di Andrea Talia
Ci siamo occupati in due precedenti articoli, rispettivamente, di "Cultura e politica" e degli "Intellettuali".
L'una e gli altri hanno bisogno di un propellente per funzionare: le idee. Chiudiamo, allora, il cerchio: le tematiche sono infatti interconnesse. Occupiamoci, quindi, delle idee, intese come prodotto della nostra
capacità elaborativa, intellettiva, conoscitiva.
Chiediamoci preliminarmente: siamo in possesso di un catalogo culturale condiviso tale da rispondere
positivamente ai problemi e agli interrogativi della post-modernità?
A quali idee, da priorizzare, conviene educare le nuove generazioni?
Le idee debbono avere una valenza più
teorica, o più pragmatica?
Le idee rischiano o no di essere residuali, stante la priorità della scienza e del
principio di causalità?
Ed ancora: la velocità del cambiamento, può appesantire la lentezza del nostro
"cogitare"?
Le idee, una volta partorite ed elaborate, per vivere e concretizzarsi, debbono necessariamente calarsi nella
realtà che hanno di fronte. Le idee, solitamente, infatti, ove eccezionalmente non siano miopi (passato) o
strabiche (futuro), rivestono il carattere dell'attualità.
Ci sembra, quindi, doveroso esporre alcune caratteristiche-almeno quelle più vicine al tema che trattiamo-
della odierna società. Sotto tre versanti: sociologico, antropologico, economico.
Una premessa: le nostre sommarie considerazioni rivestono carattere provvisorio. Siamo convinti che la fine della profonda e globale crisi in atto, cambierà, parametri di riferimento, geometrie variabili, scala dei valori. Quindi modi di pensare. Con l'ottimismo della volontà, ci auguriamo in meglio.
Il "secolo breve" (Hobsbawm, 1994) è stato contrassegnato dalle ideologie laiche, a valenza totalitaria.
Socialismo e nazionalismo, "idee assassine" (Conquest, 1999), i cui idoli erano astrazioni oppure uomini
politici venerati come divinità.
Più specificatamente le ideologie possono essere considerate come: "insiemi di idee, di valori, riguardanti
l'ordine politico e aventi la funzione di guidare i comportamenti politici collettivi" (Bobbio). La loro forza
risiedeva nella promessa di fornire soluzioni durature ai problemi di un mondo in crisi.
Peraltro, le ideologie, si fondano su di un nesso molto stretto tra una falsa rappresentazione della realtà,
intrisa da dogmatismo, dottrinarismo, estremismo, ed una loro funzione, fortemente sociale e passionale.
Venuto meno il mondo di riferimento le stesse sono cominciate a declinare. A principiare dagli anni '50:
rimando, tra gli altri, agli studi pioneristici di Aron e Coletti.
Oggi: ne registriamo la "fine". Sono ormai in soffitta gli aspri contrasti ideologici di un tempo, con
l'irrompere di alcune variabili virtuose. Accettazione ormai diffusa del welfare; organizzazione decentrata
del "potere"; economia mista; pluralismo economico.
Le ideologie rimangono ancora come una sorta di relitto storico, in una certa cultura e in una pratica politica,
in qualche gruppuscolo della sinistra radicale, che ancora non si è accorta che il mondo, con i suoi valori di
riferimento, è profondamente cambiato.
Le ideologie, pur con la loro dipartita, segnalano peraltro alcune irrisolte criticità: la permanenza dei problemi legati ad una più equa e controllata ripartizione della ricchezza nel mondo; la necessità di un certo grado di utopia, intesa come "il non arrendersi alle cose come sono e lottare per le cose come dovrebbero essere"; l'imparare a vivere senza cartelli indicatori e metri di valutazione tassativi.
La fine delle ideologie postulerebbe, per risarcirne in un certo qual modo la scomparsa, un di più in termini
sia di etica pubblica, che privata.
Assistiamo invece a uno scadimento anche di un tassello fondamentale delle stesse: i valori.
In primis: in termini di minima moralia intesi come vivere onestamente, attribuire a ciascuno il suo
considerare il prossimo come fine e non come mezzo.
Il paese non riesce a diventare moderno: manca di "tradizione morale razionale" cioè della capacità di
guardare, con occhi oggettivi, quanto vi è di più soggettivo nel mondo. Quindi: "noi stessi ed il corteo dei
nostri desideri, delle nostre menzogne, delle nostre speranze" (Alberoni, 1988).
