logo Fucinaidee

L’Unita’ nazionale tra mito e realta’. (IL Risorgimento, il nord e il Sud).

 

Di Andrea Talia.

 

Premessa.

 

     L’unita’ nazionale del nostro paese e’ stata da sempre malsicura, minacciata, mai veramente attuata. Ne’ si puo’ sostenere che, ormai prossimi (2011) al 150° “anniversario dell’unita’”, il problema si stia risolvendo.

    Anzi. Appaiono cosi’ sempre piu’ forti le spinte secessionistiche, complice la perdurante fragilita’ dell’identita’ italiana. Spezzata tra il Nord “produttivo”, con Milano, la capitale “morale” e il resto del paese avvolto totalmente – per questa vulgata – nella corruzione e nel malgoverno. E cosi’: a quasi un secolo e mezzo dal compimento dell’unita’, non solo “non sono stati fatti gli italiani” (1), ma “neppure l’Italia”.

    Non aiuta, poi, oltre alla mancanza di un ethos e un pathos condivisi, la geografia. L’eccessiva lunghezza (2) del paese, ha contribuito a creare due nazioni, due mentalita’, (financo) due antropologie. In sostanza, due popoli: il Nord e il Sud.

Dal 1860, l’endiade (3) Nord e Sud e’ stata vista, come “rapina” e “sfruttamento” per il Sud; “palla al piede” per il Nord.

     La “questione meridionale” e’ figlia di questa contrapposizione.

Tuttavia, pur con questo “peccato originale”, l’Italia ha superato crisi profonde che ne hanno messo a repentaglio l’esistenza. Ha superato la lacerazione aperta dalla “questione romana”. Ha cambiato tre volte regime politico e assetti istituzionali. Ha riassorbito l’ondata terroristica (anni ’70 del Novecento). Ha superato forti tensioni politiche (caduta del muro di Berlino) e sociali (Tangentopoli).

In questa ottica, gli accadimenti di oggi, visti nel lungo periodo, possono risultare lievi increspature nella continuita’ di una storia dalle radici profonde.

     L’Italia, in fondo, e’ un paese che quando ha superato i momenti di contrasto ne ha inventato subito dei nuovi. Insomma, il nostro paese non riesce a tradurre le sue diversita’, che sono la sua ricchezza e il motivo del suo fascino, in un equilibrio stabile. Ma, infine, cosa e’ meglio: la stabilita’ o il movimento?

 

 

Parte prima.

 

IL Risorgimento italiano.

 

     IL Risorgimento si presenta ancora come un fenomeno complesso, di non agevole lettura. Confluiscono in esso – sullo sfondo di rilevanti evoluzioni economiche e sociali – apporti culturali, conati politici, iniziative diplomatiche e militari.

Una “storia sbagliata” (4), segnata da tentativi di svolta, abortiti per la colpevole cecita’ dei gruppi dominanti e l’altrettanta colpevole inadeguatezza dei loro oppositori. Ma, al contempo, una nuova condizione della penisola che passa dal frazionamento all’unita’ statuale, dall’egemonia straniera all’indipendenza.

L’ambiguita’ della vicenda, non poteva che ripercuotersi nella relativa storeografia.

Divisa sia in ordine alla datazione dell’inizio dell’evento, collocato generalmente tra il 1846 e il 1848 (5), che sull’esito e il significato del processo risorgimentale.

Premesso che questa varieta’ ermeneutica appare sottintendere non tanto e non solo un effettivo pluralismo culturale, quanto una radicalizzazione di fondo, esaminiamo le diverse ricostruzioni.

-         La prima, centrale per il filone critico nei confronti del Risorgimento, si identifica nella “conquista regia”. Annessione, tout-court, quindi, al regno Sabaudo dell’Italia centrale e meridionale, merce’ gli strumenti diplomatico-militari e il ruolo propulsore di Cavour (6).

Da questo paradigma, tre variabili interpretative:

a)      le miserie e le difficolta’ del Sud – e il sottostante rivendicazionismo meridionale – originano dal ruolo meramente passivo, se non coloniale, nel processo di unificazione;

b)       il divario tra “paese reale” e “paese legale”. Come esito (scontato) di una unita’ imposta dall’alto e come esiguita’ del consenso ottenuto, almeno all’inizio, dal nuovo Stato;

c)       La necessita’ di un forte impegno politico e culturale (quasi mai riuscito) per colmare il gap e coinvolgere le masse nella vita dello Stato.

 

-         La seconda, elaborata dalla cultura comunista italiana (7) intravide la gracilita’ della nuova nazione italiana in una “mancata rivoluzione agraria”. Cioe’ in una mancata alleanza, rivoluzionaria, dovuta a una visione miope del partito democratico-mazziniano.

Piu’ specificatamente, Gramsci imputa al Partito d’Azione, composto da moderati, l’esercizio di una politica lassista, a sfondo giacobino. Ivi inclusi anche una sottostima delle finalita’ e dei problemi sociali dei contadini.

Questa teorizzazione e’ stata criticata da Romeo (8).

L’autorevole storico sostiene che una rivoluzione agraria – ove possibile – avrebbe ostacolato l’accumulazione capitalistica, necessaria alla futura industrializzazione del paese.

 

-         La terza, patrocinata da Mazzini, scorge nel Risorgimento una partecipazione dal basso. Tesi, pur con tutto il rispetto dovuto al Personaggio, nei fatti venata di utopismo.

Mazzini, peraltro, bollava l’Italia unita come “corrotta in sul nascere e diseredata d’ogni missione e mancante dell’abito fecondatore di Dio”. (9)

 

-         Ulteriori riflessioni provengono sia da Gobetti (“l’impotenza rivoluzionaria” italiana e’ priva di “eroi” e popolata solo di eretici) che dalla storeografia cattolica.

Quest’ultima oscilla tra un fenomeno integralista (non expedit; primato della Chiesa rispetto allo Stato e alla societa’ civile), il trito ritornello del Riformismo come “complotto massonico” ed atteggiamenti piu’ collaborativi ed universalistici (10).

      Possiamo dire, in estrema sintesi, che dopo le prime condanne (Pio IX), con Leone XIII, alla fine dell’Ottocento, la democrazia e’ diventata per la Chiesa uno dei regimi leciti; con Pio XII, dopo la seconda guerra mondiale, e’ un regime moralmente privilegiato rispetto agli altri; con il Vaticano II e’ il regime piu’ coerente con i valori cristiani.

    Indipendentemente dalle sfaccettature, resta indubbio che l’intransigenza della Chiesa e’ stata – per l’ancora fragile Stato italiano – un forte ostacolo alla formazione di una identita’ nazionale, a livello popolare (11).

     Rara avis: la “modernita’” di Luigi Sturzo. Egli seppe inglobare le rivendicazioni del mondo cattolico in una nuova concezione dello Stato di tipo pluralista.

Don Sturzo ebbe a dichiarare: “l’unita’ d’Italia fu un bene, una necessita’ storica, per raggiungere il quale, si e’ fatto anche molto male”.

