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GLI INTELLETTUALI E IL POTERE
(i guardiani distratti)

Di Andrea Talia

Premessa

Una prima accezione del sostantivo “intellettuale” riveste carattere oggettivo. Designa una particolare categoria, emergente per istruzione e competenza specifiche superiori alla media.
Il termine “categoria” segnala, di per sé, una classe chiusa, autoreferenziale, abitata da monopolisti delle idee. Al contempo, una disfunzione dell’organismo sociale, propria delle società, come le nostre, in cui le varie parti, lungi dall’ordinarsi ad un fine, si disarticolano. Mondi non a incastro.
Una seconda accezione, a valenza soggettiva, identifica gli intellettuali negli scrittori “impegnati”. E, per estensione, negli artisti, negli studiosi, negli scienziati. In genere, in chi abbia acquisito, con l’esercizio della cultura, un’autorevolezza e un sicuro punto di riferimento.
Sotto questo aspetto, emergono storie di individui, portatori di idee e di ideologie, che tessono il filo della loro singola esistenza. Problematica, talvolta movimentata, al limite rivoluzionaria.

Uno sguardo retrospettivo

Nessun dubbio che la “carriera” degli intellettuali, storicizzata, appaia contraddittoria. Un po’ dalla parte della vita, un po’ dalla parte del proprio mestiere. L’intellettuale perciò non è uno che si rende difficile la vita, ma anche uno che rende difficile la vita agli altri. La sua presenza- se ben intesa- segnala l’esistenza di una smagliatura nel processo di omologazione.
A proposito, poi, di “carriera”: in Italia c’è un momento stregato in cui si passa dalla categoria di “bella promessa” a quella di “ solito stronzo”. Soltanto a pochi fortunati l’età concede di accedere alla dignità di “venerato maestro” (Berselli, Venerati maestri, 2007).

Gli intellettuali assumono un loro ruolo con l’illuminismo e con l’incipiente società industriale. Il riferimento è a D’Alambert, uno dei promotori dell’Enciclopedia, autore di un Essai sur les gens de lettres (1753).
Il livello si irrobustisce e si amplia con i moti rivoluzionari dell’ottocento. In Russia, ad esempio, l’intellighenzia diviene una grande cattedra morale. Prebende e notorietà , ma anche angosciosi dilemmi e tragiche esistenze per questa nuova èlite.

Nel 1898 la parola “ intellettuale” entra ufficialmente nella storia. Viene pubblicato dal quotidiano parigino Aurore il Manifeste des intellectuales. I firmatari ( in primis, Zola e Proust), si mobilitano a favore di Dreyfus, capitano dell’esercito francese, ebreo, accusato di spionaggio.
Gradualmente, l’intellettuale snatura la sua funzione. Non più disprezzo, ma ammirazione per il potere.
Viene lanciato un grido di allarme. Burche, 1790, mette in guardia la borghesia al potere in Inghilterra sui rischi della commutazione degli uomini di lettere in politici; Tocquiville, 1856, invita gli intellettuali a tornare alle loro origini, lasciando la politica alla classe di governo; Weber, in una logica diversa, sostiene che compito dell’intellettuale è oscillare tra comprensione e autonomia di giudizio.

E siamo nel 1927.
Un moralista francese, J. Benda, in un pamplet destinato a diventare presto celebre ( Il tradimento dei chierici, ristampato da Einaudi nel 1958), denuncia il pericolo della rinuncia che gli intellettuali venivano compiendo alla loro missione di custodi- promotori dei valori spirituali-. E ciò in funzione ancillare della politica nazionalista.
L’importanza della posizione di Benda, prima che dottrinale, è politica. Rende possibile, nell’ottica di una denuncia culturale e civile contro il nazionalismo, l’incontro tra il punto di vista liberale e quello marxista.