Con lo scadimento dei valori "forti", lo spirito della nazione vacilla. Impiombato dalle governance soprannazionali e (a livello domestico) da un federalismo che affievolisce il senso unitario della Repubblica.
Venuta meno l'identità della nazione e i valori come le due facce di una stessa medaglia, interi lessici
familiari e miti fondativi sono caduti in disuso. Il Risorgimento, la Resistenza, le grandi rappresentazioni
storiche e simboliche della Patria.
Lo smarrimento del bene comune porta, infine, ad un'enfasi libertaria di tutti i diritti. Ogni minimo desiderio
si commuta nella rivendicazione di un diritto. Si dimentica così la lezione di Mazzini e di Simon Weil:
l'uomo ha prima di tutto dei doveri.
Una società equilibrata per noi è quella che non demonizzi lo Stato e la dimensione pubblica; - non escluda Dio: la tradizione religiosa può compensare il vuoto dei valori-; si muova tra l'"io"e il "noi", tra la libertà e le regole, tra i diritti e i doveri; - sappia declinare la prima persona sia al singolare che al plurale-.
Le società in cui viviamo sono sempre più caratterizzate da apatia politica, sociale, umana; declino
dell'uomo pubblico; paura dell'abbandono.
In senso più generale, nella sanità, nella scuola, nella pubblica amministrazione, nei servizi, nel cinema e
nella televisione, il ruolo dello Stato è sempre più messo in discussione. Cambiano le abitudini della gente, le
scelte su come investire i propri risparmi oppure su dove mandare i figli a scuola e dove curarsi.
Varietà non uniformità.
Individualità non collettività.
Una grande trasformazione politica economica sociale; un mutamento profondo della cultura e della
psicologia di ogni individuo. Siamo, in buona sostanza, in una società "individualizzata" (Bauman, 2001).
Ivi, predominano: il particolare, l'egoismo, il disinteresse. Non c'è nessuna "buona ragione" per cui
dovremmo essere i custodi di nostro fratello, avere cura di lui, essere morali.
In una società orientata all'utile, i poveri e gli inattivi, privi di scopo e di funzione, non possono contare su
prove razionali del loro diritto alla felicità. Sono relegati ai margini.
Ammoniva Tocquiville: l'individuo è il peggior nemico del cittadino; l'individuo tende ad essere tiepido,
scettico, diffidente del bene comune. Il cittadino , invece, ha il senso della cittadinanza della comunità (cum
munus: donare insieme), della società civile.
Il tempo non sembra aver cancellato l'attualità di queste
considerazioni!
L'odierna società è altresì contrassegnata dal rischio (Beck, 2002). Il disastro di Cernobyl, gli
sconvolgimenti climatici, la minaccia del terrorismo, le crisi finanziarie – sostiene Beck- ci hanno insegnato
una cosa. A essere globali oltre ai consumi e alle economie sono anche i pericoli.
Diventa così necessario ripensare l'idea di una politica, il modo di intendere la sovranità degli stati, il
concetto stesso di globalizzazione (ci ritorneremo). La globalizzazione adduce diversi effetti, positivi e
negativi, sotto il profilo economico, del mercato del lavoro (dei profitti, dei salari quindi), dell'e quità
sociale, dello Stato nazione.
Gli uomini da parte loro, sono sempre tentati di dividere l'umanità in "noi e loro", "l'uguale" e il "diverso", la propria "civiltà" e l'altrui "barbarie". Si innescano una serie inedite di sfide, sia nazionali che planetarie, che ove non risolte, potrebbero portare a quegli "scontri di civiltà" intesi da uno studioso americano (Huntington, 2000) come "la più grave minaccia sulla pace mondiale".
Ovviamente a livello Italia, dobbiamo fare la nostra parte. Abbandonando la "cultura del '68" e di riflesso "la
democrazia del '68"; privilegiando in una visione unificante individui ma anche lo stato, le famiglie ma
anche la comunità; incentivando lo spirito pubblico, la pubblica partecipazione, la responsabilità della
propria appartenenza comunitaria. Abbiamo bisogno di un cittadino e di una classe dirigente responsabile e
all'altezza del momento che viviamo.
Credere nell'Italia, puntare sugli italiani: ecco allora l'unica medicina possibile per produrre
un'accelerazione della nostra storia. Non come artificio propagandistico per sedurre l'elettorato da una tv o
da un pullman. Studiando invece gli strumenti istituzionali, varando le riforme organiche,(da tempo nel
cassetto) per modernizzarci e rendere il popolo corresponsabile attivo di ogni rilevante passaggio della vita
nazionale.