Comunque, solo dopo il 1960 “si puo’ parlare di un confronto tra le tre culture, la laica, o democratica liberale, la marxista e la cattolica, che esce dalla retorica dei seminari e dei Comitati civici ed entra in un tentativo di revisione. Forse il “perche’ non possiamo non dirci cristiani” di Benedetto Croce potrebbe essere oggi letto, senza forzature e senza stravolgimenti, nel suo apparente contrario “perche’ non possiamo non dirci laici”. A cominciare dai credenti”. (12)

 

     Sotto il profilo operativo, concordiamo con quanti hanno messo in rilievo il carattere fortemente minoritario ed elitario del nostro Risorgimento. “Sorto non come effetto di impetuosi interessi economici o di fanatica religione e orgoglio di stirpe, ma mosso e animato da dignita’ morale, rischiarato da luce intellettuale, non angusta nella sua rivendicazione della Patria” (13)

I volenterosi, erano intellettuali, studenti, giovani di alti ideali, poeti, cospiratori per vocazione.

Essi avevano saputo coniugare “pensiero” (lettura dell’Alfieri e del Manzoni; liriche del Leopardi; inni del Berchet e di Mameli; predicazione unitaria di Mazzini) e “azione” (molti avevano partecipato ai moti di indipendenza del ’48 e del ’49).

Questa “rivoluzione incompiuta”, “passiva”, senza partecipazione popolare ad opera “di individui e minoranze” rispetto alle “moltitudini e alle classi sociali”, non e’ peraltro peculiare del Risorgimento italiano.

Altre rivoluzioni (Russia, 1917; Francia, 1789) furono portate a termine da minoranze.

Da qui un sentiero molto stretto tra sogni e realta’, tra propositi e atti, tra aspettative e risultati. A livello generale, sta poi alle minoranze, alle “élites”, alle “aristocrazie”, chiamare il popolo alla partecipazione ed educarlo. A volte ci riescono, a volte no.

 

Cattaneo e l’ipotesi federalista.

 

A)    La lunga storia dell’idea federalista (14) e’ punteggiata, in Italia, da una serie di occasioni mancate, a partire dal Risorgimento. Per ritornare nella crisi della fine del secolo XIX, nel primo dopoguerra e nella caduta del fascismo. Peraltro, proprio il fallimento del nazionalismo, dell’identita’ forte della nazione, riporta in auge il federalismo.

Cio’ premesso, il tema del rapporto tra Unione e dimensione locale, culture regionali e identita’ nazionale, amministrazione centrale e specificita’ periferiche, risulta cruciale nel dibattito politico contemporaneo.

Passando da Tocqueville a Immanuel Kant, da Rosmini a Gioberti; da Balbo a Zuccarini; da Lussu a Rosselli; da Spinelli a Ernesto Rossi; da Miglio alla Lega.

Un filone, quindi, molto ricco e ininterrotto nella storia culturale politica italiana di due secoli. Filone, distribuito in pressoche’ uguale misura, tra conservatori e progressisti, cattolici e laici, liberali e socialisti, settentrionali e meridionali.

Oggi sta emergendo con forza anche l’altra componente del federalismo: quella politico-ideologica, tesa a stabilire un diverso rapporto partecipativo tra Stato e cittadini. In un afflato civile e sociale che mira a unire gli italiani.

Al contrario, la volonta’ di servirsi del grimaldello federalista per salvare, in chiave secessionista, le zone piu’ progredite e ricche d’Italia dalle conseguenze della crisi, potrebbe solo dividerle.

Siamo, comunque, in mezzo ad un guado, dagli sbocchi ad oggi non compiutamente prevedibili. Ritorneremo sull’argomento. Ci basti al momento dire che:

-         il federalismo odierno nasce all’interno di uno Stato unitario. Come tale, non paragonabile a quello risorgimentale, rappresentante una tappa verso l’unita’;

-          alcuni dei massimi patrioti, di ispirazione cattolica, ma protagonisti del Risorgimento (Balbo, Cantu’, Pellico), guardavano alla Lega lombarda come l’antefatto dell’unita’ (e non della divisione) d’Italia.

Questi i precedenti storici su cui la Lega dovrebbe riflettere, anziche’ patrocinare la disgregazione del Paese.

B)     Carlo Cattaneo (15) e’ stato “l’unico pensatore e uomo politico del Risorgimento che possa considerarsi il precursore di una coerente visione del federalismo in Italia e in Europa. La sua scelta federalista fu “una questione di principio”, il fine stesso della rivoluzione italiana” (cosi’, Bobbio).

IL federalismo di Cattaneo, si nutriva dell’empirismo di Locke, della “filosofia civile” di Romagnoli, delle idee di Proudhon. Una sorta di “tecnica” in grado di organizzare il regime democratico-liberale su spazi piu’ vasti dello Stato nazionale e di decentrare il potere politico.

Premesso che la liberta’ non deve conoscere confini nazionali (“noi avremo la pace solo quando avremo gli Stati Uniti di Europa”, i popoli, per Cattaneo, erano le regioni. In cio’, in contrasto con i mazziniani il cui fine supremo erano l’unita’ e l’indipendnza, in nome delle quali essi erano disponibili, obtorto collo, anche alla collaborazione con il Piemonte sabaudo.

Regioni, le cui circoscrizioni “devono rispondere ai naturali e tradizionali scomparti italiani”. In ognuno “di codesti Stati o regioni o regni uniti, i consigli provinciali potrebbero bene adunarsi nel loro centro e in certi tempi dell’anno”. Per procedere, normativamente, ad emendare “i particolari difetti dell’amministrazione locale” senza contrasto con la legislazione nazionale.

Conclusivamente, per Cattaneo, lo Stato federale si configurava come la sola formula politica in grado di conciliare l’unita’ con la liberta’ (16).

C)    IL disegno federalista, come noto, non ebbe a realizzarsi.

Per due motivi:

-         uno tattico: il fronte antifederalista annoverava oltre ai liberali moderati raggruppati intorno al Piemonte sabaudo, anche i numerosi democratici mazziniani, come detto, tenacemente unitari;

-          uno strategico: le aristocrazie municipali aderirono ben presto all’unitarismo liberal-piemontese, assai piu’ rassicurante, ai loro occhi, sul piano dei rapporti di classe.

L’ipotesi federalista, andata rapidamente in fumo, fu ripresa (primavera del 1861) da Minghetti. IL ministro degli esteri, a nome del governo Cavour, presento’ alla Camera un disegno di decentramento territoriale. Consorzi di province, con ampi spazi, anche di imposizione fiscale, per i poteri locali. Il disegno venne ritirato rapidamente. Per la pressione del partito piemontese “sabaudista” e, soprattutto, per i primi conati delle “insorgenze” postulanti una risposta unitaria.

 

Cavour, italiano prima dell’Italia (cosi’ e’ nata l’Italia).

 

     Estrapoliamo, dalla poliedrica figura del conte Camillo di Cavour, due elementi, maggiormente utili per l’economia del nostro tema.

Il primo: il giudizio degli studiosi sullo statista. Il secondo: se l’unificazione dell’Italia, rientrasse nei piani originari di Cavour, o se non piuttosto fosse un portato degli eventi. Come tale, nata ex post.

     Sul primo versante, Galli della Loggia sostiene (17) che “in Italia Cavour, pur essendo stato l’artefice massimo (anche se non unico) dell’unita’, non e’ per nulla popolare.

Per lo storico, tale deficit, va ricercato in una serie di cause, quali, una scarsa conoscenza della vicenda risorgimentale; l’incomprensione della complessita’ della politica che dovrebbe essere al di fuori sia “dal vuoto moralismo che dalla scaltrezza da magliari dall’altra”; “l’antipiemontesismo” di una parte considerevole d’Italia.

