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" Non si dicono mai tante bugie quante se ne dicono in occasione delle elezioni, durante una guerra e dopo la caccia." Otto von Bismarck.

Una citazione di un politico ottocentesco, che mi pare nulla abbia perso della sua smagliante attualita'.
Bugie durante le campagne elettorali, bugie dopo i risultati delle urne.

Ne abbiamo avuto un ampio florilegio in questi giorni.
Strano Paese questo, nel quale tutti hanno vinto!!!
Se ne sono sentite di tutti i colori, sia a livello nazionale che locale.

Il contributo che di seguito viene riportato, mi pare proponga un'analisi assai articolata della situazione: una disamina sviluppata in modo comprensibile, con tesi ben argomentate, se pur in maniera sintetica.
Ovviamente si tratta della situazione nazionale e non di fatti locali; di questi dovremo parlare e lo faremo attentamente in seguito.

Paolo Razzuoli

Dopo la vittoria, il futuro del Pdl

di Alessandro Campi

Quanto pesa il successo della Lega?
E come interpretare l'astensionismo?

La campagna elettorale è stata brutta, da dimenticare, caotica e a tratti volgare. Ma i risultati che ne sono scaturiti, come al solito non previsti da nessun analista, non parliamo poi di quegli autentici mangiapane a tradimento che sono i sondaggisti, sono stati di un grande interesse.

 

Prendiamo ad esempio l’affermazione, in alcune realtà locali, delle liste ispirate da Beppe Grillo. Chi credeva che il radicalismo antiberlusconiano non potesse spingersi oltre le invettive, elettoralmente assai efficaci, dell’Italia dei Valori, d’ora in poi dovrà tenere conto di questa nuova variante del fenomeno. La cui principale caratteristica è di essere una forma di protesta tendenzialmente antisistemica, rivolta senza distinzioni contro la destra e contro la sinistra, difficile dunque da ingabbiare all’interno di una logica di coalizione. Il che, in una prospettiva politica nazionale, rappresenta un problema in più per la sinistra, come già ha sperimentato a sue spese Mercedes Bresso in Piemonte.

Prendiamo anche il risultato nel complesso assai modesto dell’Udc, che si pensava potesse avvantaggiarsi del clima assai litigioso tra i due blocchi. Alla fine si è visto che il terzo polo vagheggiato da Casini, numeri alla mano, semplicemente non esiste. Dove l’Udc è andata da sola, in alcuni casi con candidati di buon nome – la Binetti in Umbria, la Poli Bortone in Puglia –, ha raccolto pochi consensi. Il bipolarismo italiano sarà pure debole, ma le alternative ad esso lo sono ancora di più. L’unica possibilità rimasta a Casini era quella di dimostrare di essere – ovunque, con chiunque – un alleato di governo indispensabile. Ma la dimostrazione è stata intermittente e dunque politicamente non significativa. L’alleanza dell’Udc con il centrosinistra ha funzionato in Liguria ma non in Piemonte. Quella con il centrodestra ha invece funzionato nel Lazio, in  Campania e in Calabria, ma con ciò si è confermato esattamente ciò che Casini si ostina a negare: vale a dire che la sua naturale e più organica collocazione politica rimane nel campo dei moderati.

Ciò detto, le vere novità di quest’ultima tornata elettorale sono state l’aumento significativo degli astenuti e l’avanzata della Lega.
  Il primo fenomeno era stato in realtà previsto, ma tutti si aspettavano, sull’esempio francese, che colpisse in prevalenza la maggioranza al governo. Invece ha negativamente toccato tutti gli schieramenti e la classe politica nel suo complesso. Un quaranta per cento di italiani ha scelto di non votare (se consideriamo anche le schede nulle). Ma come leggere questo dato, di per sé assai contraddittorio? Da un lato è sicuramente un segnale di disagio e insofferenza, sul quale i politici di professione dovrebbero riflettere in modo autocritico. Dall’altro indica però l’allinearsi del nostro paese a una tendenza propria di tutte le grandi democrazie contemporanee. L’eccessiva conflittualità tra partiti e istituzioni genera sicuramente disaffezione tra i cittadini, che disgustati preferiscono starsene a casa, ma di per sé l’astensionismo non è l’indicatore di una democrazia malata, tantomeno il segnale di una crisi irreversibile del bipolarismo. In un sistema istituzionale solido l’astensionismo è un dato fisiologico, una scelta politica tra le altre, al quale dovremo abituarci.