Che cosa sta succedendo all'economia dei grandi paesi industrializzati?
Lasciato da tempo alle spalle il sistema comunista, l'Europa, gli Stati Uniti, il Giappone e (in misura
minore) la Cina sono entrati in una crisi strutturale e di lunga lena per essere risolta. Una crisi che
investe consolidate certezze e insinua dubbi sulle capacità di ritrovare (almeno nel breve) quelle
potenzialità che fin'ora avevano infuso slancio e aspettative di sempre risorgenti belles èpoques.
Il capitalismo globale e poderoso del nostro tempo, il "turbo capitalismo" (Luttwak) incontra ora
impasse che ne pongono in forza l'esistenza.
Versiamo in un ciclo fortemente recessivo.
Espansione monetaria eccessiva, speculazione finanziaria dei sub-prime, inadeguatezza
dell'autorità di vigilanza, connivenza tra politica e finanza: i detonatori della crisi.
A queste diseconomie di tipo (in certo qual modo) micro se ne aggiunge un'altra di tipo macro: la
globalizzazione. La stessa, pur tanto celebrata, ha "un lato oscuro: disoccupazione, bassi salari, crisi
finanziarie, rischi ambientali, pericolose tensioni internazionali" (Tremonti, 2008).
Come se ne esce? Non certamente attraverso forme neo-keynesiane di stimolo della domanda: spesa pubblica in deficit e lievitazione dei salari. Neppure attraverso linee economiche neo- protezionistiche. I prodotti di nicchia di ogni paese rischierebbero, così, di rimanere dei bonsai: troppo grandi per i mercati nazionali ove soffocano la concorrenza. Troppo piccoli per quello globale ove soccombono. Ed allora: è giusto affrontare gli effetti immediati della crisi, attraverso iniziative di liquidità da parte della mano pubblica. Peraltro per meri scopi contingenti e di breve respiro.
Ma se ne vogliamo uscire definitivamente e ripristinare un nuovo ciclo virtuoso, abbiamo bisogno di
riscoprire ed aggiornare i fondamenti dell'economia di mercato. Quindi più concorrenza, più
controlli al di sopra delle parti, più ammortizzatori sociali (Alesina, Giavazzi,2008). Rifondando
altresì la politica europea con alcune parole d'ordine: valori, famiglia, identità, autorità; ordine,
responsabilità, federalismo. È il "credo" di Tremonti, al quale ci associamo.
Quindi non basta il Pil; serve il demos e l'ethos.
Esiste infatti un forte legame tra fede religiosa e spirito del capitalismo (Weber). Dobbiamo riannodarlo. Un sistema fondato sulla dissipazione e sulla ingiustizia ha il futuro contato. Al mercato, occorre dire:"fin qui andrai, non oltre" (Wicsteed).
Conclusivamente la formula "economia sociale di mercato", patrocinata da Amartya Senn, può risultare vincente.
Dopo un'ampia circumnavigazione intorno alla realtà che ci circonda, ritorniamo all'oggetto
specifico del nostro tema: le idee.
Le stesse non servono più, in politica e nella società, nella cultura e nella comunicazione. Stiamo
assistendo, forse senza accorgercene, ad un crepuscolo analogo a quello che accompagnò la fine del
mondo antico "il tramonto delle idee". Le idee tramontano, come accadde agli dei; icone e feticci
prima, marginalizzate e devitalizzate, dopo.
Al posto delle idee trionfa il puro vitalismo, il dominio assoluto del mercato, la seduzione della
pubblicità o delle altre forme di retorica del nostro tempo. Riaffiorano poi, di tanto in tanto, i vecchi
residui tossici dell'ideologia.
È la disfatta di Platone, la rinuncia ad ogni trascendenza, a scelte personali e collettive. Le idee, nella
migliore delle ipotesi, sono inutili, nella peggiore sono nocive.
Ciò in quanto ledono la nostra libertà; frenano il nostro movimento; ci impediscono di vivere
appieno l'istante. Niente di nuovo all'orizzonte.
Le uniche idee ancora "centrali" nell'occidente appaiono essere i diritti dell'uomo, per altro come
atto imperativo, e il liberismo quale manifestazione privilegiante l'ordine spontaneo, la deregulation,
il primato del mercato e della sua globalità. Liberismo per altro largamente annacquato, in questi
ultimi tempi, come già detto, da un brusco ritorno allo statalismo e finanche al protezionismo.
