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HO letto, sull'"Osservatore romano" del 24 dicembre 2006, una riflessione sul significato del Natale cristiano che mi pare particolarmente bella e che, quindi, ho pensato di offrire ai lettori di Fucinaidee.

Natale:  un dono offerto alle nostre mani vuote

DI ALBERTO MIGONE

Da "L'OSSERVATORE ROMANO" - Edizione del 24 Dicembre 2006

Tante cose ci chiede il Natale:  una soprattutto. Far pulito, senza spregio, certo, di tutti gli orpelli, che lo offuscano e lo riducono, per tornare all'essenziale, al punto dirimente, alla domanda di fondo. E questa ci riporta a Betlemme, a quell'avvenimento di venti secoli fa, a quella nascita per chiederci:  chi è quel bambino che nasce?

E' domanda ineludibile, se vogliamo essere seri, ed anche "pericolosa" perché dalla risposta derivano conseguenze che impegnano e segnano la strada.
Chi è dunque quel bambino? È solo uno tra i tanti, che, diventato uomo, ha detto - tramandate dai suoi amici - parole bellissime, che hanno colpito i contemporanei e risuonano ancora nei nostri cuori? Ma che è stato anche contraddetto, perseguitato e infine ucciso dai potenti di turno.

E' solo dunque una luce che ha brillato e si è spenta?
Se è così, il Natale è solo l'eco, il ricordo di una vicenda lontana, bella ma tutta umana:  può affascinarmi, ma non risolve la mia vita, che, passata la festa, resta irrimediabilmente grigia.

C'è però un'altra lettura, certo più difficile e impegnativa:  è quella che ci offre la fede, l'unica che illumina davvero il Natale.
Il Bambino di Betlemme non è un bambino qualunque, è il Verbo di Dio fatto carne.
Venti secoli fa Dio, in Gesù, è venuto sulla terra, si è fatto visibile e a noi si rivela. E quanto diverso dal Dio dei filosofi! "Non è un Dio che se ne sta in cielo, disinteressandosi a noi e alla nostra storia. È un Padre che non smette di pensare a noi e desidera incontrarci e visitarci. E il Suo venire è spinto dalla volontà di liberarci dal male e dalla morte, da tutto ciò che impedisce la nostra vera felicità" (Benedetto XVI - 2 dicembre 2006). Ed è Gesù che realizza questa liberazione in un itinerario che si snoda da Betlemme al Calvario, dalla morte alla resurrezione.

Sta qui lo stupore del Natale:  nel dono offerto alle nostre mani vuote. È un dono e come tale non può essere imposto, perché Dio "ha rispetto estremo della nostra libertà". Può essere quindi rifiutato, o non accolto in pienezza, per la difficoltà - tipica del nostro tempo - a riconoscersi peccatori e quindi bisognosi di salvezza. Per questo il Natale parla soprattutto agli umili e ai semplici perché sanno meglio accogliere le sorprese di Dio. Al contrario dei "giusti", come nel Vangelo li chiama ironicamente Gesù, che per cambiare la propria vita e il mondo confidano orgogliosamente sui mezzi, sulle strutture, sulle astuzie. È un atteggiamento teorico e pratico che attiene ai singoli, ma può caratterizzare un'intera società e a tratti contagiare perfino la Chiesa che di questa "buona notizia" è depositaria e la custodisce e la diffonde in un tempo in cui, mentre si tende a rimuovere perfino i segni esterni del Natale cristiano, sempre più emergono inquietudini e drammi - personali, familiari, di popoli interi - che chiedono una luce che aiuti.

Entrare nel mistero di salvezza del Natale vuol quindi dire per noi accettare il dono che salva, rispondervi e proporlo ad un'umanità, della quale siamo parte, in una piena condivisione della fatica dei giorni e dei pesi della vita.
Anche senza tante parole, ma diventando - e soprattutto chiedendo a Dio di diventare sempre più - "uomini e donne di fede nei quali c'è un barlume della luce di Gesù" che sanno offrire una lettura diversa della storia in cui siamo immersi:  con gli occhi degli ultimi, con lo sguardo di Dio.

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