 

Anche un certo filone storeografico, da parte sua, ha riservato a Cavour giudizi assai tiepidi, se non negativi.

A dimostrazione del fatto che i nostri connazionali non amano gli statisti riflessivi e ponderati, capaci anche di scelte audaci, ma refrattari alle pose gladiatorie (18).

Nella societa’ della comunicazione globale, Cavour non e’ per nulla immaginifico; non ha impatto emotivo. Era infatti un pragmatico, un abilissimo tessitore (un “gran furbacchione” per Vittorio Emanuele II), un realpolitiker nella collaudata tradizione di Machiavelli.

A differenza sia di Mazzini – profeta disarmato – che di Garibaldi – braccio secolare dell’idea mazziniana, poi dei Savoia – aveva avuto il senso dell’opportunismo, la capacita’ di “leggere” gli avvenimenti prima che si verificassero, una duttilita’ laica.

In sostanza, un autentico uomo di Stato. Capacita’ che concretizzarono politicamente  quello che per Mazzini era stato solo un articolo di fede.

E, nei confronti dell’”eroe dei due mondi”, posto in essere ogni tentativo per dissuaderlo dalla “folle” impresa, rimasto scettico anche dopo lo sbarco in Sicilia, si arrese dopo il suo sbarco in Calabria.

Scrisse, allora, cavallerescamente, a Nigra:

“Se domani entrassi in lotta con Garibaldi, potrei anche avere in mio favore la maggioranza dei vecchi diplomatici, ma l’opinione pubblica europea sarebbe contro di me, e l’opinione pubblica avrebbe ragione, poiche’ Garibaldi ha reso all’Italia il piu’ grande dei servigi che un uomo potesse renderle: ha dato agli italiani la fiducia in se stessi, ha dimostrato all’Europa che gli italiani sapevano battersi e morire per riconquistare una patria” (19).

In ordine al giudizio degli storici sulla figura di Cavour, in sintesi:

-         Candeloro: taccia Cavour di una “notevole dose di conservatorismo” (20);

-          Mack Smit: evidenzia piu’ gli errori e gli sbagli di Cavour (21);

-          Montanelli: vede in Cavour un “eminente uomo di Stato” a fronte di Garibaldi (“grosso uomo d’azione senza cervello”) e di Mazzini (“grosso cervello senza qualita’ di uomo d’azione”) (22);

-          Romeo: “nelle magistrali pagine di Romeo (23) – si legge nella prefazione del saggio curata da Galasso – si dissolve la visione tradizionale di un Cavour “abile tessitore” e “spregiudicato realista”, miracoloso demiurgo dell’unita’ italiana e altrettanto abile e spregiudicato curatore degli interessi sabaudi e di quelli della borghesia. Emergono un Cavour, un Risorgimento italiano di alto spessore e buone radici, pur se con luci e ombre: un vero deposito di insegnamenti ancora per l’Italia di oggi, dubbiosa di se stessa, che puo’ trovare qui la conferma di non essere stata un mediocre prodotto o una violenza, un capriccio, un arbitrio della storia”;

-          Napolitano (24) riprendendo le acute osservazioni di Romeo, afferma: la grandezza di Cavour “sta nell’aver saputo governare quella dialettica di posizioni e di spinte che si manifestava nel moto unitario, nell’aver saputo padroneggiare quel processo fino a condurlo al suo sbocco piu’ avanzato”.

 

Sussistono discordanze anche in ordine alla seconda problematica.

Un primo orientamento – per noi piu’ convincente – limita il disegno originario di Cavour in schemi parcellizzati e federalisti (25).

Dati storici alla mano: il 21 luglio 1858 Cavour, si incontra, segretamente, con Napoleone III nella stazione termale di Plombieres-les Bains. IL primo ministro del regno di Sardegna e l’imperatore di Francia decidono di scatenare una guerra contro l’Austria, anche se dietro un pretesto. Cio’ al fine di liberare l’Italia dall’Austria, ma di non procedere alla sua unificazione.

Dovevano essere formati tre Stati: un regno del Nord, sotto l’egida dei Savoia; un regno del Centro (inclusa Toscana e Emilia) con a capo Gerolamo Bonaparte (cugino dell’imperatore), rimanendo inalterato quello delle Due Sicilie.

Con i Borboni di Napoli poteva aprirsi una fase di convivenza, di commerci, di egemonia culturale e commerciale dalla quale il Nord sarebbe uscito sicuramente rafforzato e il Sud stimolato e pungolato. I tre Stati avrebbero formato una confederazione, di cui il Papa, a ristoro dei territori ceduti, avrebbe assunto la presidenza (26).

Pur non potendosi prevedere – in concreto – ne’ la guerra (auspicata) contro l’Austria ne’ l’impresa (temuta) dei Mille, appare riduttiva la tesi di quanti leggono il Risorgimento come una serie di eventi meramente casuali (27).

Costoro tralasciano l’afflato della presenza di una spinta irreversibile che pure e’ stata presente. “Quando un popolo si desta, Dio si mette alla sua testa e una folgore gli da’”. Il verso e’ enfatico, ma coglie la realta’ di un movimento in marcia.

Cavour si rassegna: cambia idea. A Nigra, che gli aveva scritto “lasciamo prima arrivare Garibaldi a Napoli … lasciamo cuocere i maccheroni”, risponde: “i maccheroni non sono ancora cotti, ma le arance (allude allo sbarco di Garibaldi in Calabria) sono gia’ in tavola e non possiamo rifiutarle”.

A questa tesi, sintetizzabile in una nascita dell’Italia solo per un parto propiziato dal forcipe garibaldino, se ne contrappone un’altra.

Rosario Romeo (28) sostiene che Cavour, ab origine, nutrisse la convinzione che esistesse una sola nazione italiana e che l’assetto – unitario o federale – fosse secondario.

Concordano con Romeo sia lo storico Viarengo (29) che il Presidente Napolitano. Quest’ultimo, nel respingere “maldestre operazioni”, ha evidenziato “il carattere aperto e dinamico del progetto di Cavour” (30).

Le ipotesi, pur autorevoli, ci appaiono romantiche e idealiste (Romeo) e, in un certo qual modo, dovute (Napolitano).

Non dimentichiamo che Garibaldi, nei piani originari di Cavour, non era previsto.

Peraltro ci pare fondamentale che i Padri dell’Unita’ (Mazzini, Cavour, Garibaldi), pur non avendo la stessa ”idea” del Risorgimento (tre nomi e tre strategie), ne avevano, pero’ insieme, una chiara e forte: l’Italia una e indivisibile!

 

    

Parte seconda.

 

La questione meridionale.

 

Generalita’.

 

     L’inglobamento del regno di Napoli nella compagine nazionale, come gia’ detto, fu sostanzialmente un’operazione militare. Quindi di annessione.

Scarsa la partecipazione popolare; ceto medio, urbano e rurale, debole, non in grado di fare propri gli ideali dell’unita’; èlites democratiche (garibaldini; mazziniani), sconfitte dalla soluzione politica moderata con cui si compiva l’unificazione italiana.

I vizi d’origine dello Stato che ne risulto’, si rispecchiano in due caratteri facilmente riconoscibili.

Il primo, il centralismo delle strutture. Necessitato dall’agitazione contadina che solo uno Stato forte poteva frenare.

