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NOMADI, ROM, SINTI: sì ai diritti. E i doveri?

Di Luigi Pinelli - gia' Comandante polizia municipale di Lucca

“Se è un dovere rispettare i diritti degli altri, è anche un dovere far rispettare i propri”

(Herbert Spencer)

I dibattiti televisivi e gli interventi sulla stampa in materia di nomadismo, ultimamente assai numerosi, lasciano nello spettatore e nel lettore soprattutto la sensazione di una colossale confusione di idee, sia dal punto di vista terminologico che in termini di sostanza.
Senza una appropriata competenza specifica, per un comune cittadino è quindi indispensabile, prima di articolare una qualsiasi opinione sul delicatissimo tema di cui trattasi, mettere a fuoco prudentemente una serie di brevi puntualizzazioni per fare argine sia alla diffusa ignoranza che alle prevedibili strumentalizzazioni da parte di chi, ora per partito preso o più spesso per interessi facilmente intuibili, rifiuta di guardare oggettivamente la situazione.

Nomadismo

Per nomadismo si intende generalmente lo stile di vita caratterizzato da spostamenti periodici, proprio di popolazioni non sedentarie.
Il nomadismo è fatto risalire alla apparizione dell’uomo sulla terra, quando l’economia primordiale si basava esclusivamente sulla pastorizia (legata forzatamente alla transumanza), sulla caccia e sulla ricerca e la raccolta dei frutti spontanei della terra. L’inizio della sedentarizzazione è generalmente datato alla fine del neolitico, quando lo sviluppo delle tecniche agricole consentì la sopravvivenza mediante l’allevamento del bestiame e la produzione di cibi in sede stabile.
Ovviamente la componente ambientale e la ricerca di risorse non furono gli unici fattori a determinare il fenomeno del nomadismo, che in qualche misura sopravvisse infatti alla diffusione della sedentarizzazione, costituendo anche un mezzo per sottrarsi alla possibilità di conflitti, per assicurare a certe popolazioni una più ampia autonomia, per favorire lo scambio di servizi e prodotti, per sottrarsi periodicamente all’alternanza di fenomeni climatici particolarmente ostili o addirittura per sfuggire ad epidemie ed a determinate malattie.
I modi di vita dei vari gruppi caratterizzati dal nomadismo hanno dovuto progressivamente fare i conti, tuttavia, da un lato con l'incremento demografico e dall’altro con il sempre crescente uso intensivo del territorio. Nonostante la loro esiguità numerica (relativa, stimandosene diversi milioni di unità nel mondo), i gruppi dei nomadi ancora presenti ai nostri giorni risultano spesso in oggettivo contrasto, quasi ovunque, con i modi di vivere – buoni o non buoni – evolutisi di fatto nel pianeta ed in modo particolare con quelli riscontrabili nelle civiltà occidentali.

Denominazioni

A carattere generale, con il termine “nomade” (dal greco nomas, “chi si sposta per cambiare pascolo” ovvero “individuo di popolazione che non ha dimora stabile ma cambia continuamente sede”) si individuano genericamente realtà estremamente variegate sotto il profilo etnico, storico, culturale o geografico.
All’interno della generica definizione di nomadi, i gruppi tuttora rintracciabili in Italia ed in Europa vengono più frequentemente indicati con il nome “eteronimo” di “zingari” piuttosto che con i nomi “autonimi” che essi usano per definire se stessi.
L’origine del termine “zingari” non è certa. Secondo alcuni, esso deriverebbe da Atsiganoi o Atsinkanoi, il nome di una antica setta eretica dell’Asia Minore. Secondo altri, deriverebbe invece da una parola greca significante “intoccabili”, chiaramente riconducibile all’India.
Molti storici, in mancanza di fonti scritte, propendono proprio per l’ipotesi dell’origine indiana, in ciò confortati, oltre che da talune caratteristiche linguistiche, forse (ignorandosi la reale affidabilità della notizia) anche dalla presenza – v. “Wikipedia Enciclopedia libera” - nella percentuale di quasi la metà degli zingari di un cromosoma “Y tipo H-M82” estremamente raro in popolazioni di altra provenienza.