Negli anni del fronte popolare e nella guerra di Spagna, la parola “intellettuali” acquista un significato univoco e aggregante. Gli intellettuali, accanto agli operai e ai contadini, divengono una delle categorie, rappresentante la piccola borghesia rivoluzionaria nella punta più avanzata, del fronte unito antifascista. Dando così ragione a Ortega y Gasset che già nel 1930, aveva colto la crisi della società nel divorzio tra èlite intellettuale e masse.

Camicie nere sulla cultura

Il fascismo adotta, sin dall’inizio, una linea di politica culturale, di interventismo sulla cultura di cooptazione della classe intellettuale. Nei rami bassi (popolare),peraltro quella”alta” non viene molto ostacolata. (Rimandiamo, per un’acuta analisi dei rapporti tra italiani e fascisti, al saggio di Guerri, Fascisti 1995)
La maggioranza degli intellettuali si presta, presto e volentieri, alla volontà del regime di creare una cultura funzionale all’indottrinamento delle masse. Gli esuli sono relativamente pochi. Nel 1931, milleduecento accademici si piegano all’obbedienza littoria. Solo dodici dicono di no al giuramento di fedeltà.
Va detto, per onestà intellettuale, che il fascismo promuove una cultura propria ed originale che rinviene le sue radici nella romanità. Versioni deformate, reticenti e tendenziose spiegano che il fascismo, lungi dall’aver soffocato movimenti e dottrine precedenti, li aveva “superati”, ereditandone quanto di buono e di duraturo avevano, conciliando taluni opposti in un perfetto equilibrio.
Il fascismo, insomma, rappresentava la conquista rivoluzionaria più moderna del pensiero umano, filtrata attraverso le esperienze politiche del passato, alle cui “ sopravvivenze”, la rivoluzione in atto si contrappone come il nuovo al vecchio.

Mussolini, in questa operazione, utilizza (tra l’altro) sia l’esperienza giornalistica, che attente letture su saggi di scrittori , esperti su “sociologia e dominio delle masse”. In particolare Pareto, Sorel , Le Bon (Psicologia delle Folle), Freud ( Psicologia di massa e analisi dell’io).

Non è questa la sede per ulteriori approfondimenti. Ci basti dire che “la via italiana al totalitarismo” fu molte cose. Un tempo eroico, una dittatura asfissiante, l’anti immaginazione al potere, una rivoluzione mancata, il baluardo contro il pericolo rosso. ( il rinvio obbligato è a De Felice, Le interpretazioni del fascismo, 1983).
A riprova, molti liberali inappuntabili( compresi Croce ed Einaudi) sbagliarono inizialmente sul fascismo. Perfino Gobetti vide nel Duce esordiente “ un Giolitti meno serio”.
Durante tutto il ventennio, continuò a stamparsi a Napoli La critica di Croce che, senza troppo chiasso, svolse la sua opera in una ristretta cerchia di intellettuali.

“ I profeti disarmati”

M. Serri, in due saggi, ricostruisce brillantemente la storia degli intellettuali dal 1938 al 1948.
In particolare, nel primo ( I redenti, 2005) finalizza l’attenzione storiografica sugli intellettuali (molti) che, solo dopo il 25 luglio, abbracciarono gli ideali dell’antifascismo.
La svolta fu percepita come un’ autentica esperienza di “ redenzione “, una sorta di lavacro. Da uomini che “ vissero due volte”, frutto del doloroso, quanto repentino processo di maturazione di un’Italia democratica ed antifascista.
Senza nulla togliere, ma anzi valorizzando la storia di tutti quei personaggi – da Foa ad Amendola ai fratelli Pajetta a Ginzburg e a molti altri- che testimoniano durante tutto il ventennio la possibilità di un attivo antifascismo.