Il secondo carattere, anch’esso conseguenza di questo terrore della rivolta popolare, fu la costituzione di una chiusa oligarchia. Solo parecchio piu’ tardi, attraverso il “trasformismo”, l’integrazione fu allargata a tutti i ceti borghesi. Ma con estrema cautela. Le masse ne furono del tutto fuori fino a Giolitti.

A dimostrazione: il sistema scolastico, appannaggio di classe; le riforme elettorali che allargarono il diritto di voto con una lentezza che sapeva di renitenza (le elezioni politiche per il primo Parlamento italiano – 27 gennaio 1861 – registrarono solo il 2% dell’intera popolazione).

Questo era il lascito dei moderati. L’uno e l’altro vizio originati, a loro volta, da una mancanza di consenso generalizzato. Quindi un vuoto tra lo Stato e la societa’; una frattura fra contadini, in perpetuo fermento, la classe della piccola e media borghesia “intellettuale”, i grandi proprietari terrieri, i grandi intellettuali.

Da qui, l’aspetto piu’ drammatico dell’unificazione: la questione meridionale (1).

Sorta nel cuore del giovane Stato unitario, ha continuato a trascinarsi, irrisolta, sino ad oggi (il Sud ha molto passato ma ancora molto poco futuro).

L’argomento e’ di quelli da “far tremare le vene e i polsi”.

Per la sua drammaticita’, complessita’, ed interrelazioni multidisciplinari. Cerchiamo di fare il nostro meglio, scusandoci sin d’ora, con il cortese lettore, per eventuali inesattezze, forzature, manchevolezze.

Cio’ premesso, leggiamo il pianeta Mezzogiorno da quattro angolazioni: la sociologica, l’economica, la culturale, la politica.

 

L’analisi sociologica.

 

     Sussistono ancora oggi, in molte province del Mezzogiorno, notevoli resistenze al cambiamento. Cio’ per l’esistenza di una perversa coalizione, politico-sociale-economica, che continua ad esercitare una egemonia che, pur tra qualche varco, si presenta stabile.

Dall’assunto, discendono alcune variabili:

a)      una “cultura”, a livello di famiglie e di imprese, legata (in certo qual modo) alla rendita parassitaria. Pur senza estremizzare e al di fuori di stereotipi indistintamente negativi (l’alterita’ meridionale), si vuole segnalare per il Sud un utilizzo anomalo di risorse “aggiuntive”. Extra canali tradizionali.

Il senso civico dei meridionali, per lo meno nella fase iniziale dell’unita’ nazionale, il loro sentirsi membri di una collettivita’, dotati di diritti ma anche di doveri, (diciamo cosi’) sono alquanto attenuato.

Gia’, alla fine dell’Ottocento, Turiello (2), definiva il cittadino del Sud come un “individuo sciolto”, senza un particolare senso di appartenenza a un organismo sociale piu’ ampio.

Due sociologi stranieri hanno, da parte loro, uno (3) coniato il termine di “familismo amorale” per definire il comportamento prevalente dei membri di una comunita’ contadina del Sud.

L’altro (4), esaminato il dualismo territoriale dell’Italia, nota una forte diversita’ antropologica e culturale a carico del Sud.

Si e’ infine utilizzato il termine weberiano di “acquisivita’ politica”. Val dire: la ricerca di un miglioramento di condizioni di vita e di consumo attraverso il controllo di risorse, sia legali  che illegali, da parte del potere politico.

Perche’ queste critiche non suonino ingenerose, ci confortano alcuni saggi, scritti da meridionalisti, che vedono il problema del Mezzogiorno come:

-         prospettiva di una diversa strutturazione civile delle diverse realta’ del Sud (5);

-          la sua capitale – Napoli – preda di un “sudismo accattone e deteriore” (6), proprio della stagione bassoliniana (7);

-          Di un tramonto di Napoli, ben prima del 1860 (8).

 

b)      Mercati “protetti”. Essi diminuiscono la capacita’ competitiva delle aziende, abbassano il tasso di investimento, annullano i processi di innovazione aziendale, amplificano le pratiche collusive.

c)      Ritorno clientelare nella gestione dei flussi di spesa. Una sorta, quindi, di coalizione economica e sociale, di ostacolo alla crescita civile e allo sviluppo economico di una parte rilevante del Sud d’Italia.

d)      Diffusa commistione con le organizzazioni mafiose.

Premesso che la mafia e la camorra hanno un radicamento, in Italia, da oltre un secolo (9), non esiste in Europa, e probabilmente nel mondo, un altro Paese con un cosi’ triste e terribile primato. Fenomeno decostruttivo per lo Stato italiano, non semplice aspetto di un banditismo sociale e di pura criminalita’.

Al contempo, deriva inquietante per le compromissioni (da sempre) ricorrenti tra mafia, politica e affari (10).

Finita l’epoca delle stragi, la mafia (almeno per il momento) ha cambiato pelle. E’ diventata una vera “S.p.a.”, in grado di fatturare (da alcune stime) 135 miliardi di Euro. L’equivalente, piu’ o meno, di 10 punti del Pil italiano. La prima azienda del sistema paese. Una potenza che condiziona affari, finanza, politica, pubblica amministrazione.

Come la si combatte? Le ricette sono note e prescritte da tempo. E’ il “malato” che non assume i farmaci.

Indichiamone almeno due.

Potenziare la repressione antimafia: impegno, ancora piu’ forte e deciso da parte dello Stato (11), isolando le complicita’, ad ogni livello.

Sosteneva Falcone (12), in Sicilia “si muore perche’ si e’ soli o perche’ si e’ entrati in un giro troppo grande. Si muore spesso perche’ non si dispone delle necessarie alleanze”. Profeticamente, concludeva: “in Sicilia la mafia colpisce i servitori dello Stato che lo Stato non e’ riuscito a proteggere”.

     Implementare il tasso della dignita’ individuale, dello spirito di collaborazione, della fiducia fra cittadini e fra cittadini e istituzioni. Quindi, maggiore attenzione al rispetto delle norme, maggiore senso civico, maggiore controllo elettore-eletto, maggiori comportamenti condivisi. Al servizio della collettivita’ e non del populismo e del privatismo.

E’ tempo ormai di demolire il mantra della “diversita’” dei meridionali. Commiserata da alcuni, blandita da altri.

 

L’analisi economica (il divario originario).

 

     L’idea della centralita’ di un dualismo/divario soprattutto economico, permane, a distanza di 150 anni. Con opposte teorizzazioni.

     La prima, partendo dal presupposto di una sostanziale eguaglianza economica nel 1861 tra Nord e Sud, ritiene da imputare le successive discrasie o a sottrazione di riserve da parte del Nord o, genericamente, quale effetto dell’unita’ come tale.

“Responsabilita’ per danni”, “modello risarcitorio”, sono gli effetti di questa concezione. Patrocinata, tra i primi, da Nitti (13): “buona parte del reddito dei meridionali servi’ a costruire le opere di difesa militare e a proteggere, con le tariffe doganali, le industrie del Nord”.

Pur, con il rispetto dovuto ai primi meridionalisti (i Villari, i Franchetti, i Sonnino, i Fortunato), va ridimensionata la “leggenda” dello sfruttamento del Sud.