Comunque stiano realmente le cose, il dizionario della Lingua Italiana di Sabatini-Coletti definisce lo zingaro come “appartenente a un gruppo etnico originario dell'India, stanziatosi successivamente anche in Europa e nel resto del mondo, che conduce vita perlopiù nomade”.
Pressappoco allo stesso modo, il dizionario Garzanti identifica nello zingaro “chi appartiene a una popolazione di origine orientale, diffusa in molti paesi europei, con lingua e costumi particolari; molti gruppi di tale popolazione sono nomadi e ... esercitano la cartomanzia, la chiromanzia, ecc”.

Da parte degli zingari, l’identificazione preferita sembrerebbe quello di “rom”, anche se in realtà detto termine era usato in passato per identificare un insieme di etnie originariamente nomadi che, allo stato attuale, in buona parte il nomadismo non lo praticano affatto o solo in parte.
In tempi assai recenti, siccome la parola “zingari” è sembrata aver assunto una connotazione negativa (ed è vero che pochi di noi possono negare di essere stati – da ragazzi -apostrofati come “zingari” da parte dei genitori dopo essere tornati a casa “”inzaccherati” da capo a piedi), qualcuno ha ritenuto di doverne bandire l’uso in quanto “politicamente scorretto” (anche se sarebbe stato più opportuno cercare di eliminare i motivi dello scadimento del termine) e di sostituirla con i termini di “nomadi” (benché non tutti lo siano) o di “rom” o “sinti”, che ne costituiscono solo alcune delle etnie e non il tutto.

Siccome personalmente ho la fortuna di non aver mai sofferto di pregiudizi razziali, parendomi da sempre assolutamente pacifico che la razza umana è una ed una soltanto, non trovo alcuna difficoltà né alcunché di scorretto nella utilizzazione del termine “zingari”, che nella rassegna effettuata dei numerosi scritti sulla materia sembra allo stato delle cose quello più idoneo a indicare la totalità delle etnie rintracciabili nel variegato mondo del nomadismo. Naturalmente, conoscendo la propensione di alcuni a tacciare di razzismo chiunque non la pensi come loro, ad evitare fraintendimenti è opportuno chiarire immediatamente che il fatto di essere completamente immuni da pregiudizi di tale natura non equivale a dire che non siano lecite distinzioni o apprezzamenti riguardanti abitudini o comportamenti che, senza generalizzazioni, connotino tuttavia in modo specifico determinati gruppi o specifici modi di vivere. Se nessuno si è mai sentito dare del “razzista” per aver sostenuto, ad esempio, che gli inglesi sono presuntuosi (ovviamente non nella totalità), se si fanno tranquillamente barzellette sulla tirchieria degli scozzesi, se i giornali rinfacciano abitualmente ai francesi le loro manie di “grandeur”, se è abituale qualificare i giapponesi come lavoratori infaticabili e rappresentare invece i messicani come dediti soprattutto alla siesta, se a nessuno è mai venuto in mente di dare del razzista a chi nei libri di geografia ci ha raccontato che i pigmei sono piccoli e neri mentre gli svedesi sono alti e biondi, non si vede come non debba essere lecito – parlando di zingari – evidenziarne quelle abitudini e quei comportamenti che – caratterizzandoli per la quasi totalità - pur senza generalizzare ne rendono spesso estremamente problematica la convivenza e l’integrazione con le popolazioni con cui vengono a contatto.

