uomo ha mischiato e confuso come pochi altri il pubblico e il privato, la sua solitudine pure è un fatto politico e insieme personale, dove non sai quale delle due cose è stata ed è causa dell’altra.

Le serate di Arcore e di Palazzo Grazioli sono l’immagine di una solitudine esistenziale disperata e agghiacciante, anche se nascosta dai fasti di una miliardaria satrapia. Oggi ci è chiaro: era un moderno Macbeth assediato dalla foresta di Birnam sempre più vicina, quello che si rinserrava ogni sera nelle mille stanze dei suoi mille castelli in compagnia di docili comparse. Ma non aveva mai voglia quest’uomo — ci chiediamo noi uomini normali — di scambiare quattro chiacchiere con un amico vero, con una persona normale?

È tuttavia la solitudine politica quella che impressiona maggiormente: la solitudine politica che il premier ha costruito giorno per giorno intorno a sé, imitato da troppi suoi collaboratori. L’avventura berlusconiana, partita all’inizio con un cospicuo capitale di attese e di fiducia (perfino da parte di molti nemici) si è progressivamente chiusa in se stessa, ha tagliato i ponti con tutti i settori significativi della società, ha stupidamente decretato avversione e ostracismo ad un numero sempre crescente di persone: in pratica tutte quelle della cui fedeltà ed obbedienza pronta, cieca e assoluta, non si fosse arcisicuri.

In questo modo, forse senza neppure accorgersene, gli uomini e le donne del premier, la sua classe di governo, il suo milieu, sono diventati ben presto una sorta di esercito accampato in territorio nemico, con la stessa psicologia e la mentalità degli assediati. Si dà il caso però che quel territorio fosse il loro Paese. «O con noi o contro di noi» è divenuta la parola d’ordine suicida sempre più spesso pronunciata, di cui com’era logico, hanno finito per trarre vantaggio solo gli avversari. Consigli arrogantemente respinti, suggerimenti finiti nel nulla, proposte liquidate con un’alzata di spalle sono state sempre di più la regola: allontanando sistematicamente le intelligenze che pure sarebbero state disponibili a rendersi utili. La parabola di un uomo come Giuliano Ferrara parla da sola.

Il berlusconismo avrebbe potuto facilmente — e magari anche abusivamente, se si vuole—intitolare a se stesso tutto ciò che in Italia non era di sinistra. Non solo non ha voluto o saputo farlo. Ha fatto il contrario: ha regalato alla sinistra tutto ciò che sentiva o sapeva non essere intrinsecamente suo. Estraneo fin dalle origini alla socialità politica di gruppo in quanto nato dalla felice intuizione di un uomo solo, di un capo, invece di correggere tale vocazione primigenia alla solitudine e all’obbedienza gerarchica, è andato esasperandola. Sempre più sono rimasti il capo soltanto e soltanto coloro che gli obbedivano. Certo, è rimasto sempre chi obbediva pur conservando qualche luce d’ingegno e di autonomia personale, ma le file dei puri e semplici profittatori e dei camerieri sono andate crescendo a dismisura, sono diventate un esercito, e dopo non molto tempo tutta la scena ha finito per essere occupata solo da costoro.

Una turba di mezze calzette, di villan rifatti, di incompetenti, di procacciatori: la solitudine sociale del berlusconismo si è andata sempre più incarnando in questa schiera compiacente e zelante, pronta ad ogni servilismo per il proprio personale interesse. Sono stati essi i principali artefici della muraglia invalicabile costruita intorno al potere del capo. Da essi il capo è apparso inspiegabilmente sempre più dipendere. Da essi trarre i consigli che di sconfitta in sconfitta, di fallimento in fallimento, lo stanno portando ineluttabilmente alla fine.

Più che vinto dalle inesistenti vittorie dei suoi nemici, il berlusconismo oggi crolla vittima di una sorta di autoreclusione si direbbe quasi studiata con intenzione, compiaciutamente suicida. E sempre più quello che fu per antonomasia «un uomo solo al comando» ormai appare niente altro che un uomo solo e basta. Che forse neppure si rende conto ancora di esserlo.

(dal Corriere della Sera, ediz. del 14 novembre 2010)

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