Premesso che “lo sviluppo economico del Nord si sarebbe svolto anche senza l’unificazione politica” (14), il gap originario e’ stato quantificato in un 15-20% del reddito pro capite. Cause: inferiorita’ dell’agricoltura meridionale, minore produttivita’, struttura urbana debole e frammentaria, debole rete internazionale degli scambi, marcato analfabetismo.

Pur con queste discrasie, il Sud poteva vantare alcune “eccellenze”. Sviluppo delle ferrovie (Napoli-Portici, 1842); introduzione del gas (1837); flotta militare e mercantile tra le prime in Europa; inedita istituzione di una pensione; esiguita’ delle imposte.

Ne’ le politiche di intervento pubblico (in specie: Cassa del Mezzogiorno) sono riuscite alla bisogna. “Con un terzo della popolazione nazionale, il Sud produceva meno di un quarto del reddito nazionale nel 1951; in sessant’anni, questi valori sono rimasti pressoche’ gli stessi. Nel frattempo, clientelismo e assistenzialismo, hanno fatto crescere un capitalismo politico, legato a protezioni ed erogazioni. Manca una strategia che funzioni” (15).

Un panorama desolato e desolante! Punteggiato (non ne sentivamo il bisogno alle soglie del compleanno), recentissimamente, da due saggi che attualizzano l’antica querelle.

Nel primo, Ricolfi, dati alla mano, parla di un vero e proprio “sacco del Nord”. Una sorta di rendita politica, quantificata in circa 51 miliardi (7% Pil) sottratti alle regioni piu’ produttive del Paese a vantaggio di quelle “viziose”, localizzate nel Centro (Lazio, 10 miliardi) e nel Sud (40 miliardi). (16)

     Nel secondo, il controcampo di Aprile (17): il Meridione e’ stato vittima di sopraffazioni e massacri, stragi e campi di concentramento (si parla di “lager” dei Savoia”).

Toni, quest’ultimi, francamente troppo accesi sui quali si sono esercitati Veneziani, paragonando positivamente Aprile al Pansa del “Sangue dei vinti”, e P. Battista (18) negativamente (“Piu’ che una revisione storeografica, un grido di battaglia contro l’ufficialita’ unitaria, a 150 anni di distanza”).

     Con questi chiari di luna, non si rischiara certo il cammino dell’unificazione.

 

L’analisi culturale (la guerra del brigantaggio).

 

     La teoria della “conquista regia” ha trovato consistenti prese di posizione, livorose e pregiudiziali, nei confronti del Mezzogiorno, da parte dell’apparato italo-piemontese.

Citiamo, alla rinfusa.

Bixio: “questo e’ un paese che bisognerebbe distruggere o spopolare e mandarli in Africa a farsi civili”.

Farini: “Altro che Italia, questa e’ Affrica”.

Massari: occorre per il Mezzogiorno, “una grave invasione di moralita’ piemontese per ripulire le stalle di Augia dalla corruzione meridionale”.

D’Azeglio paragonava “l’unificazione con Napoli a quella di mettersi a letto con un vaioloso” (19).

IL generale Villamarino, gia’ il 29 ottobre 1860, sollecitava la proclamazione dello stato d’assedio.

Cialdini, lo stesso giorno, telegrafava al governatore del Molise: “faccio pubblicare che fucilo tutti i paesani armati che piglio” (20).

Molti emigrati, rientrati a Napoli da Torino, acclimatatisi ormai ad un “grado superiore di sviluppo politico, sociale, civile”, non lesinarono giudizi negativi su Napoli, sorprendenti per la loro violenza.

Silvio Spaventa non seppe trattenere l’espressione di nausea e di orrore (Croce, 1925); Massari trovo’ a Napoli “un chiasso, un sudiciume da degradare Costantinopoli. Io ho sempre amato ed apprezzato il Piemonte, ma dopo questi tre giorni in Napoli lo adoro”. Inoltre, nonostante il contesto naturale paradisiaco fatto dalla serenita’ e purezza del cielo, la fecondita’ del terreno ricco di una vegetazione spontanea e rigogliosa, il paese e’ “un vero deserto” (Trinchera, 1855). Vediamo qui apparire il topos costante della Questione meridionale: il paradiso abitato da diavoli (meglio, da poveri diavoli, o da diavoli figli di un Dio minore).

     Questi giudizi duri, queste radicali prese di posizione, questi proclami del peggior militarismo, uniti ad altri fattori (delusione contadina; aumento delle imposte indirette; coscrizione militare obbligatoria), motivarono una parte della popolazione meridionale a riesumare un dramma antico: il brigantaggio. Accomunante giovani ribelli, personaggi stravaganti, delinquenti comuni, idealisti fanatici.

La reazione fu durissima. 120.000 uomini dell’esercito stanziati nell’Italia meridionale; rasi al suolo interi paesi; oltre 13.000 i morti; circa 60.000 uomini deportati al Sud.

Il tutto, sotto l’egida di una legge inusitatamente repressiva (Legge Pica, 1863-1865). Una guerra “sciagurata e ingloriosa”, con punte di autentica strage.

Pensiamo all’eccidio di Pontelandolfo: 400 morti (ivi compresi bambini e donne) e il rogo delle case (21).

Sul fenomeno brigantaggio, (almeno) tre le tesi storiche interpretative.

La prima, autorevole (22) ne minimizza la portata relegandolo ad un fenomeno di ribellismo, per gretti motivi di interessi o di malaffare.

La seconda, amplissima (23), lo etichetta, nell’ambito di una rivalutazione dei Borboni, come una vera e propria guerra civile a difesa del Sud.

La terza: il brigantaggio e’ stato “una reazione di rigetto della societa’ meridionale nei confronti di una realta’ storica diversa” e “uno scontro di civilta’”. (24)

Il “mito” della rivolta sociale a sfondo contadino, e’ stato riesumato per altri eventi delittuosi (strage di Portella della Ginestra, 1 maggio 1947; fatti di Avola, 1968 e di Battipaglia, 1969).

Ripreso, infine, nel noto romanzo di Levi (Cristo si e’ fermato ad Eboli, 1945), evocante “echi e suggestioni forti dell’antica immagine brigantesca del Mezzogiorno rurale (25).

 

Analisi politica (élites intellettuali, cultura, ideologia).

 

     Opinione corrente:

il tallone d’Achille del Mezzogiorno deve rinvenirsi nella inadeguata classe dirigente.

Lo dimostrano: i rifiuti campani, la sanita’ calabra, la pubblica amministrazione siciliana. Questo cahier de doleances sottolinea, ad abundantiam, l’insuccesso delle molte terapie applicate al malato, riottoso (da parte sua) a farsi curare.

Di volta in volta, riforma agraria, colonialismo, Cassa per il Mezzogiorno, statuti speciali, fondi della Comunita’ Europea, Sviluppo Italia: tutto inutile.

La politica alimenta l’assistenzialismo che fiacca la societa’; la camorra, il protezionismo che fiacca l’economia, a sua volta ancella della politica. Una politica debole e, allo stesso tempo invasiva, perche’:

-         ideologicamente e culturalmente ancora insospettita dal profitto (regolare) e dalla ricchezza;

-          preda di logiche occhiute, anche su cio’ che dovrebbe controllare il mercato. Continua cosi’ a permanere un divario, netto e avvertito, tra una classe politica, di basso spessore, autoreferenziale, spesso collusa, sempre inadeguata ed èlites intellettuali che hanno cercato, a piu’ riprese, di svegliare il Mezzogiorno dal “grande sonno”. Con l’aspirazione di inserire il territorio e la sua popolazione in un contesto unitario e (sperabilmente) europeo (24).

