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Centocinquant’anni eppure non li dimostra

Intervista di Alessandro Bedini allo storico Paolo Buchignani

Centocinquant’anni eppure non li dimostra, la frase riassume il clima che si respira alla vigilia delle celebrazioni per il centocinquantesimo anniversario dell’unità d’Italia. Le polemiche tra storici riguardo i diversi aspetti che hanno caratterizzato il Risorgimento e più in generale il processo unitario, lasciano spazio alle polemiche politiche: dalle dimissioni di Calro Azeglio Ciampi dalla presidenza del Comitato per le celebrazioni alle accuse per i mancati, adeguati finanziamenti e il varo di iniziative all’altezza della ricorrenza. Abbiamo chiesto un parere allo storico Paolo Buchignani, scrittore, saggista, autore di numerosi libri che hanno affrontato questo argomento, in procinto di pubblicare un saggio dal titolo “Il risorgimento nella cultura del fascismo rivoluzionario” che sarà edito in un volume collettaneo dalla casa editrice fiorentina Polistampa.

Professor Buchignani è possibile fare un bilancio storico di questi centocinquant’anni?

Si, quello verso cui stiamo andando è il terzo giubileo della patria, il primo ci fu nel 1911, il secondo nel 1961 e il prossimo appunto nel 2011. Nell’11 siamo nell’età giolittiana, ci fu l’inaugurazione dell’altare della patria, i liberali presentarono l’unità d’Italia come un grande successo e un loro merito, mentre i socialisti e anche i cattolici la pensavano diversamente, dissero che l’altare della patria non terminato era la metafora dell’Italia stessa che non era terminata, mancava una vera identità italiana perché dal processo unitario erano state escluse le masse popolari. Si riprendeva il concetto mazziniano di rivoluzione incompiuta, di Risorgimento fallito e questo sia sul versante repubblicano che su quello socialista ma anche su quello cattolico, non dimentichiamo che i cattolici erano ancora fuori dallo stato, il patto Gentiloni verrà solo due anni dopo, nel 1913. Fu dunque un momento di divisione quel primo giubileo dell’Italia. D’altra parte era vero anche quello che sosteneva Benedetto Croce, che l’Italia nei primi cinquant’anni di unità aveva fatto notevoli progressi, che con la precedente divisione non ci sarebbero stati. Tuttavia la cosiddetta “nazionalizzazione delle masse” non era avvenuta o era avvenuta solo in parte, lo stesso Giolitti che si proponeva quell’obiettivo fallì. Fu la Prima Guerra mondiale a dare il via al quel processo, paradossalmente Caporetto, la rivolta dei santi maledetti, come la definì Curzio Malaparte, provocò il ricompattarsi del popolo intorno allo stato e quello fu un passo in avanti per la creazione di un’identità nazionale.

Si però il tipo di stato messo in piedi da Cavour, sebbene su base parlamentare, è ben lungi dal coinvolgere le masse popolari.

Questo è vero, in effetti la base popolare era assai ristretta, all’inizio votava circa il due-tre per cento della popolazione, il processo verso l’identità nazionale sarà lungo e faticoso. Però Cavour, da vero liberale, costruisce la nazione sul binomio stato-libertà e sceglie l’interpretazione parlamentare dello statuto. Questo secondo me non è poco.

Professor Buchignani ci sono alcuni studiosi i quali sostengono che in effetti più che di processo unitario si dovrebbe parlare di colonizzazione.

E’ vero si parla molto della colonizzazione del Sud e credo che il discorso abbia un suo fondamento, io però non lo enfatizzerei. Ci fu, anche questo è certo, la dura repressione del brigantaggio, non si andò certo incontro ai problemi dell’Italia meridionale, però non si può sostenere che il Sud stava meglio sotto i Borboni, a questo non ho mai creduto, ci sono stati sicuramente grossi limiti nel processo unitario ma non condivido l’idea del Risorgimento come rivoluzione fallita o tradita, anche se questa tesi ha avuto molto seguito in epoche diverse. Nei democratici mazziniani ad esempio che si sono sentiti sconfitti dal Risorgimento, i garibaldini che non volevano certo la monarchia sabauda, questo porterà a una forte critica verso lo stato liberale e anche alle istituzioni venute fuori dal liberalismo, quindi nei confronti dello stato tout court. Emilio Gentile definisce questo atteggiamento “radicalismo nazionale”, altri, come Galli Della Loggia e Marcello Veneziani lo chiamano “ideologia italiana” riprendendo Norberto Bobbio: l’Italia non è nata né grande né popolare è nata a metà a causa della classe dirigente liberale e di Casa Savoia.

Lei pensa che il ruolo giocato dal mondo cattolico abbia in qualche modo favorito il radicalismo nazionale?

Si, anche i cattolici, almeno all’inizio, rifiutano l’unità d’Italia, non dimentichiamo il non expedit, la scomunica allo stato italiano, il divieto per i cattolici di far politica. Cattolici e socialisti erano considerate forze antisistema, poi però i primi si sono inseriti nello stato perché la Chiesa, di fronte al pericolo socialista, preferì accordarsi coi liberali. Già nelle elezioni amministrative che si tennero alla fine del 1800, al tempo di Leone XIII, i cattolici parteciparono alle elezioni in funzione antisocialista. A proposito di questo argomento occorre ricordare ciò che accadde nel secondo giubileo della patria, nel 1961, in piena epoca democristiana. Ebbene i democristiani rivendicarono a loro stessi il merito dell’unità d’Italia facendo insorgere numerosi storici liberali, primo fra tutti Rosario Romeo, i quali si ribellarono ricordando come il mondo cattolico fosse stato assolutamente contrario al processo unitario.

Professor Buchignani qualcuno sostiene che alla fine fu il fascismo a fare l’unità d’Italia.

Il fascismo inquadrò le masse e probabilmente contribuì alla loro nazionalizzazione. Ma essendo una dittatura assunse in proprio il monopolio dell’italianità, chi era fascista era italiano gli antifascisti non si dovevano considerare tali. Insomma il fascismo sequestrò il concetto di italianità, provocando così una divisione. Tanto è vero che la parabola del fascismo si conclude con una guerra civile. Non solo, nel 1943-45, ci si combatteva in nome degli stessi miti: si esaltava Mazzini da una parte e dall’altra, si richiamavano al Risorgimento tanto i repubblicani di Salò che i partigiani socialisti e comunisti. Infatti il mito del Risorgimento come rivoluzione tradita viene ereditato sia dagli azionisti, attraverso Gobetti, che da Gramsci e dalla cultura comunista, ma anche dal fascismo.

Perché questa coincidentia oppositorum?

Vede il fondamento di questa convergenza sta tutto nel pensiero di Alfredo Oriani, non a caso celebrato da Mussolini, da Gobetti e da Gramsci. Nel suo libro La rivolta ideale, Oriani sosteneva che il Risorgimento non si era realizzato perché la classe dirigente liberale era materialista e borghese e non aveva portato avanti le istanze del Risorgimento e quindi bisognava completarlo. I comunisti pensavano che loro stessi avrebbero potuto completarlo e i fascisti pure. Il fascismo presenta dunque se stesso come la continuazione del Risorgimento incompiuto. Mussolini è colui che dovrà riuscire là dove Crispi e Giolitti hanno fallito costruendo un’Italia grande e popolare.

Alessandro Bedini

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