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Democrazia, regole, consenso

(Non e’ la liberta’, solo gli uomini liberi che mancano)

 

Di Andrea Talia

 

 

    Il “pasticciaccio brutto” dell’elezioni regionali.

 

     Il decreto ad listam, spacciato come meramente interpretativo, volto a sanare la tardiva presentazione della lista del PdL laziale e della lista di Formigoni in Lombardia (1), ci offre (ora per allora) lo spunto per alcune riflessioni, a valenza prevalentemente dottrinaria. Si richiamano cosi’ tematiche fondamentali per un dignitoso modo di vivere civile e politico. Da cittadini e non da sudditi.

La vicenda del decreto, anche se successivamente inficiato dalla magistratura amministrativa e poi dalla Camera, ha evidenziato una concezione della democrazia, a dir poco, disinvolta. Giocata, tutta, sulla sostanza e l’opportunita’ politica. Aprendo nuovi spazi alla teoria della “Costituzione materiale”, costruiti in funzione giustificativa degli sconfinamenti e degli abusi. Dimenticando, cosi’, che la democrazia e’ anche forma, rispetto delle regole, ossequio delle procedure formali (2). Come tali, avalutative, cioe’ prive di contenuto e di valore.

Istituzione rappresentativa, non identitaria; stabile e “astratta”, non contingente; “regole del gioco” fisse e immutabili (fin quando esistono), non un “fai da te”, “in corso d’opera”.

E cosi’: invece di reperire una soluzione in grado di contemperare le legittime aspettative di molti cittadini di votare, con rispetto della specifica disposizione, per il partito maggioritario, si e’ preferito gridare al cavillo. Al formalismo “cieco e muto”, insensibile al “grido di dolore” dell’opinione pubblica. Spregiudicatamente manovrata e invocante una sorta di liberta’ naif.

Si sono richiamate la semplicita’ del popolo, l’immediatezza dei sentimenti e delle soluzioni, non tolleranti fumosi “lacci e laccioli”.

Si e’ pensato cosi’ di sanare, con un colpo di spugna, una palese goffaggine. Poco importante se dovuta a risse interne o inettitudine.

A fronte di questa insensibilita’, a questo modo di procedere della “democrazia reale”, il cittadino “democratico”, per buona parte, non ha sollevato sentimenti di indignazione e di biasimo. Generalizzati, diffusi, sentiti (3). Ci rendiamo conto che, talvolta, il summum ius puo’ diventare summa iniuria, massima ingiustizia. Ma se non c’e’ nessun ius, dacche’ tutto e’ opinabile, ci sara’ sempre e soltanto massima iniuria.

Quale la morale?

Se (come dovrebbe essere ovvio) non esiste liberta’ senza regole, una societa’ (tout court) democratica, deve non solo avere buone leggi ma anche la disponibilita’, da parte del “personale politico” governante, ad autolimitarsi. Per rispettarle e farle rispettare.

 

La democrazia

 

A) Premessa (cosa e’; come si e’ evoluta; l’approdo)  

 

    Difficile trovare nella storia del pensiero occidentale un concetto piu’ discusso, esaltato, criticato di “democrazia”.

Cerchiamo di offrirne una chiave di lettura. Democrazia significa, etimologicamente, “governo del popolo”. Eppure il popolo, al di fuori di epoche pre-industriali, pre-liberali, pre-democratiche, non ha governato alcunche’.

Cio’ premesso, i piu’ autorevoli studiosi della materia (4), hanno concordato che l’unico modo di capire la democrazia, e’ di considerarla dal punto di vista dei contenuti. Ricavabili da una serie di elementi, essenziali e minimali. IN estrema sintesi:

a)      Chi e’ autorizzato a prendere le decisioni collettive; con quali procedure. Risposta: un numero “molto alto” (l’onnicrazia, il governo di tutti e’ un ideale-limite), sulla base della prevalenza della maggioranza;

b)       Il voto: eguale (un uomo, un voto); libero: frutto di una libera e consapevole scelta fra opzioni diverse; garantito da una serie di diritti, scolpiti in norme costituzionali (5);

c)       Governati in grado di esercitare un controllo sull’attivita’ e sulle decisioni dei governanti, assunti tramite procedure predeterminate ed atti pubblici trasparenti;

d)       Uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge;

e)       Rifiuto della violenza come metodo di risoluzione dei conflitti politici e privati.