L’”album di famiglia” annovera, tra gli altri:

-         il lucano Giustino Fortunato: il Risorgimento aveva rotto l’isolamento del Sud anche se dopo molti decenni, il Mezzogiorno restava il “malato d’Italia”;

-          il pugliese Antonio De Viti De Marco: strenuo fautore di una politica liberistica a favore dell’agricoltura del Sud;

-          Il siciliano Napoleone Colayanni: difensore di una politica protezionista;

-          Il lucano Francesco Saverio Nitti: intui’, con capacita’ anticipatrici, il ruolo (propulsivo) della nascente energia elettrica;

-          Il pugliese Gaetano Salvemini: il Mezzogiorno come vittima di una scellerata alleanza tra il capitalismo settentrionale e il latifondismo meridionale;

-          Il siciliano Luigi Sturzo: sostenne che il Sud aveva bisogno di maggiore autonomia;

-          Manlio Rossi Doria, Guido Dorso, Danilo Dolci: la questione meridionale come problema di buon governo e di rinnovamento della societa’ civile;

-          L’abruzzese Benedetto Croce: rida’ alla citta’ di Napoli una nuova centralita’ filosofico-culturale-letterari (27);

-          Il napoletano Giuseppe Galasso: ritiene, malinconicamente, che la “questione meridionale sia scomparsa dall’orizzonte nazionale e abbia smesso di interessare gli italiani”. Non ha torto!

 

 

Spunti finali (quell’Unita’ da ritrovare).

 

     Nel discorso per Roma capitale (25 marzo 1861) cosi’ Cavour: “L’Italia ha ancora molto da fare per costituirsi in modo definitivo, per isciogliere tutti i gravi problemi che la sua unificazione suscita, per abbattere tutti gli ostacoli che antiche istituzioni, tradizioni secolari oppongono a questa grande impresa”.

Quali oggi “gravi problemi”? Richiamiamoli, in sintesi.

A)    Il problema del Sud e’ un problema nazionale.

 Profeticamente, Mazzini: “l’Italia sara’ quel che il Mezzogiorno sara’”.

Sull’idea della separazione, non nasce nessun Stato nuovo. Rimane un indistinto coacervo di egoismi sociali che si mette insieme. Abbandonato a se stesso, il Sud rischia di essere travolto da un’ondata di criminalita’ mafiosa che, forte di collegamenti internazionali sempre piu’ intensi, minaccia di tracimare al Nord (ce ne sono gia’ le avvisaglie: la linea della palma e’ salita sino alle Alpi).

Nord e Sud sono quindi complementari, per le implicazioni reciproche delle tendenze in atto nelle due regioni; perche’ lo sviluppo del Sud potrebbe rivelarsi un’occasione d’oro anche per il Nord; perche’, infine, l’individuazione di un terreno condiviso di riforme costituzionali e amministrative, puo’ diventare momento di genesi di una nuova classe dirigente nazionale.

Ed allora, premesso che a domande complesse, occorrono risposte complesse,

B) il Nord:

    B.1) deve abbandonare i giudizi razzistici che offrono del Sud una visione indistintamente e totalmente negativa. Un Sud dedito prevalentemente al crimine organizzato, al malaffare, alla corruzione.

Idee false – la realta’, invero e’ variegata – e pericolose. Ad esse, infatti, tende a contrapporsi un sudismo, intriso, ancorche’ in maniera residuale, di “nostalgia borbonica”.

Oggi alcuni sedicenti “nipotini di Lombroso” (28) dovrebbero smettere, una volta per tutte, di avanzare nei confronti del Sud, antichi pregiudizi “etnici”. Se vogliamo evitare rischi di decomposizione sociale in un reciproco gioco al massacro.

 

    B.2) Ricordare che il Nord con una mano ha mantenuto il Sud. Con l’altra, si e’ ripreso i suoi denari piu’ gli interessi. La “questione settentrionale” nasce infatti quando lo Stato e’ a corto di denaro. Non prima.

 

     B.3) La Lega non e’ solo federalismo.

E’ anche xenofobia, chiuso localismo, disprezzo per il diverso. La poverta’ genera fastidio; il sottosviluppo e’ solo colpa della carenza di capitale sociale. Da parte di etnie “altre”.

Ed allora, per noi, brutalmente: se e’ vero che il Nord non puo’ piu’ mantenere il Sud e’ ancora piu’ vero che l’Italia non puo’ mantenere il leghismo (29).

 

C)      Il Sud.

    Una premessa: i veri meridionalisti non sono mai indulgenti. In particolare, nei momenti di crisi, come gli attuali. Chi scrive, pur proveniente dal Sud, non si iscrive ne’ nel partito dei “piagnoni”, ne’ in quello degli “struzzi”.

      Cio’ detto, il Sud, dovrebbe:

 

    C.1) mettere in campo (lo ripetiamo) una nuova classe dirigente attiva e preparata, che guardi avanti, oltre il localismo. L’attuale stato di frammentazione politica e amministrativa del Mezzogiorno, lasciato nelle mani di governi regionali contaminati, e spesso sopraffatti dai legami clientelari e dalle pressioni mafiose, non e’ assolutamente in grado di gestire la “cosa pubblica” in maniera decente.

La “rivoluzione” deve avvenire dal basso per ricostruire una societa’ meridionale dignitosa, civile dove si instauri un nesso virtuoso tra qualita’ del governo e quantita’ del consenso.

 

    C.2) Ritornare, quindi, a uno Stato di diritto e a  uno Stato all’insegna dell’etica pubblica.

Con un nuovo meridionalismo che consideri il Sud non come un “Nord mancato”, ma un insieme di comunita’ dotate di forte personalita’ storica, inconfondibile autonomia, individuate responsabilita’.

 

    C.3) Varare, con il determinante aiuto dello Stato, un piano di politica attiva del lavoro, rilanciando i Patti territoriali e i contratti d’area, su baasi innovative rispetto al passato (30). Attivare infine una “Banca di risanamento e di sviluppo”.

 

 

Il federalismo fiscale tra sospetti e speranze.

 

     Qualche notazione di quadro:

-         la spesa pubblica al Sud (contrariamente alla vulgata corrente), e’ assai piu’ bassa rispetto al Nord. Almeno per alcune poste. Dovrebbe essere aumentata per il welfare locale (asili nido, trasporti, infrastrutture scolastiche); ridotta invece e regionalizzata per l’ospedaliera.

-         Globalmente, i trasferimenti impliciti verso il Mezzogiorno sono stati asciugati e sensibilmente ridotti (da circa il 20% a circa il 13% del suo reddito).

Gli stessi, finanziano gli interventi extraSud con tagli alla spesa per investimenti nel Mezzogiorno, quantificabili in ben 25 miliardi di Euro (31).

Si utilizza il teorema, tagliando spese per infrastrutture al Sud, si taglia spesa improduttiva. Si rinvestono, poi, le briciole per interessi particolaristici e localistici. Quote latte; ripiano del deficit di Roma e Catania; municipalizzate di Palermo.

    Va soggiunto che Berlusconi, recentissimamente, si e’ ricordato del Sud. Ne ha cosi’ incluso, nel pacchetto delle riforme prioritarie, il rilancio. Ammesso che cio’ avvenga, ci chiediamo: tardiva resipiscenza, contentino, rilegittimazione al Sud del consenso?