Nel secondo saggio (“ I profeti disarmati, 2008 ) , la docente della Sapienza ricostruisce i contrasti accesi e virulenti tra le due sinistre: liberale e comunista .
Su un primo versante, una pattuglia di intellettuali ( i Vinti), aggregati intorno al quotidiano “ Risorgimento liberale”. Successivamente al settimanale “il Mondo”. Il prestigioso direttore dell’uno e dell’altro, Pannunzio, era coadiuvato da intellettuali del calibro di Croce, Einaudi, Rossi, Salvemini, Ferrara ed altri.

Va riconosciuta la vis attrattiva che la sinistra ebbe prima e dopo la seconda guerra mondiale nei confronti dell’intellettualità liberale italiana. Ad inaugurarla è già nel 1946 Lombardo Radice , con il suo Fascismo e Comunismo, nel quale viene esposta l’idea che il nucleo del fascismo è l’anticomunismo.

Acutamente Galli della Loggia (“ Intervista sulla destra, 1994), evidenzia una sorta di “ scambio”di legittimazione politica fra DC e PCI : ai primi il monopolio del governo; ai secondi, quello dell’opposizione”.
Alla Costituente assistiamo all’impressionante convergenza fra Togliatti ed i più autorevoli esponenti cattolici, come La Pira, Dossetti e Mortati.
Su diversa posizione, don Sturzo, che “ legge” il liberalismo come teoria del governo limitato, della difesa contro lo strapotere dello Stato sull’individuo. Don Sturzo si troverà a collaborare con i laici del “Mondo”, cioe' con i continuatori di quella tradizione liberale contro cui il partito Popolare era nato!
Don Sturzo, al pari di Gramsci, fu santificato (solo) post mortem.

L’egemonia della sinistra

Inizia così quella grande e tragica malattia dell’anima della sinistra che ancora stancamente si trascina.
In effetti , dalla fine degli anni 50, principia il “ lungo addio” che procederà , con alterne vicende, fino ad oggi. Divario crescente tra le logiche di partito e le ragioni di intellettuali come Moravia, Pasolini, Sciascia, Magris, Asor Rosa, Coletti, Cacciari ( ed altri).

Sono comunque ancora ben 5 i quotidiani programmaticamente di sinistra : l’Unità, Il Manifesto, Liberazione, il Riformismo, l’Europa. Questa malattia consiste nel convincimento di una superiorità etica delle idee delle persone di sinistra. Quindi nel credere di rappresentare “ la parte migliore del paese” con sottostante missione salvifica. Ne deriva una cristallizzazione del tempo, una mistificazione degli avvenimenti,. una storicizzazione del “ passato che non passa”. Una parte degli italiani, sempre più consistente comincia ad averne abbastanza ( Ricolfi, Perché siamo antipatici, 2005).

Un filo ideale ( e siamo nelduemila) lega ancora la sinistra, almeno quella “dura e pura”- alle teorizzazioni di Gramsci: 1)sull’uso marxiano del concetto di egemonia, come supremazia di una classe sociale;2 ) sull’intellettuale organico quale segmento interno di ogni gruppo sociale che fornisce “omogeneità e consapevolezza” della propria funzione non solo nel campo economico, ma anche in quello sociale e politico” ( Quaderno12).
Oggi non c’è più non solo una “classe generale”, ma nemmeno un “ blocco sociale di riferimento”. Anzi non c’è nemmeno una classe, ma un'osmosi tra loro di segmenti sociali in processo continuo di democratizzazione.
Sussistono dubbi, non certezze; dinamismo, non staticità; pluralismi, non monolitismi. Nessi tra azione personale e sociale, tra interessi e valori, tra comportamenti e regole.
Ed allora: se finalmente la sinistra abbandona lo specchio di “ essere la più bella del reame” e si confronta, con modestia, nella complessa e cangiante realtà quotidiana, non solo la sinistra ne guadagnerà, ma ne guadagnerà, in particolare, il panorama della moderazione, del noi, delle appartenenze, in Italia.

Gli intellettuali e la cultura di destra.