Un brevissimo excursus storico: dalla democrazia degli antichi (il popolo riunito nell’agora’ per deliberare) (6), siamo passati ad una concezione “individualistica” della societa’ attraverso tre eventi:

1)      Il contrattualismo del Seicento e Settecento: gli individui, liberi ed eguali, si accordano tra loro per dare vita ad un potere comune;

2)       La nascita dell’economia politica: il soggetto (l’homo economicus), e’, ancora una volta, il singolo individuo;

3)       La filosofia utilitaristica (da Bentham a Mill): il bene comune (la felicita’ del maggior numero) e’ data dalla somma dei beni individuali.

Sorge, cosi’, “attorno all’individuo una sorta di cerchio magico, nel quale ne’ lo Stato ne’ la legislazione sono piu’ autorizzate a penetrare” (7).

 

B) Ripensare la democrazia (La democrazia e’ in alto mare)

 

     Sottolinea Giddens (8): “il paradosso della democrazia consiste nel suo diffondersi nel mondo e contemporaneamente nell’emergere, all’interno delle democrazie mature, di una delusione cocente nei confronti dei processi democratici”.

Cio’ in quanto detti processi riposano su un’aspettativa ambivalente: cambiamento degli equilibri vigenti, a fronte della necessaria esigenza di controllo sociale.

Chiediamoci: rispetto alla odierna complessita’ (statale e internazionale) dei problemi di governo, questa ambivalenza assicura ancora il rispetto delle regole e la tutela delle garanzie? Ed ancora: la democrazia e’ ancora una promessa credibile?

Oggi, la democrazia, appare, in realta’ un sistema misto: un po’ di oligarchia, un po’ di democrazia e un po’ di principio monarchico. Si pensi ad un premier “forte”.

In effetti, molte delle condizioni da noi in precedenza evocate, si annacquano nella pratica.

Il voto non e’ uguale: il voto del singolo cittadino, libero, non intruppato in gruppi, si disperde. Decidono gli apparati dei partiti. IL voto di opinione e’ residuale rispetto al voto organizzato.

L’esistenza legale di lobbies e partiti e’ un vulnus alla democrazia. Cio’ in quanto le une e gli altri limitano il potere decisionale del cittadino. Ovviamente non sono illegittime (art.49 Costituzione: “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”). Ma sono arbitrarie. Almeno, tali, sono sentite dai cittadini i quali peraltro vi si sottomettono. Non perche’ credono nella loro legittimita’, ma perche’ le temono o attendono da esse vantaggi, benefici, favori, clientelismi.

Ed allora, una percentuale di cittadini, vieppiu’ crescente (le recenti elezioni regionali: docent) si rifugiano nella antipolitica, non votano. Sottolineano cosi’ il loro dissenso, anche se in maniera sterile e agnostica.

Peraltro, ne hanno ben d’onde. Dacche’ noi non scegliamo i candidati alle elezioni. Li scelgono i partiti, cioe’ le oligarchie. Il popolo – detentore formale della democrazia – e’ espropriato. Prima delega la sovranita’ a dei rappresentanti, poi delega ai partiti la scelta dei candidati. Infine – poiche’ gli apparati fanno blocco su chi vogliono effettivamente eletto – anche dei rappresentanti.

Aggiungo che, in un sistema bipolare come il nostro, il leader decide anche, e in certa misura, sempre attraverso l’assegnazione di collegi “sicuri”, in quale proporzione devono essere rappresentati in Parlamento dai partiti alleati.

Quindi: altro circuito perverso. Nella democrazia rappresentativa bipolare: il potere passa dal popolo ai suoi rappresentanti, da costoro ai partiti, dai partiti agli apparati, dagli apparati al ristretto gruppo dirigente. Da questo ai leader per condensarsi infine nel capo della coalizione.

Gli stessi equilibri contrapposti di potere (esecutivo, legislativo, giudiziario), cardine di ogni democrazia liberale, oggi, si sono appannati (9).

Realisticamente, oggi, la triade del dominio e’ tutt’altro: finanziario, mediatico, politico.

 

      Pur con queste anomalie,

la democrazia continua ad essere migliore di tutti gli altri sistemi politici. Si tende ad esportarla, a globalizzarla. Teniamocela quindi ben stretta. Ricordiamoci quello che sosteneva il pragmatico Wiston Churchill: “la democrazia e’ il peggiore dei sistemi ad eccezione di tutti gli altri”.

Pur se gli uomini non sono uguali, rimane fondamentale il principio dell’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge. Anche se maliziosamente il liberale Giolitti affermava: “le leggi ai nemici si applicano, per gli amici si interpretano”.

Questa ideologia, puo’ e deve essere riformata, perfezionata, aggiornata. Non ha peraltro alternative e non e’ “sull’orlo della tomba” (10).