È caduta in disuso l'espressione un tempo abusata di "morire per l'Idea", segno simbolico di
un'epoca venata di romanticismo eroico e militante.
Sosteneva Ezra Pound – citato da Veneziani, 2003- "Se un uomo non è disposto a correre qualche
rischio per le proprie idee, o non valgono nulla le sue idee, o non vale nulla lui".
Politicamente, poi, la destra sembra essere indifferente alle idee, disprezza il lavoro del pensiero, è
per il "fare", per l'azione, il movimentismo, il puro vitalismo.
La sinistra, da parte sua, subordina le idee ai bisogni e ai rapporti economici, ad una visione
moralistica e penitenziale che mortifica il pensiero, celebrando il primato dell'azione correttiva.
Dopo il Novecento, dopo il comunismo, è difficile nutrire idee, passioni civili, istanze di giustizia
sociale, attese messianiche di cambiamenti.
Su opposto versante : la caduta del fascismo ha avvelenato i pozzi profondi dell'amor patrio e i suoi
valori di riferimento; il bisogno di autorità e l'esigenza di gerarchia. Al contempo, è venuta meno
l'importanza delle strutture di socializzazione: Stato, famiglia, Chiesa. I giovani poi appaiono
disinteressati, apatici, senza radici. C'è un profondo gap tra il mondo giovanile e adulto.
Per ovviare ad una sorta di nichilismo strisciante, il comunismo, allora, si rifugia nella dimensione dell'etica. A decretare la superiorità etica del militante sul suo avversario non è l'esito storico delle idee professate. Ma il loro significato teorico a priori. La proiezione nella prassi del "dover essere" filosofico. Vengono così conculcati i principi elementari fondanti la politica democratica. Il riconoscimento quindi delle pari opportunità e della pari dignità degli avversari; la subordinazione di tutti ad un perimetro di regole condivise e super partes; l'autonomia di ciascun soggetto rispetto al suo antagonista; la riversibilità del giudizio; la reciprocità del riconoscimento.
Quale eredità lascia la tirannia delle idee alla sinistra d'oggi? Un moralismo ideologico (astratto) che
prevale sul realismo efficace (concreto). "Il mito della cornice" (Popper).
In secondo luogo un eccesso di idee, le due Italie, un "catastrofismo" di maniera, un cocktail di
illuminismo, atteggiamento pedagogico e snobbismo. Un'Italia che rimane culturalmente sempre la
stessa.
In terzo luogo, come già detto, la demonizzazione dell'avversario. Non più espressione di una scelta
anti fascista ma refrattarietà all'universo berlusconiano, visto come l'incarnazione dei peggiori vizi
del nostro paese. Lamentandosi altresì del popolo che non è all'altezza della grandezza della sinistra.
E vorrebbe, come diceva ironico Bertold Brecht "sciogliere il popolo che non capisce".
In quarto luogo, la tirannia dell'ideologia sulla realtà. I fatti come irrilevanti rispetto alla realtà.
Infine il rovesciamento delle regole. La colpa di chi ha commesso violenza non è solo sua, ma della
società intera e dei suoi rapporti di potere; la colpa di chi ha subito la violenza, riguarda invece il suo
egoismo che l'ha propiziata.
L'elevazione a mercato a paradigma fondamentale per la società produce e legittima il sorgere di una
società senza cultura, che utilizza altresì una lingua sempre più scarna e sboccata.
I due antichi poteri, religioso e militare, sono ereditati rispettivamente dal potere del denaro e della
tecnica. Il mercato e la tecnica ritengono oziosi, privi di senso, fuori dal reale, ciò di cui si occupano
le idee.
La società opulenta, mercantile, tecnocratica, è fondata sul vuoto. Sull'assenza di riferimenti che
trascendano l'orizzonte immediato e quotidiano.
Per altro una società che rinuncia alle idee, è inevitabilmente volgare. Non ha il senso del bello, non
ha trascendenza. Le idee infatti, non sono automaticamente convertibili in denaro e risolvibili in
azioni. Sono il segno di una civiltà.
Ed ancora: se "le idee dominanti sono sempre le idee della classe dominante" (Marx) allora le idee
sono variabili dipendenti e secondarie del dominio fondato sul capitale. Di conseguenza, non le idee
conquistano il potere, ma il potere dispone delle idee e le muta a suo piacimento.
Andrea Talia
Lucca, 2 marzo 2009