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Bilanci e prospettive dopo il vertice dell'Aquila
Perché il g8 non può morire

di Luca M. Possati

Risoluzioni generiche e di scarso impatto; più strette di mano e cene di gala che accordi veri su problemi concreti. La stampa di mezzo mondo ne è sicura:  il g8 è ormai una formula obsoleta, completamente inadeguata a rappresentare un indirizzo nel Governo del mondo. Perfino l'autorevole "The New York Times" si è divertito a ironizzare sulla geometria variabile del summit all'Aquila:  "Dopo l'improvvisa partenza del presidente cinese, Hu Jintao, si sarebbe potuto chiamarlo g8 + 5 + 1 + 5 - 1".

Pochi, invece, hanno avallato un'interpretazione diversa e più realista. Che il formato di un vertice conta eccome e che il g8 in realtà non può morire, perché al momento non ci sono alternative.

I risultati, anzitutto. Nel pieno della crisi economica, il summit dell'Aquila non poteva non avere quale interesse prioritario quello di dare solide indicazioni sulla finanza globale. Con un richiamo all'etica:  "Ci impegniamo ad affrontare la dimensione sociale della crisi - si legge nel documento finale - mettendo al centro la persona". A partire dal riconoscimento, per nulla scontato, che il peggio non è affatto passato - "permangono rischi significativi per la stabilità economica e finanziaria" - i leader hanno deciso di continuare a fornire stimoli macroeconomici basati sulla stabilità dei prezzi. Dalle parole usate si capisce bene che la crisi durerà ancora molto a lungo, tanto che si evoca "una strategia che affronti i nodi di lungo termine e porti l'economia globale a una crescita stabile, equilibrata e sostenibile". Per questo diventa di cruciale importanza riaprire l'accesso al credito, ricapitalizzare le istituzioni finanziarie e sostenere la lotta al riciclaggio di denaro sporco e all'evasione fiscale.

Sul clima, dopo aver deciso autonomamente di ridurre dell'80 per cento rispetto ai valori del 1990 le emissioni di gas serra entro il 2050, il g8 ha incontrato l'opposizione della Repubblica Popolare Cinese e dell'India. Queste hanno riconosciuto in linea di principio la necessità di contenere l'aumento medio del riscaldamento globale entro due gradi celsius, ma senza accettare vincoli di alcun tipo. L'accordo quindi non si è tradotto su scala mondiale e ha suscitato le polemiche del segretario generale dell'Onu, Ban Ki-moon, che si è detto insoddisfatto, e di numerosi analisti.

Progressi concreti invece sono stati raggiunti, almeno sulla carta, per quanto riguarda il commercio, con l'impegno a concludere entro il 2010 negoziati sulla liberalizzazione dei mercati, il Doha Round, e a combattere le nuove spinte protezionistiche.

Progressi anche sugli aiuti ai Paesi più poveri:  i grandi hanno lanciato un nuovo piano di sviluppo per il continente africano - circa 20 miliardi di euro in tre anni - e ribadito gli impegni siglati a Gleanagles, sulla base del Monterrey Consensus del 2002, allo scopo di massimizzare l'impatto di investimenti, commercio, riduzione del debito, microcredito, rimesse e risorse interne.

Nato negli anni Settanta come g5 (Gran Bretagna, Francia, Germania, Giappone, Stati Uniti), il club si è ampliato prima con l'ingresso dell'Italia e poi con quello del Canada. Dal 1977 partecipa anche la Comunità europea. L'idea originaria non era economica, ma squisitamente politica:  la governance mondiale, cioè il tentativo di creare un luogo di incontro e di dialogo tra i leader dei Paesi più potenti del mondo per verificare ogni anno la politica interna e internazionale nella ricerca di strategie comuni per fronteggiare gli stessi problemi.
Oggi gli otto rappresentano solo il cinquanta per cento del pil mondiale e nemmeno il tredici per cento della popolazione. Non sono le economie trainanti, anzi. Sono quelle che stanno subendo di più gli effetti della grande crisi.
Resta però il fatto, riconosciuto da parecchi analisti, che un allargamento - e una cancellazione - del progetto originario rischierebbe, almeno nell'attuale situazione, di produrre un g14-g29 a doppia, tripla o quadrupla velocità. Dopo i g20 di Washington e di Londra c'è un accordo generale sul fatto che la governance globale non può lasciar fuori i Paesi emergenti, il cosiddetto Bric (Brasile, Russia, India e Repubblica Popolare Cinese). Ciò nonostante, come insegna la storia delle relazioni internazionali, più aumenta il numero di coloro che si siedono al tavolo delle decisioni, più diminuisce la possibilità di raggiungere intese comuni. I fatti parlano chiaro.

Sull'andamento delle discussioni all'Aquila non ha potuto non pesare l'assenza del premier cinese Hu Jintao, rientrato in patria anticipatamente a causa delle proteste nello Xingjang, la più vasta regione del Paese. È stata la prima volta nella storia recente della Repubblica Popolare Cinese che un presidente ha abbandonato un appuntamento ufficiale per rientrare in patria, senza nemmeno designare un secondo al quale affidare le proprie mansioni, come già avvenuto durante crisi passate. Tuttavia, l'assenza di Hu Jintao ha fatto sì che alcune delle questioni centrali su cui il summit era chiamato a deliberare non siano state nemmeno sfiorate, o quantomeno solo accennate, nel comunicato finale.
È il caso del nuovo equilibrio monetario, tema inevitabile se si vogliono riscrivere le regole della finanza globale. Da tempo Pechino, insieme ad altre economie emergenti, chiede la fine del primato del dollaro quale unica moneta di riferimento internazionale È poi il caso della situazione in Afghanistan e in Pakistan:  per la stabilizzazione dell'area la partecipazione del Dragone è considerata indispensabile da tutte le parti coinvolte.
È il caso, infine, del dossier nordcoreano:  ad avviso di molti analisti, Pechino è l'unico attore internazionale che può fare realmente da ponte diplomatico verso il regime di Pyongyang.

(da L'Osservatore Romano - 12 luglio 2009)

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