Francamente stupisce dunque, proprio nel momento storico in cui il concetto di razzismo basato sulle differenze e su presunte superiorità razziali sembra oggettivamente venuto meno in seno a qualsiasi società civile, che qualcuno voglia estenderne l'accezione addirittura alla condanna di decisioni politiche intese alla regolazione dell'immigrazione incontrollata, alla difesa della cultura autoctona, al contenimento di ideologie incompatibili con la Costituzione vigente o addirittura alla adozione di più efficaci misure di controterrorismo.
Il razzismo, lo dice la parola stessa, è strettamente legato unicamente a questioni razziali che, per fortuna, sembrano totalmente assenti nel nostro paese. Ben altra cosa sono i punti di vista, comunque legittimi, in merito all'immigrazione, all'ideologia, alla cultura, alla religione, ai costumi, all’educazione ed alla scelta ed all'applicazione delle leggi o delle misure militari e di polizia, sulle quali deve ritenersi del tutto lecito discutere senza remore e senza la spada di Damocle di accuse insensate da parte di chi, affermando di respingere le generalizzazioni, di fatto rappresenta la peggior fonte di generalizzazione e discriminazione.
E del resto, il solo fatto che gli zingari chiamino spesso se stessi con i due nomi di “rom” (centro e sud) e “sinti”(nord), il cui significato è in entrambi i casi quello di "uomini liberi", e riservino invece agli altri - cioè agli stranieri (per loro) - il nome di “gagi”, significante "non-uomini", “sempliciotti”, “paurosi”, senza che i destinatari si siano mai risentiti dei contenuti spregiativi insiti in tali appellativi in modo ben più evidente di quelli ricavabili dal termine “zingari”, parrebbe più che sufficiente per respingere speculazioni che, in condizioni di reciprocità, non dovrebbero avere ragione di essere, anche senza la necessità di rifarsi alla recente sentenza della Cassazione secondo cui neppure “la frase «dove ci sono gli zingari ci sono i furti» esprime odio razziale, ma una «semplice avversione».

Ovviamente, se l’esperienza conta qualcosa, per quanto ci si adoperi il fraintendimento - soprattutto da parte dei “buoni” per mestiere - è pressoché scontato. Ma siccome non è neppure concepibile che si debba lasciare la parola solo a chi la pensa in un certo modo, anche il bambino del “re nudo” di Andersen ha diritto di dire la sua, perché “omnia munda mundis”.

Gli zingari in Italia

In Italia gli zingari sembrerebbero essere arrivati per la prima volta nel 1422, quando un centinaio di loro passarono da Bologna, diretti a Roma.
Anche se notizie storiche sono estremamente incerte, la presenza attualmente più consistente deriverebbe però da un grande gruppo di “rom” insediatosi inizialmente nell’Italia centro-meridionale, raggiunta probabilmente via mare dai Balcani e dalla Grecia.
Un altro gruppo è individuabile nei “Caminanti siciliani”, discendenti di ambulanti probabilmente autoctoni (venditori ambulanti di semi di zucca, ceci abbrustoliti, torroni, palloncini nelle feste patronali delle zone di Noto) incrociatisi negli anni con gruppi zingari allogeni.

Il gruppo dei “sinti”, di origine francofona (”Manuches”) si sono invece diffusi, in varie epoche, soprattutto nelle regioni italiane della pianura padana, Emilia-Romagna compresa.
Tra i “sinti”, che rivendicano un passato di circensi, va attualmente annoverata Moira Orfei, secondo quanto da lei stessa affermato in varie ospitate televisive. Secondo quanto riportato invece da internet, anche il calciatore Andrea Pirlo sarebbe di origine “sinti”. Se tali indicazioni sono veritiere, qualcuno dei soliti “buoni” dovrebbe spiegare come i “sinti” appena nominati non risultino essere mai stati oggetto di discriminazioni a motivo della loro origine e siano stati e siano invece unanimemente apprezzati sia dal punto di vista professionale che da quello comportamentale.

Gli zingari e il lavoro

Gli zingari, in particolare i rom ed i sinti che ne costituiscono le principali etnie, rivendicano di avere esercitato per secoli dei lavori, tramandati di padre in figlio, che erano in accordo con il tipo di vita nomade allora praticata.
In effetti, se capita di venire in contatto con appartenenti a tale popolo, anche al giorno d’oggi è frequente sentirli affermare – falsamente - che i mestieri con cui si guadagnerebbero da vivere sarebbero ancora quelli di:

Molti di questi mestieri, praticamente la loro totalità, nella società attuale o risultano purtroppo superati e concretamente impraticabili oppure, laddove si dovesse trovare ancora qualcuno costretto o disposto a ricorrere alle prestazioni degli zingari, verosimilmente inidonei ad assicurare una resa significativa in relazione alle necessità di sostentamento comuni attualmente a qualsiasi modo di vivere.
In un’epoca afflitta dal problema dello smaltimento dei rifiuti, in cui è spesso antieconomico far riparare persino una lavatrice, un televisore od un computer, è difficile pensare che qualcuno possa andare a cercare gli zingari per farsi aggiustare una casseruola o una pentola, se non altro perché con i costi della benzina spenderebbe probabilmente di più che comperarla nuova nel supermercato vicino a casa, o per farsi arrotare un coltello o fabbricare un paniere di vimini. Quanto ai suonatori ambulanti, a parte l’obbligo della iscrizione nell’apposito registro dei mestieri girovaghi, è sotto gli occhi di tutti come la gente si fermi sempre meno ad ascoltarne le esibizioni e come le offerte siano ancora più rare e quasi certamente insufficienti ad assicurare il necessario a qualsiasi famiglia.
Quanto al commercio dei cavalli, il fatto stesso che zingari a cavallo non se ne vedano ormai da decenni dimostra come anche tale ipotetica fonte di reddito si sia ormai estinta da tempo per morte naturale.
In ordine alla qualifica di giostrai che spesso i mezzi di comunicazione continuano ad attribuire a qualche zingaro incappato nelle maglie della giustizia va detto, innanzitutto, che attualmente il mestiere di “giostraio”, come era inteso al tempo in cui anche i nomadi effettivamente lo praticavano, è da ritenersi anch’esso estinto, in quanto la gestione di giostre è una attività ricompresa nella legislazione dello “spettacolo viaggiante” che richiede anche allo zingaro, oltre che ingenti capitali per l’acquisto dei cosiddetti “mestieri”, quali giostre, autoscontri, tirassegni e “circhi”, il possesso di determinati requisiti per il conseguimento di apposite licenze di polizia amministrativa, dei necessari fascicoli tecnici, di libretti di uso e manutenzione, delle costose certificazioni di corretto montaggio e di quant’altro prima di poter operare e di poter accedere nelle apposite aree che i comuni sono tenuti a predisporre per tali attività. In questo quadro, dovrebbe essere intuibile per tutti come la romantica rappresentazione del giostraio che un tempo ormai lontano poteva girare, senza alcuna apprezzabile formalità amministrativa e senza l’obbligo di preventivi e rigorosi collaudi tecnici delle attrezzature, con uno sgangherato carrozzone ed una piccola giostra tirati da cavalli non abbia evidentemente più spazio.
Riguardo ai “mestieri” di chiromanti e cartomanti, volendola dire con lo scrittore Luciano De Crescenzo, si può solo osservare come essi rappresentino nient’altro che una tassa sulla imbecillità, probabilmente anche assai redditizia per altri (maghi vari) ma non certo per chi pretenda - come gli zingari - di ricavarne qualcosa infastidendo la gente per strada, dove anche i più creduloni esitano a venire allo scoperto come ipotetici clienti.

Venute fatalmente meno le secolari attività della tradizione, l’individuazione di possibilità di lavoro compatibili con il nomadismo risulta estremamente problematica. Neanche per i nomadi passati alla sedentarizzazione, però, la situazione sembra al momento molto migliore, se non altro per la scarsa scolarizzazione non solo degli anziani ma anche di molte delle generazioni più recenti.
Se gli zingari continuano a nascondersi, con il tono lamentoso che li contraddistingue, dietro l’assurdo alibi che non trovano la possibilità di esercitare mestieri che non ci sono più e non dimostrano concretamente la volontà di applicarsi in attività reperibili nella società attuale, che senso ha parlare di integrazione e sollecitare contributi pubblici funzionali solo a perpetuare una condizione sostanzialmente parassitaria?
Per mettere alla prova le loro reali intenzioni, possibile che a nessuno sia mai venuto in mente di mettere a loro disposizione – anziché campi nomadi o alloggi di altra natura - un bel podere con relativa casa di abitazione, di dotarli di sementi e macchine per i lavori agricoli, di rifornirli di alimenti fino al primo raccolto e di lasciarli poi completamente in balia di se stessi laddove risultasse che la “chance” offerta loro fosse stata completamente disattesa?
La realtà offre infatti numerosi esempi attestanti che chiunque, non escluso qualche zingaro, abbia lealmente la volontà di integrarsi, alla fine riesce a farlo. Anche i mugnai, gli ombrellai, i seggiolai, i materassai e gli spazzacamini ambulanti di etnia italiana hanno dovuto prendere atto non molti anni fa della estinzione dei loro mestieri e se non sono finiti in un campo nomadi è dovuto semplicemente al fatto che nessuno di loro se ne è rimasto con le mani in mano a rimpiangere il passato o, peggio, a vivere alle spalle dello Stato o degli altri.

