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Il dovere di dire sul serio "basta"

Di GAETANO VALLINI
(da l'"Osservatore Romano" - edizione del 4 febbraio 2007)

Prendiamone atto:  il calcio in Italia è morto ieri sera insieme con il poliziotto ucciso da un criminale spacciatosi da tifoso, in una guerriglia insensata e incomprensibile. Dalle immagini in tv sembrava di essere a Beirut o a Baghdad ed invece era solo Catania, città di un paese non in guerra, ma dove il bollettino ieri sembrava quello di una battaglia:  un morto, decine di feriti tra cui un agente in gravi condizioni, medici richiamati in servizio, ospedali mobilitati come per una catastrofe.

Ma quella vissuta ieri è stata solo la parte finale di un'agonia che durava da anni e che aveva già dato un tragico, inequivocabile, segnale sabato scorso, con l'assassinio di Ermanno Licursi, dirigente di una squadra di dilettanti calabrese, da parte di due calciatori:  voleva mettere pace in una rissa, è stato colpito a morte.
Dalla serie A alla terza categoria, stesso terribile, inaccettabile copione (e sorvoliamo solo per pudore su quello che accade anche sui campetti dei campionati dei ragazzini), con uno sport ostaggio di delinquenti, persino di assassini. Altro che Campioni del Mondo! Quel titolo che aveva fatto sognare milioni di italiani oggi è carta straccia. Niente può valere la vita di un uomo, figuriamoci una partita di pallone.

Dopo quanto accaduto ieri, i vertici del calcio, sconvolti, hanno deciso di sospendere "sine die" tutti i campionati e anche le attività delle squadre nazionali. Bene. Ma è solo un primo, piccolo passo. Siamo, infatti, convinti che non basterà fermare il calcio per qualche domenica per risolvere il problema, perché non ci vorrà molto - il passato ce lo insegna - e si ricomincerà come prima, magari anche peggio, fino alla prossima tragedia annunciata. E poi tutti di nuovo pronti a scandalizzarsi, a indignarsi, a fare analisi sociologiche anche giuste ma inutili perché senza seguito.

Occorrono, invece, segnali forti, inequivocabili, forse anche impopolari, perché la misura è colma. È giunto il momento di dire sul serio basta. Si abbia il coraggio - nonostante i forti interessi economici in ballo - di fermare almeno per un anno questo baraccone al momento ingovernabile, soffocato da scandali più o meno recenti e dalle bravate di teppisti e balordi sempre presenti e pronti a lasciare il loro infame segno. Oppure si chiudano gli stadi ai tifosi almeno fino al termine del campionato, visto che per alcuni essi sono il luogo deputato alla violenza. Si dirà che i violenti troveranno altri luoghi per sfogare i loro istinti:  sarà vero, ma intanto togliamo loro un'opportunità.

Chiediamo un anno sabbatico, un anno di stop vero, per riflettere e per agire efficacemente. Alle società chiediamo di affrontare finalmente, senza compromessi, il problema ancora irrisolto degli ultras. È noto che ci sono frange organizzate di tifo estremo foraggiate dalle società stesse che poi però se ne dicono meschinamente ostaggio. Sono persone note, ma nessuno fa nulla per fermarle. Non è più tollerabile che le curve siano zone franche, sacche di illegalità, spesso politicizzate, controllate da gruppi di delinquenti. Allo stesso modo si vada nei club dei tifosi e si cerchino i più facinorosi, i più violenti, quelli per i quali il calcio è solo un pretesto.

Certo non si può e non si deve generalizzare, ma un'opera di bonifica approfondita è necessaria oltre che urgente. E a quanti pensano che tutto ciò sia eccessivo chiediamo loro di andare a spiegare ai figli di Filippo Raciti, 9 e 15 anni, perché il papà è morto per una partita di calcio.

Dai politici ci aspettiamo il coraggio di misure ancora più severe di quelle in vigore che, a quanto pare, continuano a mostrarsi drammaticamente inadeguate a contenere il fenomeno della violenza negli stadi. Si introducano misure realmente preventive e repressive nei confronti dei violenti, facendo soprattutto in modo che vengano messe in atto senza alcuna indulgenza.
Non si capisce perché certi individui siano puntualmente allo stadio invece che altrove, magari in galera laddove si siano resi responsabili di episodi gravi. In Inghilterra ci sono riusciti con i famigerati "hooligans", perché non ci si può riuscire anche in Italia?
Che senso ha mandare drappelli di uomini delle forze dell'ordine in assetto antisommossa negli stadi - peraltro distraendoli da altri compiti e con un costo enorme - ad arrestare balordi che poi puntualmente si ritrovano di fronte con bombe, bastoni e passamontagna la domenica successiva?
Se per qualcuno lo stadio è un campo di battaglia, allora lo si combatta con la stessa determinazione con la quale si affronta un nemico in guerra.

Ai protagonisti del calcio - atleti, allenatori, dirigenti - chiediamo di attenuare i toni delle dichiarazioni prima e dopo le partite. Spesso basta poco per accendere animi già facilmente infiammabili. Occorre un'assunzione di responsabilità, nella consapevolezza che anche una parola può diventare un pretesto.

Lo stesso chiediamo ai colleghi dell'informazione, soprattutto di quella sportiva.
Prendiamo questo sport meno sul serio, impariamo a parlare di calcio considerandolo per quello che è:  un gioco. È vero, dietro ci sono milioni (forse troppi) e passioni (spesso incontrollate), ma proprio per questo è bene che si cominci ad usare un linguaggio meno aggressivo, più conciliante. Perché poi apparirebbe quantomeno ipocrita indignarsi per un morto allo stadio.

La bomba carta esplosa ieri sera a Catania si è portata via una vita e con essa l'illusione che il calcio potesse comunque "salvarsi" così com'è. Chiudiamolo, questo calcio. Un anno di fermo o di partite a porte chiuse per ripulirlo dalla melma, per ripensarlo da cima a fondo. C'è una cultura da costruire, quella che non è mai entrata in uno stadio. Tutti devono esserne consapevoli, tutti devono assumersi le proprie responsabilità. Non farlo significherebbe diventare in qualche modo complici di quelli che negli stadi e in nome del calcio arrivano persino ad uccidere.
Che i nomi di Vincenzo Paparelli, di Vincenzo Spagnolo, di Salvatore Moschella, di Ermanno Licursi e di Filippo Raciti siano un monito a fermare questa assurda barbarie.

3 febbraio 2007

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