Occorre allora rianimarla e ripopolarla.

Promuovendo la diffusione, anziche’ la concentrazione del potere; costruendo solidarieta’ orizzontali piuttosto che verticali; incoraggiando la tolleranza, il dibattito e l’autonomia di giudizio, anziche’ il conformismo e l’obbedienza.

Una democrazia partecipata, economica e non solo politica, che esca dal “palazzo” ed entri nella cultura della gente. Che connetta: rappresentanza e partecipazione; economia e politica; famiglia e istituzioni. In questo ambito, e’ necessario “restituire lo scettro al principe”, vale a dire consentire ai cittadini, elettori e utenti, di esercitare con maggiore incisivita’ i loro poteri democratici. In modo che la sovranita’ popolare non sia una semplice dichiarazione di principio: possa invece essere esercitata continuativamente, consapevolmente, responsabilmente. Senza deleghe.

 

 

 

 

 

Le regole

(Governo degli uomini o governo delle leggi?)

 

     Il diritto – dal punto di vista dello Stato – si configura come ordinamento normativo. Insieme, quindi, di norme di condotta e di organizzazione, finalizzate a regolamentare la convivenza dei rapporti famigliari, economici e di potere (11).

Il diritto – come ragione dell’azione - mira alla realizzazione concreta della giustizia.

Il diritto infine – dal punto di vista morale – incarna l’ethos della societa’.

Premesso che “norma” e “regola” appaiono di significato sostanzialmente identico (14), la regola nasce per “rendere comprensibile il modello di regolamentazione che il potere considera obbligatorio. Quindi per trasformare le decisioni del potere in modelli” (13).

Tutta la storia del diritto civile italiano, e’ permeata dalla cultura delle regole (14). Esse rappresentano il braccio secolare di ogni regime democratico che si rispetti. Assicurando parita’ di gioco, trasparenza, informazione, correttezza, sono l’altra faccia della convivenza, due lati della stessa medaglia.

Da qui due considerazioni, desunte da un saggio, sull’argomento, di Colombo (15):

-         Se a ciascuno spettano gli stessi diritti e sono imposti gli stessi doveri, ogni persona che partecipa alla societa’, risulta uguale alle altre di fronte alla legge;

-           Il modello orizzontale di societa’ non tollera alcuna opacita’ delle istituzioni: l’amministrazione non puo’ non essere trasparente.

Quindi la “Costituzione materiale”, una sorta di “fai da te”, una Costituzione “vivente”, creata dalle oligarchie senza il consenso dei cittadini, neppure avvertiti, e’ una frode.

Certo, nessuna regola e’ un idolo, puo’ e talvolta deve cambiare. IL cambiamento deve, peraltro, avvenire secondo modalita’ precise.

Cio’ che impressiona – nel nostro Paese – non e’ tanto la violazione delle leggi (sempre esistita), quanto la crescente indifferenza nei loro confronti.

Quindi sostanza (istituzioni) e forma (regola) debbono coincidere.

Conclusivamente: la democrazia moderna non deve rattrappirsi sulla giuridificazione tecnica, formalistica e procedurale della politica. Ma vivere della dialettica, tra le dimensioni del diritto e del potere, tra forma e sostanza, tra legalita’ e legittimita’.

Propendo (16), quindi, per il governo delle leggi (“stato di diritto”), non per quello degli uomini (17).

La liberta’ dell’individuo puo’ manifestarsi appieno solo all’interno di una societa’ che, attraverso le sue leggi, tuteli i piu’ deboli. Un perimetro che eviti di vivere in una sorta di Far west.

 

 

IL consenso

 

     La politica non e’ il regno tout court del fare; ma della riflessione e dell’elaborazione, poi dell’esecuzione. Questa categoria, nutrita di tante voci, tanti interessi, tanti conflitti, deve camminare piano, non a passo di carica (18).

A differenza della ragione, i sentimenti di amore e di odio anche nel campo politico, vengono suscitati dalla fascinazione della parola, dal suo potere selettivo. Incantare piu’ che dare, promettere piu’ che mantenere.

Relegata l’argomentazione, la critica, il dialogo a fatto eventuale, il potere democratico si regge, piu’ degli altri, sull’apparenza.

Parimenti, il consenso, (19), sale della democrazia, di quello che un tempo si chiamava popolo e oggi viene detta opinione pubblica, dovrebbe essere centellinato, meditato, soppesato. E’ oggi, invece, concesso in maniera fideistica e incondizionata.

Cio’ in quanto le oligarchie e i loro leader hanno a disposizione mezzi di mediazione e di suggestione: quali i grandi organi di informazione (Max Weber bolla i giornalisti come “una specie di casta di paria”) e del sistema televisivo.