Ma se quasi nessuno tra gli zingari lavora, alcune domande sorgono inevitabilmente spontanee:
come fanno ad acquistare ed a mantenere i “macchinoni” con cui si muovono e i motorini e le biciclette che stazionano in gran numero nei loro accampamenti? Come fanno a dotarsi delle “parabole televisive” che costellano i tetti dei loro accampamenti? Come riescono a comprare le grosse collane e i massicci pendagli d’oro che ostentano? E, volendo acquisire altri elementi per conoscere meglio la loro situazione, qualcuno è in grado di documentare quanto l’erario incassi annualmente a titolo di imposte dirette versate dagli zingari? E, ancora, i Comuni incassano qualcosa per lo smaltimento dei rifiuti e per i consumi di acqua, così come l’Enel per quelli dell’energia elettrica dei campi nomadi? E il servizio pubblico della Rai percepisce i canoni degli abbonamenti televisivi? E il servizio sanitario nazionale percepisce qualcosa dagli zingari, che pure se ne avvalgono? E quanti tra gli zingari pagano il biglietto sui mezzi pubblici di certe linee di Roma e di altre metropoli?
Se, come si vorrebbe farci credere, gli zingari, senza lavorare, riescono ugualmente ad onorare tutti gli obblighi predetti, comuni a qualsiasi altro cittadino, senza sconfinare nella illegalità, il ministro Tremonti farebbe bene ad acquisirne subito la ricetta senza spremersi le meningi alla ricerca della “finanziaria” più idonea a risolvere i problemi economici della nazione.

Nella ricostruzione – ancorché scevra di qualsiasi pregiudizio ed ancorata semplicemente ad aspetti che chiunque può vedere, purché lo voglia senza la nebbia dell’ideologia - qualcosa deve essere evidentemente sfuggito, se alcuni - non solo su internet - non sembrano nemmeno accorgersi di certe problematiche ed anzi preferiscono dipingere gli zingari come vittime dei pregiudizi e delle tante discriminazioni di chi li ospita. E’ il caso, ad esempio, dei sorprendenti rilievi mossi proprio in questi giorni all’Italia dalla Comunità europea, a motivo di una presunta mancata tutela degli zingari dagli atti ostili verificatisi contro alcuni dei loro numerosi accampamenti, peraltro condannati immediatamente a qualsiasi livello. Di fronte ai problemi di sicurezza che assillano la generalità di tutti coloro che vivono in Italia, la sollecitudine “mirata” dell’Europa proprio e solo nei riguardi del popolo zingaro lascia oggettivamente perplessi, non solo per la verosimile infondatezza dei rilievi quanto per la totale disattenzione riguardo ai problemi derivanti agli altri cittadini da comportamenti della quasi totalità dei nomadi, che solo non vivendoci accanto si può fingere di ignorare.
Personalmente, avrei ad esempio da chiedermi perché la mancanza della stessa difesa preventiva, evidentemente non generalizzabile ma che l’Europa invoca solamente o soprattutto per gli zingari, non sia stata lamentata quando le cronache locali riferirono anni fa del tentativo di una nomade in stato di gravidanza permanente effettiva, coadiuvata da una minorenne, di forzare la porta di ingresso della mia abitazione (che ne porta ancora i segni) e perché né l’Europa né altri si siano fatti sentire quando, il giorno successivo, le stesse due nomadi – benché già identificate -ebbero la possibilità di ripetere con successo l’impresa a Montecatini e qualche giorno dopo a Firenze, fino a raggiungere qualche mese fa nel Trentino l’incredibile primato di settantatre denunce senza un giorno di carcere, secondo quanto riferito da stampa e televisione. Come mai nessuno ha alzato la voce contro una violazione di fondamentali diritti altrui tanto reiterata? E cosa deve pensare quel mio congiunto che, prescindendo dal danno economico, in un colpo solo si è visto portar via di casa da parte di zingari tutti i ricordi personali di insostituibile valore affettivo (fedi nuziali, orecchini, catenine, anelli in oro e orologi) di genitori, nonni, zii ed altri parenti scomparsi negli anni?

