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La crisi del comunismo sui giornali mondiali all'indomani del crollo del muro

Come un terremoto

E Renzo Foa scrisse: "Siamo tutti berlinesi"

di Andrea Possieri

A sfogliare oggi i giornali del novembre 1989 sembra quasi di annusare e inghiottire il pulviscolo di quel cemento armato rinforzato che, a poco a poco, scendeva giù come strame da quel muro di "quinta generazione", terribile e svillaneggiato, che divideva in due la città di Berlino e che veniva picconato con una forza liberatoria dai primi vagiti di libertà.
Le cronache dell'epoca ci restituiscono un clima di festa liberatorio e improvviso, spontaneo quanto contagioso. E al tempo stesso, quelle medesime cronache, ci riconsegnano sentimenti opposti di paura e di speranza, di dubbi e di timori.

Zbigniew Brzezinsky, sul "Washington Post" del 12 novembre, fu tra i pochi osservatori che, da subito, avvertì lucidamente che la caduta del muro di Berlino significava non tanto e, non solo, la fine dell'ordine di Yalta ma anche il collasso della leadership sovietica - "ho avuto la precisa sensazione di una leadership travolta dalle difficoltà e da una diffusa atmosfera di stanchezza" - e, soprattutto, preludeva al crollo imminente dell'Unione sovietica. "Sotto il profilo socio-economico - scriveva il politologo statunitense, già consigliere per la sicurezza nazionale della Casa Bianca - l'Unione sovietica dà soprattutto l'impressione di un Paese del terzo mondo in piena stagnazione".

Lo storico Michail Heller, invece, intervistato lo stesso 12 novembre, fornì un'interpretazione del tutto opposta: "Aspettiamo prima di dire che il comunismo è morto e che tutto è finito. A mio avviso, debbono passare ancora decenni e forse più. Il comunismo si trasforma, come una bestia che cambia pelle". E al giornalista che gli chiedeva se esisteva concretamente la possibilità di una riunificazione delle due Germanie, la risposta era categorica: "Da escludere. Nessuno lo vuole. Soprattutto la Germania Federale. E tantomeno Mosca".

Opinioni opposte, analisi che si sovrappongono alle emozioni, timori consolidati che si combinano con gli umori e le previsioni sul futuro.
D'altronde, lo storico e intellettuale d'origine ungherese Francois Fejto, in un intervento su "il Giornale" del 14 novembre, ricordava che, soltanto pochi mesi prima della caduta del muro, nelle elezioni locali che si erano svolte nella Ddr nel maggio 1989, la lista unica del Fronte nazionale aveva dichiarato di aver ottenuto qualcosa come il 98,95 per cento dei voti. Che sempre nel maggio dello stesso anno, inoltre, il quarantaquattresimo anniversario della fine della seconda guerra mondiale era stato celebrato con il solito fasto e che, infine, secondo alcuni illustri analisti, la Ddr era addirittura la quinta potenza industriale d'Europa. Insomma, i segnali che provenivano da quel mondo erano del tutto contrastanti e il collasso sistemico immediato e sostanzialmente pacifico dei regimi comunisti dell'Europa dell'est non era così scontato come potrebbe apparire oggi.

I più importanti commentatori dei quotidiani italiani dell'epoca si soffermarono sul carattere epocale degli avvenimenti - Ugo Stille sul "Corriere della sera" parlò del 1989 come di un annus mirabilis - e sul carattere totalitario dei regimi comunisti - Indro Montanelli su "il Giornale" sostenne che il muro non era "una aberrazione del comunismo ma una sua conseguente applicazione" - oppure fornirono un'interpretazione tutta italocentrica, come fece, ad esempio, Eugenio Scalfari, su "la Repubblica" che commentando la "liquefazione dell'impero dell'est" non fece mancare una stoccata feroce "ai Gava", agli "Andreotti" e ai "Forlani". Mentre "un'ondata di piena" stava "dilagando" ovunque, scrisse Scalfari, affascinando e ipnotizzando le classi dirigenti di tutto il mondo, in Italia, invece, una "classe politica che amministra un grande Paese come si amministrava lo Stato pontificio ai tempi di Gregorio e di Gioacchino Belli" nasconde "la testa come gli struzzi" e si contende "la spartizione delle spoglie" intrigando come se "nulla stesse accadendo sulla Rai o sul Banco di San Paolo".

Paradossalmente, uno dei commenti a caldo più interessanti di quei giorni fu elaborato dall'allora direttore de "l'Unità", Renzo Foa. Tra i grandi quotidiani italiani, fu l'unico intervento che parafrasò il grido accorato di John Fitzgerald Kennedy all'indomani della costruzione del muro: "Siamo tutti berlinesi". Ma non solo. Foa parlò esplicitamente del "crollo dei sistemi statali totalitari" - non proprio un'ovvietà un'affermazione del genere sul quotidiano di quello che era ancora, a tutti gli effetti, il più grande partito comunista d'Occidente - e scrisse senza ritrosia che quello che stava succedendo in Europa orientale "è l'onda d'urto straordinaria di nuove rivoluzioni democratiche" che hanno l'epicentro a est ma che scuotono l'intera Europa e "pongono problemi immensi a tutta la sinistra".
Parole che rilette oggi suonano come autentiche bombe. Nei giorni successivi ben altri commenti campeggiarono sul giornale del Pci. Dando vita a una rilettura degli avvenimenti che faceva della rimozione e della riscrittura della propria storia due facce della stessa medaglia.