Nella repubblica antifascista, i gruppi moderati conservatori, in gran parte trovano ospitalità nella D.C; il nocciolo duro del reducismo fascista ha dato vita al MSI. Il resto viene posto ai margini del sistema, depoliticizzandosi totalmente.
Eppure la destra aveva un suo passato: sorge alla fine del 700, si diffonde tra la fine dell’800 e la prima guerra mondiale, portatrice di idee anti parlamentari e anti democratiche.
Ancora negli anni 50 e 60, dopo la grandissima adesione alla mistica fascista troviamo un pensiero, anche di destra cattolica, vivace ed aggressivo (“ Il borghese e il Quotidiano nella Carta Stampata; Longanesi, Guareschi, Evola tra gli intellettuali, ancorché diversi tra loro).
Nel filone di destra possono annoverarsi , tra gli altri, De Maistre, Burche, Pareto, Boulanger, Minghetti , Crispi , Schmitt, D’Annunzio, Evola, Prezzolini, Papini, Soffici. Poi quasi il buio totale.
Nel catalogo dell’editore Einaudi , che pure aveva accolto, tanti intellettuali di tradizione azionista, sono assenti molte personalità invise allora al PCI: da Aron all’Arendt , da Orwell a Berlin, a decine di altri.
Peraltro, da qualche tempo, assistiamo ad un rifiorire e a una rilegittimazione della cultura e della politica di destra( Veneziani, La cultura di destra, 2002). Interpreti, tra gli altri, Pera , Colletti , Melograni , Quagliariello, Vertone.
Antesignano Furet, che con il saggio, Critica della Rivoluzione francese, formula aggiornate analisi sulla società e sul potere. L’approccio immaterial-simbolico di Furet, apre nuove prospettive alla cultura di destra .
Nello specifico , le coordinate possono cogliersi in :- rinascita dell’amor patrio;- prudenza e vigilanza nei confronti degli extra comunitari;- lotta al fanatismo, quale alibi della religione, - comunità aperta senza dietrologismi e parole d’ordine; - memoria storica senza vulgate precostituite;- senso civico e religioso- revisione del mercatismo; - globalizzazione temperata.

Il tramonto degli intellettuali

Gli intellettuali attraversano una profonda crisi identitaria..Il loro ruolo, così come pensato dalla rivoluzione francese in poi, si sta esaurendo. Tra le cause: classe politica complessivamente modesta; cultura in ribasso; “ divinizzazione” della tecnica, indifferenza per le idee alte; totem della ricchezza; devozione per il mercato e audience, divario fra principi politici e valori di un’etica tollerante.
Si parla di fuga dei cervelli. Nessuno parla della fuga dal cervello e dal pensiero. Gli intellettuali, dopo aver tentato vie alternative (politica , giornalismo culturale, Tv), sono costretti a vivere, in larga parte, negli anfratti dei media, negli intervalli della politica e dell’economia, tra le pieghe degli eventi spettacolari. Si sono salvati i narratori, i romanzieri, più lontani dalla produzione ideologica e dalla contaminazione della storia delle utopie collettive .
Si ricorda allora sul filo della memoria,” Il bel tempo antico” in cui l’intellettuale era definito come ”il custode dei valori universali” ; “la coscienza critica”; “il viaggiatore che attraversa il tempo per conoscere meglio le cose”. E opinion leaders che hanno lasciato, con la loro azione ed il loro pensiero, tracce significative.

Per rimanere nel filone risorgimentale, azionista e dei” profeti disarmati”: Mazzini ( impegnato educatore), Salvemini ( “la storia è fatta di minoranze coscienti che trascinano alla battaglia le moltitudini mute”), Croce ( “ La funzione degli uomini di cultura è di porsi come coscienza morale), Gramsci ( stigmatizza la rinuncia degli intellettuali alla loro missione), Bobbio (“ compito degli uomini di cultura è quello di seminare dubbi, non raccogliere certezze”), Spadolini ( “ c’è un’ Italia della ragione cui gli uomini di cultura debbono restare fedeli”)

Intellettuali addio?