Gli zingari e l’integrazione

Secondo il rapporto annuale dell'Opera nomadi, in Italia "è ragionevole pensare che solo il 10 per cento dei 160 mila (zingari) sia integrato". In altri termini, gli zingari che lavorano sarebbero solo il dieci per cento del totale. Data la fonte, il dato può ritenersi più che attendibile, anche se di certo non arrotondato per difetto.
Comunque stiano le cose, si prenda dunque per buono che quel dieci per cento effettivamente lavori nel commercio, nell’edilizia, nelle imprese di pulizia o nei servizi pubblici, come si sostiene, anche se in concreto è difficile avvertirne la presenza, e si ammetta pure che il dieci per cento che lavora si renda volontariamente invisibile solo per prevenire il pregiudizio con cui la categoria deve fare in molti casi i conti.
Tutto ciò evidentemente non toglie, se la matematica non è un’opinione, che chiunque non voglia fare come gli struzzi debba chiedere e chiedersi ancora: e l’altro novanta per cento cosa fa e di cosa vive?
Eppure, di dare una qualsiasi risposta ad una domanda del genere il “Rapporto della Commissione europea contro il razzismo e le intolleranze” del 2007 non sembra aver minimamente sentito il bisogno, così come ha sorvolato del tutto in materia di devianza e criminalità, altro aspetto inscindibile in quanto causa ed effetto del non-inserimento sociale di almeno il novanta per cento del popolo zingaro.
Se è infatti sbagliato – almeno in linea di astratto principio, dato che in concreto non si sa - generalizzare e dire che tutti i rom delinquono, non si capisce come non si debba anche prendere atto nel contempo che esistono comunità che "delinquono al cento per cento", come onestamente ammette il responsabile dell’Opera nomadi Massimo Converso pur senza fornire, per comprensibile carità di patria e per non alimentare ulteriormente il pregiudizio, cifre e percentuali.
Nelle condizioni attuali, anche in mancanza di dati certi non sembra azzardato ipotizzare, infatti, che il novanta per cento che non lavora viva solo in esigua parte dell’accattonaggio petulante in cui impiega soprattutto i minori e per il resto inevitabilmente di attività illegali e, in particolare, dei proventi di borseggi ancora con impiego di minori, di furti, di piccole truffe e di qualche rapina, spesso in danno di persone non sempre in grado di difendersi in modo adeguato.
Su presupposti del genere, che non sono frutto di vicende attuali ma appaiono consolidati da una pratica ormai secolare, parlare di sussidi e di scolarizzazione o sostenere che ”il governo dovrebbe investire sui progetti per l'autocostruzione delle case e sugli incentivi agli affitti” equivale a pestare l’acqua nel mortaio, o, per dirla più chiaramente, a farsi prendere in giro.
Perchè maturi l’integrazione, infatti, la prima irrinunciabile condizione è che gli zingari manifestino concretamente la volontà di integrarsi, pur senza rinunciare ai costumi ed alle usanze private del loro popolo.
La seconda condizione, anch’essa imprescindibile, è quella che gli zingari accettino di lavorare nelle attività richieste dalla società attuale, anziché nascondersi dietro il ridicolo alibi di essere disoccupati perché discriminati nell’accesso alle attività che affermano di saper svolgere da secoli, ben sapendo che la quasi totalità dei relativi mestieri non esiste più da decenni.
In sintesi, prima dei fumosi interventi “a salvaguardia dell’etnia rom” ipotizzati da certi non disinteressati “buonisti” e in qualche misura già rintracciabili anche nei provvedimenti di qualche regione, la prima legge ipotizzabile per il bene e la credibilità degli zingari, oltre che di chi si trova a viverci vicino, dovrebbe essere costituita solo da un articolo recante un unico precetto, brutale ma ineludibile per chiunque voglia effettivamente integrarsi in qualunque parte del pianeta: “Per mangiare bisogna lavorare”.
Qualcuno può, in tutta coscienza, sostenere che sul dovere di lavorare gli zingari abbiano fatto anche un solo passo avanti da cinquant’anni a questa parte, vale a dire in un periodo di tempo di cui chi abbia superato una certa età può essere testimone diretto? O qualcuno potrebbe negare, con dati di fatto inoppugnabili, che abbiano invece fatto addirittura più di un passo indietro, con la mancata sostituzione dei mestieri smessi per naturale estinzione?
E, se si vuole, c’è infine una sola persona, estranea a interessi diretti, che possa affermare che gli zingari abbiano fino ad ora dato in proporzione di quanto hanno ricevuto, poco o tanto che sia?