Il flusso del consenso non va quindi dal basso, verso l’alto, come vorrebbe la teoria democratica, ma dall’alto verso il basso. Non sono i governati ad orientare i governanti, ma i governanti a condizionare i governati. Questo capovolgimento del flusso del consenso non riguarda solo e tanto il momento elettorale, ma l’intera attivita’ politica, compresa quella decisionale.

Il consenso diventa strumentale, finalizzato. Lo si carpisce, per ragioni di potere, personale e di gruppo. Lo si tradisce ogni volta che contrasta con gli interessi della leadership.

Come ovviare?

Solo creando spazi istituzionali, che consentano di rendere effettiva la liberta’ di parola, di associazione e di stampa. La reale partecipazione dei cittadini alla formazione del consenso risiede nell’obbligo delle organizzazioni, che controllano i mezzi di comunicazione di massa, a svolgere la loro funzione nella direzione di una formazione dialogica e di criticita’. Non in quello di una manipolazione di un pubblico atomizzato e asservito.

Cio’ ovviamente presuppone non un popolo “bue”, ma un cittadino avvertito, responsabile e rispondente. Se l’homo sapiens e’ in pericolo, la democrazia e’ in pericolo.

 

Democrazia precaria

(Tra liberalismo e nuove feudalita’)

 

     La nostra e’ una vera democrazia liberale?

Una premessa, per capirci. “Il liberalismo e’ un universo di mura, ciascuna delle quali crea una nuova liberta’” (20).

Qualche esempio: le mura innalzate tra Chiesa e Stato hanno consentito la liberta’ religiosa; il muro innalzato tra Chiesa e Stato da un lato, e Universita’, dall’altro, ha permesso la liberta’ di ricerca e in generale di pensiero. La separazione tra societa’ civile e potere crea la sfera della liberta’ economica e della libera iniziativa.

Ancora, la separazione tra vita privata e vita pubblica crea la sfera della liberta’ personale.

Il liberalismo inoltre:

-         Attribuisce (come detto) un potere di controllo in ordine al funzionamento delle istituzioni e di valutazione delle persone ivi operanti. Lo “sguardo” dei cittadini non ha limiti;

-          Presuppone una dialettica politica, fondata si’ sull’antagonismo, ma tale da non fomentare il reciproco disconoscimento. Sullo sfondo: coesione sociale, ragionevolezza, moralita’;

-          Implica una democrazia razionale: per argomenti, scelte ponderate, obiezioni critiche. “Platone, per inaugurare la democrazia nella sua citta’ ideale, riteneva che dovessero essere allontanati retori e sofisti, perche’ costoro, per ottenere consenso, ricorrevano non a solidi argomenti, ma alla mozione degli affetti e alla cattura dell’anima attraverso la fascinazione della parola” (21);

-          Accetta il rischio che la classe dirigente possa essere mediocre, in nome di un valore molto piu’ alto: la liberta’. La maggioranza, ovviamente, non puo’ essere un’èlite. La mediocrita’ dei governanti e’ il prezzo che la democrazia deve pagare.

Conclusivamente, una democrazia liberale “classica” dovrebbe contenere tutto. Il conflitto e l’armonia, la disputa e la tolleranza, le piu’ ampie differenze politiche e la loro ricomposizione sotto l’architettura delle disposizioni.

 

     Bene, la trama ideologica. Male, la pratica quotidiana. Democrazia e’ una cosa; il grado di democraticita’ e democratizzazione, un’altra.

In Italia, molte volte le istituzioni sono state lontane. Molte altre volte, sono state di parte. Per troppo tempo, abbiamo confuso il concetto di classe dirigente con quello di classe politica. Alla classe politica questa confusione ha fatto comodo per estendere i propri poteri su tutta la societa’. Alla societa’, per non assumersi le proprie responsabilita’ nascondendosi dietro lo schermo dei politici.

L’attuale confusione non e’ figlia del destino cinico e baro. E’ l’eredita’ di antiche distorsioni che ci hanno insegnato – sempre e comunque – a premiare la superficialita’ e la semplificazione, in luogo della serieta’ e della responsabilita’.

Questi mali endemici, aggravati dalla mancanza di etica pubblica e di carenza di etica individuale, sono stati acuiti dalla “discesa in campo” di Berlusconi e del Movimento da lui fondato.