Quanto alla Lega, la sua affermazione al Nord, avvenuta in parte a scapito del Pdl, non va interpretata immaginando la radicalizzazione ideologica dell’elettorato moderato, ma al contrario prendendo atto della progressiva trasformazione del partito di Bossi in una solida e tranquilla forza politica di governo, animata per di più da una sempre più seria vocazione riformista. Se il Pdl ha ceduto elettori al suo principale alleato non è perché ne ha sposato goffamente le posizioni oltranziste in materia di sicurezza e di immigrazione, ragion per cui si è finito per preferire l’originale alla fotocopia.  È perché la Lega è nel frattempo divenuta un partito composto da solidi e onesti amministratori, un partito per di più assai radicato e ben strutturato, vicino sul territorio ai problemi della gente, che non sacrifica alla propaganda i suoi obiettivi strategici.

Come se non bastasse, il Pdl si ostina a praticare la “democrazia degli elettori”, chiamati a raccolta dal capo solo in occasione del voto alle urne, la Lega pratica invece la “democrazia dei cittadini”, chiamati a partecipare attivamente alle scelte politiche, ai cui interessi e bisogni si è vicini ogni giorno dell’anno. Entrambi, come si sa, fanno appello al popolo: ma quello berlusconiano è sempre più virtuale e passivo, un’astrazione retorica, un pubblico chiamato periodicamente all’applauso, quello leghista è invece carnale e fatto di individui concreti, lo incontri quotidianamente nelle piazze, nelle sezioni di partito e nei luoghi di lavoro, dove sta a stretto contatto di gomito con i suoi rappresentanti politici.

Queste elezioni hanno insomma certificato che nel centrodestra, rispetto alle origini, si sono curiosamente invertite le parti. Il Pdl è ormai un partito movimentista, la Lega è il partito della stabilità. Berlusconi è quello che minaccia sfracelli a ogni passo e tiene in continua fibrillazione le istituzioni della repubblica. Bossi invece manda messaggi rassicuranti e tesse la tela degli accordi. Il primo annuncia riforme a raffica a colpi di maggioranza. Il secondo si sforza di realizzarle d’intesa con gli avversari. Silvio è uno convinto di poter fare tutto da solo, vede nemici dappertutto e considera il Pdl un inciampo alla sua volontà. Umberto è sicuro di sé e non fa un passo senza il suo partito e il suo gruppo dirigente. Berlusconi è l’estremista visionario, Bossi il moderato con poche idee ma chiare. Ed è in quest’ultima veste, largamente inedita, che ha finito per conquistare il Nord e per diventare il dominus della scena politica nazionale.

Per Berlusconi, che ha appena vinto l’ennesimo referendum sulla sua persona, tutto ciò non sembra rappresentare un problema. Ritiene anzi che con un Bossi ancora più forte abbia come stipulato una vantaggiosa assicurazione sulla sua futura vita politica. Ma l’impressione è che all’interno stesso del Pdl non tutti condividano il suo ottimismo. La protezione politica garantita dalla Lega al Cavaliere rischia infatti di avere, in prospettiva, un costo politico assai alto, in termini di consenso elettorale, di forza rappresentativa e d’azione politica, proprio per il partito fondato da quest’ultimo. Il timore che comincia a serpeggiare nel Pdl, dopo questo risultato elettorale, è insomma che Berlusconi, per garantire se stesso negli anni a venire, finisca per separare troppo il suo personale destino da quello del suo partito. Ed è esattamente a partire da queste preoccupazioni che, con ogni probabilità, si svilupperanno nelle prossime settimane molte mosse e iniziative. Quelle decisive per comprendere, tra l’altro, il futuro dei rapporti tra Berlusconi e Fini.

(Pubblicato sul Riformista del 31 marzo 2010)

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