Gli zingari e i campi nomadi

E’ già stato chiarito che il termine zingaro, senza alcuna accezione negativa, è utilizzato in questo scritto al posto di quello di “nomade”, preferito dai “buonisti” interessati alla materia, semplicemente perché comprensivo sia dei “nomadi” ancora tali che degli “ex-nomadi” ormai sedentarizzati. E del resto, anche se le parole hanno la loro importanza, se un nome dovesse bastare ad offendere una categoria anche i “gagi” avrebbero diritto a qualche motivo di risentimento per molti dei significati che gli zingari riservano a detto termine.
In relazione ai “campi nomadi”, invece, il termine “nomadi” dovrebbe avere una connotazione assolutamente prioritaria.
Se i “campi nomadi”, lo dice la parola stessa, sono costituiti da aree destinate ad accogliere chi ancora pratica il nomadismo, evidentemente lo stazionamento non dovrebbe esservi consentito a qualsiasi zingaro ma solamente a quella parte degli zingari effettivamente dediti al nomadismo, nomadi o non nomadi per etnia, e solo per il brevissimo periodo di tre giorni già previsto in passato.
Su tale presupposto, qualcuno dovrebbe spiegare perché i “campi nomadi” di molte città siano invece attrezzati non solo con illuminazione pubblica, prese per acqua e luce e contenitori per la raccolta dei rifiuti ma anche e incomprensibilmente con vere e proprie abitazioni più o meno prefabbricate e comunque installatevi in pianta stabile. Se il “nomade” fa davvero il “nomade”, l’abitazione – come la lumaca – dovrebbe portarsela dietro. Diversamente, non si capisce perché debba aver diritto ad una abitazione gratuita in ogni campo in cui si trova a passare e a fermarsi, senza che lo stesso diritto sia riconosciuto anche a qualunque altro cittadino italiano che, nel mese di ferie annuale, volesse praticare lo stesso tipo di vita passando quindici giorni all’Isola d’Elba ed altrettanti all’Abetone in alloggi messi gratuitamente a disposizione dai relativi comuni..

Ma vi è di più.
Nei “campi nomadi”, si trovano anche nuclei familiari che vi risiedono, rivendicando apertamente proprio per tali motivi ulteriori diritti, addirittura da generazioni. Anche in questo caso, evidentemente, qualcuno dovrebbe far capire, non solo a chi è interessatamente già convinto a priori ma anche al comune cittadino che attende da anni una casa popolare o che da anni paga un mutuo per quella che ha, in base a quale misterioso principio la casa, per quanto modesta, ad altri debba essere invece concessa in modo gratuito semplicemente in virtù della appartenenza ad un etnia diversa.
Per chi sia estraneo, come già detto, a qualsiasi pregiudizio razziale e sia scontatamente convinto che gli zingari, se in possesso degli stessi requisiti previsti dal nostro ordinamento, debbano avere esattamente gli stessi diritti di qualsiasi altro cittadino, l’assegnazione gratuita di un alloggio (per quanto modesto e per quanto all’interno di un “campo nomadi”) risulta infatti non solo inconcepibile ma addirittura assimilabile ad una forma di “razzismo alla rovescia”, inaccettabile quanto le imprecisate forme di “razzismo” lamentate dagli zingari.