Si sono generalizzate le divisioni, si e’ tagliata l’Italia in due. Guelfi e Ghibellini, amici e nemici, passioni non ragione. Complice un bipolarismo guerreggiato. I perdenti sono eliminati e basta. La lotta politica somiglia piu’ ad una corrida di particolarismi contrapposti che a una misurata competizione tra forze votate all’interesse generale.

Berlusconi e’ stato anche l’artefice di una politica sopra le righe, tutta giocata sul rapporto carismatico, diretto, tra il leader e la sua folla. Vengono eliminati quei passaggi intermedi, cuore di una democrazia faticosa ma vitale.

Il leader e’ “un uomo che non crede nei confini. Quello tra il privato e il pubblico. Quello tra gli interessi e i doveri. Quello tra i giochi di parte e le regole comuni. Quello tra politica e istituzioni” (22).

Mai nessuno, nella vita della Repubblica, ha avuto tanta forza. Non puo’ quindi essere invocato – dal premier – il pretesto di non avere il potere di governare. Una delle tante favole! (23).

E mai nessun destino, pur protrattosi per tanto tempo, e’ apparso cosi’ fragile. Legato, com’e’, al filo di una persona e del suo immaginifico racconto.

Certo, non siamo in un regime. Ma, indubbiamente, almeno ad avviso di chi scrive, in un sistema che tradisce alcune caratteristiche del liberalismo.

Si evidenziano tratti illiberali per la presenza di un “cesarismo attenuato”, di un “dominio della maggioranza” (24) e di un “dispotismo strisciante”.

Una pratica, in sostanza, piu’ vicina alla teorizzazione di Rousseau (democrazia sostanziale) che di Stuart Mill (liberalismo classico).

Nota Tocqueville: “Nella democrazia i semplici cittadini vedono un uomo uscire dalle loro file e giungere in pochi anni alla ricchezza e alla potenza: questo spettacolo suscita la loro sorpresa e la loro invidia, essi ricercano in che modo colui che era un loro eguale sia oggi investito del diritto di dirigerli”. Ancora, Tocqueville: “Le repubbliche democratiche rendono il dispotismo superfluo perche’ e’ la maggioranza che stringe un formidabile laccio intorno al pensiero”.            

 

La postdemocrazia

 

    Nella relazione tra il “demos” e la democrazia, tutto sta cambiando. Siamo entrati in un territorio, in parte nuovo. La postdemocrazia (la definizione e’ di C. Crouch) (25), la democrazia “classica”, si e’ involuta. La democrazia “moderna”, nata nel solco del pensiero liberale, finisce per mortificare proprio l’uomo libero, che rifiuta appartenenze feudali.

C’e’ una sorta di “divinizazione” della tecnica e della politica. IL laicismo, nato per promuovere il dubbio, sta morendo per indigestione di certezze. Destra e sinistra non sono opportunita’ di governo. Rappresentano, viceversa, due categorie dello spirito; etnie che si affrontano con l’animosita’ della vecchia “era ideologica”. Manca, quindi, una koine’ politica.

Non esistono piu’ idee interessanti. Esistono solo idee interessate. Telecrazia, perdonismo, vuoto di riformismo, espropriazione della sovranita’ reale, indigenza di orizzonti, contrassegnano l’attuale stagione.

Democrazia difficile per un periodo difficile.

Non importa. Viviamo comunque “nel migliore dei mondi possibili”, e come dice Fukuyama, non possiamo immaginarne un altro. In piu’ siamo democratici e quindi padroni del nostro destino. Rimbocchiamoci allora le maniche: contribuiamo, tutti insieme, ad edificare una societa’ autenticamente libertaria.

Non dimenticando che il passato e’ il luogo dove possiamo rifugiarci, ma e’ il futuro, il posto dove dobbiamo andare.

 

Commiato

(I diritti della maggioranza; i doveri della minoranza)

 

     Veloci considerazioni finali.

1)      Dobbiamo rifuggire da inutili nostalgie. Sia in termini di valutazione della Prima Repubblica che sul sistema proporzionale.

Sul primo versante, la Prima Repubblica non e’ stata un’irreprensibile democrazia. Era un regime partitocratico (il termine venne coniato allora), lottizzato, senza una reale separazione dei poteri.

Ci ha lasciato alcuni disastri: instabilita’ governativa, inefficienza della Pubblica Amministrazione, una scuola come strumento di organizzazione clientelare, un colossale debito pubblico. Peraltro, in positivo, abbiamo avuto due ottime stagioni: il centrismo di De Gasperi ed Enaudi. Forse piu’ ancora, il centrosinistra di Fanfani, Moro, Nenni, La Malfa: personalita’ – certo – che non si ritrovano dietro l’angolo.