Del resto, il rapporto tra la storia e la memoria del comunismo, tra la narrazione degli eventi e il mito palingenetico di un "altro mondo possibile" è una questione decisiva e non certo di second'ordine. Il racconto di cosa è stato il comunismo, nelle sue innumerevoli varianti e sfaccettature, è una narrazione ben lontana dall'essere, non solo condivisa, ma per lo meno conosciuta nelle sue dinamiche essenziali.
Da un lato, infatti, si staglia il racconto della più grande opera di ingegneria sociale che sia mai stata compiuta nella storia dell'umanità, laddove il comunismo è diventato regime. Una storia carica di angoscia e anomia, campi di lavori forzati e devastazione sociale, terrore di Stato e delazioni familiari. Una storia raccontata attraverso i fogli clandestini, i romanzi, le memorie e, da ultimo, le prime analisi scientifiche con i primi studi di archivio. Studi, ancora ben lontani dall'essere conclusi, le cui fredde cifre di morte e di fallimenti economici, di politica estera camuffata di buoni sentimenti - emblematico il caso del pacifismo stalinista - richiamano alla mente nomi e luoghi ancora ben lontani dall'essere diventati senso comune in Occidente: Solgenitsin e Florenskij, Kolyma e Solovki.
Dall'altro lato, invece, si colloca una narrazione gloriosa, tipicamente europea, costituita da militanti eroici e martiri per la rivoluzione, gesta sublimi e primati morali che porta alla costruzione di un pantheon di padri nobili al cui interno si collocano i nomi più disparati del comunismo internazionale interpretati sempre sotto la grande lente del martirologio o di eroismo rivoluzionario: da Dolores Ibarruri a Rosa Luxembourg, da Antonio Gramsci a Che Guevara.

Due libri usciti in questo ultimo scorcio del 2009 rappresentano emblematicamente questa opposta dualità simbolico-culturale. Da un lato, si pone, infatti, il libro di Francine-Dominique Liechtenhan (Il laboratorio del Gulag. Le origini del sistema di concentramento sovietico, Lindau, Torino, 2009, pagine 320, euro 24,50) che è un'analisi impietosa, accurata e drammatica delle isole Solovki.
Dall'altro lato, invece, si colloca il libro di Luca Telese (Qualcuno era comunista, Milano, Sperling & Kupfer, 2009, pagine 756, euro 22,00) che è un racconto appassionato, vissuto, in parte, in prima persona, di quello che fu la svolta della Bolognina, la fine del Pci e la nascita del Pds e di Rifondazione comunista. I due volumi apparentemente non si toccano, eppure sono i due estremi, struggenti e tragici, di questa lunghissima linea storico-politica che tiene assieme Magnitogorsk e i comuni rossi della Bassa, i balletti russi e le feste de l'Unità, Zdanov e la scuola di partito di Frattocchie, Lenin e Angela Davies.

Cos'è che tiene insieme il comunismo nella sua versione brutale del gulag sovietico e quello appassionato, se si vuole perfino eroico, dei militanti comunisti d'Occidente? Al di là dei rapporti politici, esiste un filo comune ineludibile, più profondo dei rapporti diplomatici, che tiene unite tutte queste esperienze, tragiche e utopiche, diversissime e lontanissime. È uno stesso anelito verso un ideale e un'ideologia di trasformazione, violenta e totale della società; è la medesima concezione dell'uomo inteso come materiale malleabile, in qualche modo deformabile e modificabile; e, infine, è la medesima fede, perché di fede si tratta, nei confronti di un verbo rivoluzionario che faceva della concezione immanente della storia il proprio credo. Una concezione stadiologica e soteriologica, progressiva e positivista, materialista e, al tempo stesso, religiosa. E proprio perché religiosa potenzialmente pericolosissima. Una concezione chiesastica e organicistica del "partito" e della politica che, in ultima istanza, trasforma il comunismo in una dimensione, come è stato scritto, di "para-religione laica" il cui dio, signore e sovrano, è sempre l'uomo che rende perfetto, per decreto, il suo governo e il proprio Paese.

Come intuì efficacemente François Furet, "l'illusione comunista" aveva fatto "della storia il suo pane quotidiano, in modo da integrare di continuo nel suo credo tutto quello che accade[va]" e pertanto, si era trasformato in una religione politica con i suoi riti, i suoi dogmi, i suoi luoghi della memoria. Come aveva scritto l'intellettuale francese, era diventata "un credo nella salvezza attraverso la storia" che avrebbe ceduto "soltanto di fronte a una smentita radicale della storia, che privasse di ragion d'essere quel lavoro di ricamo a essa così congeniale". Quella clamorosa smentita della storia arrivò, in parte improvvisa e a tratti attesa, il 9 novembre del 1989 e segnò il redde rationem definitivo del comunismo.

(da L'Osservatore Romano - 9-10 novembre 2009)

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