Gli zingari e i diritti e i doveri

L’argomento è estremamente scivoloso, dato che molti pretendono di accomunare zingari, immigrati, estracomunitari, vù cumprà, profughi, tossicodipendenti, barboni e chi ne ha più ne metta, creando ad arte un polverone all’interno del quale torti e ragioni finiscono regolarmente per confondersi.
Faceva così quel tale che nelle barzellette, parlando di tre conoscenti, diceva che uno era avvocato, uno ingegnere e il terzo svizzero.
Limitando le poche osservazioni che seguono strettamente all’argomento degli zingari, è perciò sufficiente ripetere come la Costituzione e le leggi ordinarie vigenti assicurino a tutti uguaglianza di diritti, in presenza dei medesimi requisiti di volta in volta richiesti.
Partendo da tale premessa, francamente sfuggono i diritti previsti dall’ordinamento che agli zingari siano negati o conculcati, laddove siano in possesso dei requisiti per averli.
Ovviamente non avrei potuto condividere l’idea di prendere le impronte solo ai bambini rom ma l’immediata scelta di estendere il prelievo alla totalità dei cittadini non lascia spazio ad ipotesi di intenti discriminatori. Semmai, ove tecnicamente possibile, la scelta avrebbe potuto addirittura includere anche il DNA, se non altro ai fini della identificazioni delle migliaia di sconosciuti giacenti da anni nelle celle frigorifere degli obitori.
Quello che deve essere chiaro, comunque, è che i diritti non possono essere confusi con le aspettative, perché se lo zingaro si aspetta una pensione senza aver mai lavorato nelle condizioni previste dalla legge, è augurabile che la pensione non l’abbia mai.
Quanto ai doveri, il discorso non può essere che lo stesso: uguali diritti e di conseguenza uguali doveri per tutti, ricordando anche che il rispetto si conquista rispettando gli altri.
Circa le private abitudini degli zingari e di qualunque diversa etnia, infine, assoluta libertà, salvo il rispetto della legislazione nazionale. Chiaramente, il tagliatore di teste che voglia integrarsi in Italia deve scordarsi tale passatempo, così come il poligamo deve privarsi del piacere di avere due o più suocere.
Per il resto, ritornando agli zingari, a chi non è capitato, addirittura, di sognare qualche volta di vendere casa e di andare a vivere come loro in una roulotte, per liberarsi dalle bollette dell’acqua, della luce e del gas, dall’odioso canone della televisione, dall’obbligo della verifica periodica della caldaia e dei relativi adempimenti, dal fiume di lettere con cui tutti sembrano interessati ai dati catastali della sua abitazione sollecitandolo da misteriosi indirizzi che non hanno niente a che fare con i luoghi in cui vive, dalle sempre più voluminose e spesso incomprensibili comunicazioni con cui le banche lo aiutano a prosciugare il conto corrente, dalle scampanellate dei testimoni di Geova che la domenica di prima mattina vorrebbero parlargli della sofferenza, dalle minacciose ingiunzioni di enti o uffici che pretenderebbero di fargli pagare quello che ha già puntualmente pagato, dalle pubblicità con cui – se abbocca a qualcuna delle promesse di allettanti regali – è fritto per mesi, dal letturista del gas che in epoca di internet bussa alla porta per leggere il contatore proprio nel momento in cui sta entrando sotto la doccia.

Personalmente, avendo la fortuna di non avere curiosità di alcun genere nei riguardi di cosa fa il vicino di casa ma di essere invece interessato a conoscere usi e costumi di popoli diversi dal nostro, in un viaggio in Francia ho preferito assistere alla festa degli zingari a Les Saintes Maries de la mer, nella Camargue, piuttosto che ad una concomitante manifestazione più vicina alle nostre tradizioni.
Figurarsi quindi se in altre condizioni non sarei intervenuto con piacere anche al pranzo etnico tenutosi recentemente in un campo nomadi con l’intervento di molte autorità, di cui ha hanno riferito i vari telegiornali. Nella situazione attuale, invece, sul presupposto che solo il dieci per cento degli zingari si dice che lavori, avrei purtroppo dovuto declinare l’eventuale invito, parendomi di prender parte non alla consumazione dei frutti di un onesto lavoro ma piuttosto alla spartizione, in tutto o in parte, di un maltolto che il codice penale vigente qualifica semplicemente come “ricettazione”.

Lucca, 5 agosto 2008

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