In piu’: un “idem sentire” in periodi nevralgici della storia repubblicana (penso, alla lotta al terrorismo).

Sul versante poi del sistema elettorale proporzionale, lo stesso evoca una democrazia malata, fatta di consociativismo, diritti di veto, rendite di posizione (“bipartitismo imperfetto”).

Quindi: e’ nel presente che viviamo e sono i problemi di oggi che dobbiamo affrontare con gli strumenti di oggi. Non serve evocare un’eta’ dell’oro che non e’ mai esistita.

 

2)      Berlusconi, pur con le evidenziate “anomalie”, ha saputo capire e interpretare un’Italia diffusa e minuta, un territorio venato da molti particolarismi, un popolo che crede poco allo Stato e meno ancora alla politica. E’ riuscito a ricongiungere nuova modernita’ e nuova destra e a dare, a quest’ultima, una sintonia con il Paese, come non accadeva dai tempi del fascismo. Nemmeno la Dc ne era stata mai capace, neppure all’epoca della ricostruzione e del “miracolo”. Con Berlusconi siamo passati dalla “democrazia dei partiti” della Prima Repubblica, alla “democrazia del leader”.

Un leader (non uno statista: il paragone con De Gasperi mi sembra azzardato), spregiudicato, intelligente, pragmatico, dotato di fantasia, percezione dello spirito dei tempi e della direzione del mutamento.

In fondo, “e’ come noi”! Sostengono quanti lo hanno reiteratamente votato. Condoniamoli: i suoi conflitti di interesse (peraltro non risolti, a suo tempo dalla sinistra), la prevalente attenzione per i propri affari, le tensioni con la magistratura, lo scarso rispetto dei delicati bilanciamenti di uno stato di diritto (26).

Peraltro una politica cosi’ indulgente con se stesso, non puo’ alla fine essere troppo severa con i problemi che ha davanti.

 

3)      Tutto questo e’ stato “pagato” sia in termini oggettivi (mancata o lenta modernizzazione del Paese) che soggettivi.

Non sfugge a nessuno che oggi la societa’ e’ immersa in una sorta di sregolatezza. La stessa ha coinvolto sia la sfera individuale, segnata da egoismi e soggettivismi senza fine. Sia la sfera collettiva e istituzionale, segnata da falsificazioni e arroganze di ogni tipo.

Siamo pieni di abili richiami alla legalita’, ma tutti restiamo in una sorta di limbo, in una realta’ indistinta. Aumenta la corruzione; diminuisce il tasso di indignazione.

 

4)      Berlusconi ha quindi diritto/dovere di governare. E’ stato eletto e reiteratamente confermato (siamo al Berlusconi/ter) attraverso libere e legittime elezioni.

Non ha invece il diritto di evocare, in momenti di crisi e di difficolta’, il popolo quale fonte precipua di ispirazione, di termine costante di riferimento, di rinnovata legittimazione.

Il populismo e’ una delle anomalie della democrazia liberale che implica un demos governato piu’ che governante.

In sostanza, il populismo, e’ fideistico nelle sue premesse, messianico nei suoi moduli operativi, carismatico nel suo leader.

Altra (Parlamento) invece e’ (dovrebbe essere) la fonte del confronto/consenso/rilegittimazione.

 

5)      L’opposizione, da parte sua, piu’ che praticare un antiberlusconismo epidermico e viscerale (il Nostro e’ un uomo dalle infinite risorse. In tutti i sensi), deve invece approntare un’alternativa credibile. Programmi, alleanze, strategie.

Il centrosinistra di oggi e’ figlio di due crisi diverse. La prima, affonda le sue radici nella caduta del Muro e nel gran rivolgimento di fine secolo. Fa i conti con il declino di quelle certezze sociali che, in tutto il mondo, l’avevano nutrita e rassicurata.

La seconda – che e’ crisi del centro – nasce dal lutto democristiano, mai elaborato fino in fondo.

Centro e sinistra, soprattutto dopo il voto dell’aprile 2008, si sono misurate insieme (nascita del partito democratico). Sono andate peraltro ad infrangersi sugli scogli di un Paese piu’ realista. Forse, piu’ cinico di come si immaginava di trovare. Indubbiamente piu’ “avanti” delle loro idee.

Non sono quindi riusciti a rinnovarsi, ad insediarsi sul territorio, a parlare alla pancia (piu’ che alla testa) dell’elettorato.

Divisioni, spocchia, autoreferenzialita’, ossificazione della classe dirigente, ne hanno minato la credibilita’. E’ mancato un programma e un obiettivo; una rivoluzione delle aspettative e delle opportunita’.