-         Esiste per il Mezzogiorno un problema di recupero e un problema di integrazione.

Sotto il primo, si e’ pensato (32) ad una sorta di “No Tax area”, una zona franca. Per un tempo determinato e per investimenti (esclusivamente) imprenditoriali, in luogo degli incentivi pubblici alle imprese operanti nel Sud (4 miliardi di Euro, all’anno, buttati).

Inoltre ad un rilancio di un piano serio, mirato, culturale per rivalorizzare il turismo. Che richiede infrastrutture, mentalita’ imprenditoriale, capacita’ gestionale.

Sotto il secondo, si dovrebbe giocare la carta del federalismo fiscale: rischiosa, ma l’unica forse in grado di innestare criteri di efficienza e di responsabilita’.

Dopo anni di sciagurate politiche meridionalistiche, lo Stato federale del Mezzogiorno (33), potra’ utilizzare “pesi” (risorse sufficienti al finanziamento integrale delle funzioni) e “contrappesi” (risorse non piu’ “a pie’ di lista”, ma su parametri rigorosi tra prelievo e spesa).

Ben interpretato (federalismo dinamico) e ben applicato (modifica al nuovo titolo V della Costituzione; Senato federale), il federalismo fiscale dovrebbe costituire la premessa per liberarsi di alcuni handicap culturali e politici. Assistenzialismo, vittimismo, spesa incontrollata.

Una sorta di Lega-Sud, in grado di creare un retroterra idoneo a trattenere in loco le migliori e piu’ sane energie in termini di risorse umane; cambiare il personale politico delle amministrazioni comunali e provinciali; far leva sulla volonta’ operativa (che, talvolta, manca) oltre che sull’intelligenza (che certamente non manca).

Una rivoluzione dei cittadini che si riconnetta alle grandi tradizioni dell’Italia dei Comuni e che spinga verso una piu’ forte valorizzazione delle autonomie. Citta’ creative, non porose.

Non nascondiamoci, peraltro, che la partita, oltre che finanziaria e di bilancio, e’ anche politica. Essa si decidera’ sul criterio di costruzione dei costi-standard dei servizi pubblici e sui criteri perequativi. Atteso sia gli attuali squilibri tra i diversi territori del Paese sia il momento, particolarmente difficile per la crisi economico-finanziaria, in cui il riequilibrio/ripartizione delle risorse dovra’ attuarsi, occorrera’ tenere in debito conto gli handicap di partenza.

Certo, quando il Centro e il Nord del Paese chiedono di trattenere parte del gettito Irpef, bisogna sapere che non tutte le citta’ sono autosufficienti. Ma un conto e’ chiedere contributi per l’istruzione, la sanita’ e le grandi infrastrutture ed un altro e’ pretendere di amministrare senza il rischio di perdere consensi, presentando poi ad altri il costo della spesa.

 

     Alla fine di questo excursus, un auspicio e una speranza.

Possa l’anniversario dei 150 anni dell’Unita’, costituire l’inizio di un nuovo progetto di unita’ nazionale (le occasioni perdute rimangono tali anche quando si sono capite e studiate).

Con un senso di un’appartenenza comune e condivisa, dove lo Stato nazionale rimanga la base essenziale della democrazia e della legittimazione politica. Base indispensabile, per un raccordo seriamente europeo. Contro ogni egoismo, ogni messaggio populista, ogni forma di secessione vecchia e nuova.

Fatta l’Italia, ora bisogna salvarla.  Da gente a popolo; da Stato a nazione; da nazione a Patria.

C’e’ ora l’esigenza di “fare gli italiani”, farne dei cittadini. Ripristinare quindi il solidarismo, metabolizzare le trasformazioni, modernizzare il Paese, ripristinare il senso civico ed unitario.

Ricordando l’ammonimento di Sallustio: “” (con la concordia crescono le piccole cose, con la discordia si dissolvono le grandi).

 

 

Note.

 

Parte prima.

 

1)      “Sono italiano. Devo essermela andata a cercare”: cosi’ polemicamente Altan (l’Espresso, 39/2010).

 

2)      G. Ruffolo, UN Paese troppo lungo, Einaudi, 2009.

 

3)      Ernesto Galli della Loggia, L’endiade fatale, Aspenia, 49/2010.

 

4)      L’espressione di R. Romeo e’ ripresa da Ernesto Galli della Loggia, Miti e storia dell’Italia Unita, IL Mulino, 1999.

 

5)      Si e’ evocato anche il 1815 (Congresso di Vienna); l’arrivo delle truppe francesi post 1794; i riformatori illuministi del Settecento; cfr. D. MackSmith, Il Risorgimento italiano, Laterza, 1999.

 

6)      A. Oriani, La lotta politica in Italia, Roux e Frassati, 1892. Oriani era un nazionalista e un “imperialista”; fornisce un’immagine appassionata di Cavour.

 

7)      A. Gramsci, in tre saggi: La questione meridionale, 1926; Lettere dal carcere, Einaudi, 1947; e, piu’ specificatamente, Il Risorgimento, Einaudi, 1950. Cfr., altresi’, Emilio Sereni, Capitalismo nelle campagne, Einaudi, Torino, 1968.

 

8)      R. Romeo, Risorgimento e capitalismo, 1956.

 

9)      G. Mazzini, Note autobiografiche, Rizzoli, Milano, 1986.

 

10)  Sulla posizione della Chiesa, per una visione di parte, cfr. A. Pellicciari, Risorgimento da riscrivere: Liberali e massoni contro la Chiesa, Milano, 1998; in ottica piu’ serena, V. F. Traniello, Religione cattolica e Stato nazionale, Il Mulino, 2003 (“Il 20 settembre 1870 libero’ la Chiesa da un fardello, stante lo storico superamento del potere temporale”). G. Spadolini va oltre. Propone (Resto del Carlino, 1958) di “celebrare” il 20 settembre.

 

11)  Cosi’ P. Scoppola, in un giudizio intellettualmente onesto, ne la Democrazia dei cristiani, Laterza, 2005.

 

12)  Cfr., G. Spadolini, Intervista sulla democrazia laica, Laterza, 1987.

 

13)  B. Croce, Storia d’Italia nel secolo XIX, Laterza, 1928.

 

14)  Per un excursus, sul punto, cfr. Z. Ciuffoletti, Federalismo e regionalismo, Laterza, 1994.

 

15)  Su Cattaneo, cfr. D. Preda e C. Rognoni, Storia e percorsi del federalismo. L’eredita’ di Carlo Cattaneo, Il Mulino, 2001.

 

16)  Cfr. Carlo Cattaneo, Scritti politici, Firenze, 1965.

 

17)  Ernesto Galli della Loggia, Nostalgia di Cavour, Corriere della Sera, 10 agosto 2010.

 

18)  S. Romano, Vademecum di storia dell’Italia unita, Rizzoli, 2009: la riscoperta, solo recente, di De Gasperi e la non popolarita’ di Giolitti. Mussolini, invece, nel bene o nel male, resta il personaggio piu’ presente nell’immaginario collettivo.

 

19)  Carteggio Cavour-Nigra, richiamato da D. Mack Smith, Il Risorgimento, op. cit..

 

20)  G. Candeloro, Storia dell’Italia moderna, Feltrinelli, 1956.