L’indagine sulla crisi degli intellettuali ruota intorno a due campi di ricerca.

A) Il primo, attese le responsabilità morali degli intellettuali per la diffusione ( in specie, ventesimo secolo), delle ideologie totalitarie,sostiene la necessità di un ripensamento del ruolo degli stessi. In questa ottica, Popper, considerato l’atteggiamento cinico ed opportunista sul”prima” e “dopo” la caduta del nazismo, invita gli intellettuali a non posare a profeti onniscienti, ma a cambiare noi stessi”.
Pier Luigi Battista, in un suo saggio ( Cancellare le tracce, 2007), prendendo lo spunto della tardiva confessione dello scrittore premio nobel Grass (“Tamburo di Latta”) evidenzia varie biografie di intellettuali, variamente “ritoccate”, per nascondere l’originaria adesione al fascismo e al nazismo. Cita, tra gli altri, Bontempelli, Vittorini, Piovene, Moravia. Incalza Battista, se gli intellettuali organici potevano servire negli anni in cui i partiti erano fortemente ideologici e aspiravano a costruire uno Stato etico, oggi, in una democrazia delle alternanze dove le ideologie stanno agonizzando, a che cosa servono?
Bocca, su altro versante, rincara la tesi ( E’ la stampa, bellezza, 2008): il giornalismo di idee e di informazione come lo intese il secolo borghese è una specie in via di estinzione, se non già estinta.

B) il secondo campo di ricerca, enfatizza le modificazioni economiche e civili che mettono in crisi la catena tradizionale del sapere, fondata sulla” funzione sociale” degli intellettuali.
Per il sociologo americano Lasch (Ribellione delle èlite, 1994), irrompono oggi nuovi ceti emergenti: “agenti di borsa, banchieri, ingegneri, consulenti di tutti i tipi, analisti dei sistemi, scienziati, medici, pubblicisti, editori, dirigenti pubblicitari, produttori e registi televisivi, direttori artistici, cineasti, giornalisti, artisti, scrittori”.

Personalmente, non condivido l’equazione:” i chierici hanno tradito, la società è ormai pluralista. Ergo gli intellettuali sono ormai da riporre nella soffitta della storia”.
Indubbiamente lo scenario della società post- industriale è cambiato. Su un piano letterario, il saggio tramonta perché tramontano le idee e la passione per le idee.
Ci sono i gusci vuoti della logica e della metafisica, ma anche del fascismo e del comunismo, della destra e della sinistra, del cattolicesimo e perfino del liberalismo ( anche se a prima vista non si direbbe).
Viviamo in un’epoca volatile e sibillina che si cura più delle foglie che degli alberi.
Pur tuttavia, il ruolo dell’intellettuale, nella società del suo tempo non è finita. In una situazione culturale e politica, dove( come già rilevato) crescono e si moltiplicano le tendenze razionalizzanti, scientifiche e programmate, a chi toccherà mantenere viva la coscienza problematica, gli interrogativi scomodi, le domande che il potere del giorno troverà impertinenti?
L’impegno peraltro postula alcune condizioni:
- non ci si trinceri più dietro etichette vaghe e saccenti. Ma l’intellettuale si esprima e si definisca per quello che realmente è: scrittore o artista; studioso o filosofo; giornalista o docente.
- si legittimi con le sue opere non con la sua collocazione;
- si cimenti con le idee senza invocare tessere di appartenenza;
- si esprima al di sopra della mischia, né di qua né di là, con una considerazione globale della realtà che, appunto perché globale, non è più ideologia.

In conclusione. Gli intellettuali hanno finora, come casta, “dominato” il mondo. Ora devono solo, da cittadini, imparare a viverlo, come servizio. Dimenticando Parigi.

Andrea Talia

Febbraio, 2009

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