 

6)      E’ necessario riannodare il filo tra cittadini e istituzioni.

IL primo passo e’ restituire ai cittadini il diritto a scegliersi i parlamentari. Va abolita (referendum) la legge Calderoli, il famigerato Porcellum che, con le liste bloccate, impedisce agli elettori di votare per i parlamentari e assicura al Governo un Parlamento docile e addomesticato.

 

7)      Abbiamo gia’ detto che Berlusconi ha il diritto/dovere di governare. Governi allora, abbandonando la strategia dell’”effetto annuncio”, sul quale campicchia da quindici anni; pratichi in concreto la (sbandierata) rivoluzione liberale; parli di Politica, piu’ che di persecuzione giudiziaria, spiegando, sul terreno culturale, perche’ c’e’ conflitto tra Politica e Giustizia solo quando governa il centrodestra.

 

8)      Faccia quindi le riforme, di cui il Paese ha bisogno, anche senza l’opposizione.

Il Paese, alla fine del mandato, gli chiedera’ conto di quello che non ha fatto, non di quello che ha fatto.

Per le riforme, penso in particolare alla riforma della Pubblica Amministrazione, per un contenimento degli sprechi e della spesa. Alla riduzione della pressione fiscale, anche in senso federale. Ma, senza indulgenze, per le regioni non virtuose. Alla riforma della Giustizia, per accorciare i tempi del processo e per garantire i cittadini (tutti i cittadini).

 

9)      La riforma istituzionale, al momento, non serve (27). Sia lasciata per ultima.

Deve riguardare, peraltro, modalita’ di elezioni e poteri del Presidente della Repubblica (peraltro no al Presidente eletto direttamente); premierato forte; riordino/rafforzamento del Parlamento; nuova legge elettorale per le modalita’ di elezione dei parlamentari (28); migliore equilibrio istituzionale tra ruolo del Parlamento e quello dell’Esecutivo.

Cio’ nell’ambito dell’unita’ del Paese, di valori condivisi, di federalismo compiuto. Come tale, andrebbe ricercato l’accordo fra maggioranza e opposizione.

 

10)  L’Italia non ha il monopolio del malessere democratico. L’affanno della democrazia rappresentativa, si ritrova in molti altri contesti europei occidentali.

Questo non ci conforta, ma, almeno una volta tanto, non si parla di “specificita’” ed “anomalie” tutte e solo italiche.

A proposito, quando supereremo il “provincialismo” e i mai risolti “complessi di inferiorita’”?

 

11)  Mentre scriviamo questo articolo, si avvertono forti scricchiolii nello schieramento governativo. Affiorano ruberie, prese di distanza, malumori.

Assestamento o resa dei conti? Al momento, sembra scongiurata la seconda.

Rimaniamo, peraltro, vigili ricordando che l’esercizio del dubbio non e’ un mezzo ma un dovere. E l’ipotesi che la legislatura finisca di qui a neppure un anno, comincia ad essere analizzata come epilogo che pochi vogliono; ma che pochissimi riusciranno a contrastare.

 

12)  La Lega sostiene l’abberrante tesi secondo la quale, finche’ non ci sara’ il federalismo, non ha intenzione di festeggiare il 150° anniversario dell’Unita’ d’Italia. Sembra folklore politico, e in parte lo e’; lo e’ sempre quando c’e’ di mezzo Bossi. Ma il folklore parla appunto al folk, cioe’ al popolo; costruisce sentimenti di massa, trasforma la menzogna e il mito in luogo comune.

E’ dunque pericolosa questa deriva. E Napoletano non dovrebbe essere lasciato solo a fronteggiarla.

 

 

 


 

Note

 

 

1)      Sul piano pratico, peraltro, e expost, il ritardo per la lista di Formigoni e’ stato sanato. Per quella della Polverini ha inciso (solo) in termini quantitativi sulle dimensioni della vittoria della candidata del PdL.

 

2)      Si poteva pensare, come ha detto fra gli altri il Presidente emerito Scalfaro, al rinvio delle elezioni.

 

3)      La cosa piu’ tragica non e’ la malvagita’ dei cattivi, ma il silenzio dei giusti (Martin Luther King).

 

4)      Penso, tra gli altri, a N. Bobbio, Il futuro della democrazia, Einaudi, 1984; a G. Sartori, La democrazia, Rizzoli, 1993; a R. Dahl, Sulla democrazia, Laterza, 1998.

 

5)      Ad esempio, diritti di liberta’, di opinione, di riunione, di associazione.

 

6)      Platone – che era un antidemocratico – l’aveva chiamato “teatrocrazia”.