 

21)  D. Mack Smith, Storia d’Italia, Laterza, 1997.

 

22)  I. Montanelli, Storia d’Italia, vol.5.

 

23)  R. Romeo, Cavour e il suo tempo, due volumi piu’ un terzo, dedicato alla Vita di Cavour, Laterza, 1984.

 

24) G. Napolitano, Commemorazione a Santena, 6 giugno 2010.

 

 25) A. Petacco, IL regno del Nord, Mondadori, 2009.

 

26) Cavour ragguaglia minutamente, su quanto concordato, il Re: la lettera cifrata del 24 luglio 1858 e’ riprodotta da D. Mack Smith, IL Risorgimento, op. cit. Ricordiamo, per completezza, due “codicilli”: l’auspicato matrimonio della figlia del Re, Maria Clotilde, con Girolamo e la cessione alla Francia di Nizza e la Savoia, avvenuta peraltro dopo l’armistizio di Villafranca.

 

27) S. Romano, Storia d’Italia, 1977.

 

28) R. Romeo, Vita di Cavour, op. cit..

 

29) A. Viarengo, Il pensiero politico di Cavour, Rizzoli, 2010.

 

30) G. Napolitano, Conferenza all’Accademia dei Lincei: 12 ottobre 2010, v. nella Nuova Antologia, 2010/2254; discorso di Staglieno: 6 giugno 2010; discorso alla Sorbona, 29 settembre 2010.        

 

 

Parte seconda.

 

1)      La “questione meridionale” fu segnalata, per primo, da Pasquale Villari nel 1875 con Le lettere meridionali, v., P. Bevilacqua, Breve storia dell’Italia meridionale, Donzelli, 1993.

 

2)      Pasquale Turiello, Governo e governati in Italia, 1888.

 

3)      E. C. Banfield, Una comunita’ nel Mezzogiorno, IL Mulino, 1961.

 

4)      R. Putnam, La tradizione civica nelle regioni italiane, Mondatori, 1993.

 

5)      F. Barbagallo, La modernita’ squilibrata del Mezzogiorno d’Italia, Einaudi, 1994.

 

6)      F. Barbagallo, Napoli fine novecento, Einaudi, 1997.

 

7)      M. Demarco, l’altra meta’ della storia, Guida, 2007.

 

8)      G. Galasso, Napoli capitale, Electa, 1998.

 

9)      IL gomitolo mafioso viene dipanato da G. Carlo Marino, Storia della mafia, Newton Compton Editore, 2006 e da A. Caruso, Da cosa nasce cosa, Longanesi, 2000.

 

10)  Sul punto, citiamo solo M. Pantaleone, Mafia e politica, Einaudi, 1962 e A. Calabro’, Cuore di cactus, Sellerio, 2010.

 

11)  Lo Stato si e’ mosso. “Pacchetto sicurezza” (legge 2008/125 e legge 2009/94); riscrittura dell’art. 143 T. U. degli enti locali (responsabilita’ per i dirigenti e per i dipendenti degli enti locali sciolti per condizionamenti mafiosi); obbligo di denuncia per gli imprenditori interessati da richiesta estorsiva, con sottostante inibizione alle gare di appalto; inasprimento del regime del carcere duro per i coinvolti in reati di stampo mafioso.

 

12)  G. Falcone, Cose di cosa nostra, Rizzoli, 1991.

 

13)  Francesco Saverio Nitti, Nord e Sud, 1900. O. Rossani, Stato societa’ e briganti nel Risorgimento italiano, Pianeta libri, 2002, quantifica, in ben 300 milioni, i ducati distratti dal Banco di Napoli.

 

 

14)  L. Cafagna, Dualismo e sviluppo nella storia d’Italia, Marsilio, 2001.

 

15)  C. Trigilia, Mezzogiorno: la strategia che non c’e’, Aspenia, op.cit..

 

16)  L. Ricolfi, Il sacco del Nord, Guerini, 2009. Sulla stessa linea, Idem, Illusioni italiche, Mondatori, 2010.

 

17)  P. Aprile, Terroni, Piemme, 2010.

 

18)  P. Battista – che cita Veneziani – ha recensito il bestseller di Aprile in due articoli sul Corriere della Sera, 26 luglio 2010; 6 settembre 2010.

 

19)  G. Ruffolo, Un Paese troppo lungo, op.cit..

 

20)  F. Molfese, Storia del brigantaggio dopo l’Unita’, 1966. Saggio ancora fondamentale sul ppunto.

 

21)  Cio’ a seguito della rappresaglia, da parte del generale Cialdini, per il massacro di 40 soldati “piemontesi”. Il paese, per la strage che evoca eventi di ferocia nazista, (pensiamo all’eccidio di Sant’Anna di Stazema), ha chiesto – invano – di essere inserito nel lunghissimo elenco (371) dei luoghi della memoria.

 

22)  B. Croce, Uomini e cose della vecchia italia, Laterza, 1956.

 

23)  Tra gli altri, Alianello, Molfese, Scarpino, Izzo, Turco, Di Fiore, Aprile.

 

24)  C. Tullio Altan, Il brigantaggio post-unitario, Banca nazionale del lavoro, 1982.

 

25)  Ernesto Galli della Loggia, Miti e storia dell’Italia unita, op. cit..

 

26)  G. Galasso, Il Mezzogiorno da “questione”a “problema aperto”, Lacaita editore, 2006.

 

27)  Ripresa e attualizzata dalle riviste “Nord e Sud (sorta nel 1954, diretta dal repubblicano Francesco Compagna) e “Cronache meridionali” (Alicata, Amendola, De Martino). Nel 1965 sorge, ed e’ oggi attivo, l’Istituto italiano per gli studi filosofici (fondato da G. Marotta). Per l’economia, la Svimez, per l’amministrazione pubblica, il Formez. Per il dibattito culturale, i saggi di Rossi-Doria.

 

28)  G. Russo, I nipotini di Lombroso, Sperling e Kupfer, 1992. La Scuola psichiatrica di Cesare Lombroso (con Niceforo e Ferri), teorizzo’, all’inizio del Novecento, l’inferiorita’ razziale degli italiani del Sud. In base a misurazioni craniche e altri criteri pseudoscientifici.

 

29)  La Lega, per l’intanto, predica bene e razzola male. Da’ l’assalto alle poltrone del potere cfr. l’Espresso, Lega padana, 2010/40

 

30    Negli ultimi tempi, si e’ registrato, nel Sud, oltre ad un crollo dell’occupazione, un notevole divario di produttivita’ (16 punti) rispetto al resto d’Italia, un forte calo delle esportazioni, un rapido aumento della poverta’.

 

 31) G. Viesti, Nord/Sud: l’eterna questione, Il Mulino, 2009/5. I dossier di Bankitalia-Unicredit confortano l’assunto, segnalando (dai confronti, sul punto) un bilancio “assai piu’ favorevole al Centro-nord”.

 

 32) N. Rossi, Il silenzio del Sud, Aspenia, op. cit..

 

33) Idea non nuova. Guido Dorso: “la soluzione del problema meridionale non potra’ avvenire se non sul terreno dell’autonomismo. Ogni altro tentativo o ci riconduce nel vecchio schema della carita’ statale o minaccia di sbalzarci nel separatismo reazionario”.

 

 

Lucca, 21 ottobre 2010

 

Torna all'indice dei documenti
Torna alla prima pagina