 

7)      M. Barberis, Liberta’, IL Mulino, 1999.

 

8)      A. Giddens, Il mondo che cambia, Il Mulino, 2000.

 

9)      Il legislativo e’ stato ridotto a un “timbrificio” e il giudiziario si trova sotto costante minaccia di normalizzazione, cosi’: P. Pellizzetti, Dopo il 5 dicembre: ripensare la democrazia, Micromega, 1/2010. Per un’analisi corrosiva in ordine alla democrazia, v. M. Fini, Sudditi, Marsilio, 2004.

 

10)  N. Bobbio, IL futuro della democrazia, op.cit.

 

11)  In estrema sintesi, il diritto e’ stato visto prevalentemente come norma originante da un’autorita’ superiore (es. Stato) (Kelsen), come organizzazione (Santi Romano) come frutto delle relazioni sociali fra gli uomini (Irti).

 

L’immagine del diritto come sistema di norme disposte gerarchicamente, riconducibile tutte ad una fonte unica, appare in declino. Cause: nascita di istituzioni subnazionali e sopranazionali, presenza sempre piu’ invasiva di considerazioni extragiuridiche, proliferazione di soluzioni di tipo arbitrale; cfr. P. Rossi, Fine del diritto?, Il Mulino, 2009.

 

12)  Cosi’, Santi Romano, L’ordinamento giuridico, Sansoni, 1962; ricordiamo che la norma riveste i caratteri della generalita’, dell’astrattezza, della positivita’, dell’effettivita’.

 

13)  A. Catania, Metamorfosi del diritto, Laterza, 2008.

 

14)  Rimando a G. Alpa, La cultura delle regole, Laterza, 2000.

 

15)  G. Colombo, Sulle regole, Feltrinelli, 2008.

 

16)  N. Bobbio, Il futuro …  op.cit.

 

17)  “Se c’e’ un solo uomo non soggetto alle leggi, tutti gli altri necessariamente sono a discrezione di quello”, G. G. Rousseau; Cicerone “tutti siamo servi delle leggi affinche’ possiamo essere liberi”.

 

18)  M. Follini, Elogio della pazienza, Mondatori, 2010. Bobbio, da par suo, aveva gia’ tessuto L’Elogio della mitezza, Einaudi, 1983. Peraltro ammoniva Gaetano Salvemini: “Rispettare il principio della tolleranza, non significa cedere di fronte a coloro che la pensano diversamente da noi”.

 

19)  L. Gallino, Dizionario di sociologia, Ad Vocem, 2006.

 

20)  M. Walzer, Il liberalismo come arte della separazione, Biblioteca della liberta’, 1992.

 

21)  U. Galimberti, Quando vince l’irrazionale, La Repubblica, 25 marzo 2010.

 

22)  M. Follini, Elogio …  op.cit.

 

23)  Questa la scansione temporale: 1994-2010. 1994: Governo Berlusconi/1; 1995: Governo Dini; 1996/2001: Governi Prodi/1; D’Alema e Amato; 2001/2006: Governo Berlusconi/2; 2006-2008: Governo Prodi/2; 2008-2010: Governo Berlusconi/3.

 

24)  A. De Tocqueville: “ritengo empio e odioso ritenere che in democrazia la maggioranza ha il diritto di fare tutto”.

 

25)  R. Dahrendorf, Dopo la democrazia, Laterza, 2001.

 

26)  Migliorare l’Italia, appare un’impresa disperata e disperante. Si apprezza, di volta in volta, la buona intenzione. Ma, anche alla luce dei risultati raggiunti, vorrei dire: lasciamoci stare. Accontentiamoci, ciascuno di noi, di migliorare noi stessi.

 

27)  Personalmente, propendo per iil modello francese: doppio turno con collegi uninominali. Appare in grado di coniugare rappresentanza con efficienza, parlamentarismo con leadership. Peraltro l’eventualita’ di una candidatura Berlusconi appare realisticamente il maggiore ostacolo sulla strada italiana del semipresidenzialismo. L’anomalia del premier andrebbe cosi’ ad essere costituzionalizzata. Passandosi cosi’ dalla Costituzione materiale a quella formale.

 

    28) Personalmente, propendo per un maggioritario a doppio turno con collegi uninominali. Indipendentemente dalla formula, dovrebbe essere una legge che

-         assicuri all’elettorato di scegliersi il partito, lo schieramento e il candidato preferito;

-          dia una rappresentanza parlamentare al reale pluralismo politico della societa’;

-          consenta la formazione di maggioranze omogenee e durature.

 

 

Lucca, 10 maggio 2010

  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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